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Autore: margheritanikolaevna    12/12/2011    2 recensioni
Questa stravagante fanfiction natalizia nasce dallo scellerato incontro tra due dei miei amori: la letteratura e...Mac Taylor. Cosa può mai accomunare il serissimo tenente della scientifica di NY all'avaro Ebenezer Scrooge? e Charles Dickens si divertirebbe o si rivolterebbe nella tomba? Se vi va, leggetela e fatemi sapere la risposta. Ah, dimenticavo...tanti, tanti auguri di buon Natale!
Prima classificata al contest "A Christmas Carol", indetto da Nekhel su efp
Questo è il link: http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=10441623
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mac Taylor
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nonostante l’assenza di commenti (ma a Natale non si è tutti più buoni? Sigh…) vado avanti con il racconto. Gli appassionati riconosceranno certamente i personaggi citati e gli episodi cui ho fatto riferimento; il resto è frutto della mia testolina bacata.
 
Seconda Strofa
Il primo dei tre spiriti
 
Quando Mac Taylor si destò, era così buio che, guardando dal letto, aveva difficoltà a distinguere fra la finestra trasparente e le pareti scure della camera. Tentava di penetrare l’oscurità con i suoi occhi da furetto, quando il campanile di una chiesa vicina batté i quattro quarti. Allora si mise ad ascoltare che ora era.
Con sua grande sorpresa la pesante campana continuò a suonare: da sei a sette, da sette a otto e così via, con regolarità fino alle dodici, poi si fermò. Le dodici! Erano le due passate quando s’era coricato. L’orologio aveva sbagliato. Doveva essersi formato un ghiacciolo tra i meccanismi. Le dodici!
Guardò il suo orologio, che si era tolto dal polso ed aveva posato sul comodino la sera prima, per correggere quell’altro sballato. Vide le lancette sul quadrante fermarsi sulle dodici.  
“Ma non è possibile” disse “che io abbia potuto dormire per tutto un giorno e un’altra mezza nottata. Non è possibile che sia successo qualcosa al sole e che sia mezzogiorno!”.
Poiché l’idea era preoccupante, balzò giù dal letto e raggiunse a tentoni la finestra. Fu obbligato a grattar via la brina con la manica della vestaglia prima di poter vedere qualcosa, e anche allora non poté vedere granché. Tutto quello che riuscì a capire fu che c’era ancora molta nebbia e molto freddo, e non si udiva il tramestio di gente che correva avanti e indietro, di macchine che sfrecciavano facendo una gran confusione, come sarebbe senz’altro accaduto se le tenebre avessero sconfitto la luce diurna e preso possesso del mondo. Questo fu un grande sollievo.
Mac tornò a letto e pensò e ripensò alla faccenda senza riuscire a capire. Più ci pensava e più era perplesso; e più tentava di non pensarci, più si arrovellava.
Il ricordo del fantasma di Bill Hunt continuava a torturarlo. Ogni volta che si convinceva, dopo una riflessione razionale, che era stato un sogno, la sua mente ritornava, come una grossa molla lasciata andare, alla posizione originaria e riproponeva lo stesso dilemma su cui scervellarsi: era stato un sogno oppure no?
Mac Taylor rimase sdraiato in quello stato finché la campana non ebbe suonato altri tre quarti; allora si ricordò improvvisamente che lo spettro lo aveva avvertito che avrebbe ricevuto una visita quando la campana avesse suonato l’una. Stabilì di rimanere a letto sveglio fino a che l’ora non fosse trascorsa; e dato che ormai non aveva più possibilità di riprendere sonno di quante ne avesse di essere svegliato dal tenero abbraccio di sua moglie, forse quella fu la decisione più saggia che potesse prendere.
L’ultimo quarto d’ora passò così lentamente che più di una volta credette di essersi appisolato senza accorgersene e d’aver perso lo scoccare dell’ora. Alla fine gli ultimi rintocchi risuonarono al suo orecchio teso.
“Ding, Dong!”
“Mezzanotte e un quarto” disse Mac contando.
“Ding, Dong!”
“Mezzanotte e mezza!” disse Mac.
“Ding, Dong!”
 “Un quartoall’una” disse Mac.
“Ding Dong!”
“L’una precisa” disse Mac trionfante “e nient’altro!”.
Aveva parlato prima che la campana suonasse l’ora, cosa che fece adesso, con un profondo, cupo, sordo, malinconico rintocco: l’una. In quell’istante una luce invase la stanza e si avvicinò al letto.
Mac Taylor, saltando a sedere, si trovò faccia a faccia con il visitatore ultraterreno che si era appressato a lui: gli era tanto vicino quanto lo sono io a voi in questo momento, ché, in spirito, vi sono gomito a gomito.
Era uno strano tipo…pareva un bambino: eppure non pareva un bambino più di quanto sembrasse un vecchio, visto attraverso una qualche lente soprannaturale che lo faceva apparire lontano, ridotto alla statura di un bambino. I capelli, che gli scendevano sul collo e sulle spalle, erano bianchi come quelli di un vecchio; eppure il viso non era segnato da una sola ruga ed era del più roseo colorito. Le braccia erano molto lunghe e muscolose; lo stesso le mani, come se la loro presa dovesse essere di un vigore straordinario. Le gambe e i piedi, dalle forme delicate, erano, come gli arti superiori, nudi. Indossava una tunica d’un bianco immacolato, e attorno alla vita portava una cintura lucente, che mandava stupendi bagliori. Teneva in una mano un rametto fresco di verde agrifoglio e, in singolare contraddizione con quel simbolo invernale, aveva la tunica ornata di fiori estivi. Ma la cosa più strana era che dalla sommità del capo gli usciva un getto di luce splendente che rendeva visibile il tutto e che indubbiamente spiegava perché tenesse sotto il braccio, onde servirsene come di un berretto, un grande spegnitoio per i momenti di tristezza.
Ma nemmeno questa, dopo che Mac l’ebbe osservata con crescente sicurezza, era davvero la sua più strana caratteristica. Perché infatti, come la cintura s’illuminava e splendeva ora da una parte, ora dall’altra, e ciò che adesso era in luce, l’attimo dopo era la buio, così la figura mutava sembianze: ora era una cosa con un braccio, ora con una gamba, ora con venti gambe, ora due gambe senza una testa, ora una testa senza corpo; non si vedeva il contorno di queste membra in dissolvenza, nella densa oscurità in cui si fondevano. E nel pieno del prodigio, l’essere tornava se stesso, chiaro e distinto come sempre.
“Sei tu lo spirito di cui mi è stata annunciata la visita?” domandò il detective.
“Sono io!”
La voce era dolce e gentile. Stranamente debole, come se venisse da lontano, anziché da lì accanto.
“Chi, o che cosa sei?” chiese Mac.
“Sono il fantasma del Natale Passato”.
“Di un lontano Passato?” domandò Mac, notando la sua statura da nano.
“No. Del tuo passato”.
Forse il poliziotto non avrebbe potuto spiegare perché, se qualcuno glielo avesse chiesto, ma aveva un forte desiderio di vedere lo spirito con in testa il berretto-spegnitoio; e lo pregò di coprirsi.
“Che cosa?” esclamò lo spettro “Vorresti spegnere così presto, con le tue mani profane, le luce che dono? Non ti basta essere uno di quelli le cui passioni hanno costruito questo berretto, costringendomi a portarlo calato sugli occhi per lunghe serie di anni?”.
Mac negò con reverenza di avere avuto intenzione di offenderlo, o di aver mai saputo che stava deliberatamente “incappucciando” lo spirito in qualche periodo della sua vita. Poi si fece abbastanza coraggio da domandargli quale ragione lo avesse portato lì.
“Il tuo benessere!” disse lo spettro.
Mac Taylor disse che gli era molto grato, ma non poté astenersi dal pensare che per un simile proposito, anche data la sua cronica insonnia, sarebbe stata più produttiva una nottata di riposo ininterrotto. Lo spirito dovette sentire il suo pensiero, perché disse immediatamente: “La tua salvezza, allora: stai attento!”
Mentre parlava, allungò la mano robusta e gli strinse gentilmente il braccio.
“Alzati! Cammina con me!”
Sarebbe stato inutile per Mac far notare che l’ora e il clima non erano adatti alle passeggiate, che il suo letto era caldo e il termometro di molto sotto lo zero; che indossava soltanto vestaglia e pantofole e che in quel periodo aveva il raffreddore. La presa, anche se gentile come la mano di una donna, non ammetteva resistenze.
Si alzò, ma accorgendosi che lo spirito lo trascinava verso la finestra, gli si aggrappò spaventato alla tunica.
“Sono un mortale” protestò “e soggetto a cadere”.
“Accetta un solo tocco della mia mano qui” disse lo spirito ponendogliela sul cuore “e sarai sostenuto ad altezze ben maggiori di questa!”.
Mentre venivano pronunciate queste parole, i due attraversarono il muro e si trovarono in una vasta piazza, circondata da alti grattacieli. New York era completamente scomparsa. Non se ne vedeva neanche l’ombra. Anche la nebbia e il buio erano svaniti, visto che si era ora in un freddo e limpido pomeriggio invernale e la neve ricopriva il terreno. Un vento gelato che il detective conosceva alla perfezione spirava senza interruzione.
“Buon Dio!” esclamò, giungendo le mani e guardandosi intorno “Chicago! sono cresciuto in questo posto. Ho trascorso qui la mia infanzia!”
Lo spirito lo osservò con dolcezza. Mac Taylor pareva ancora avvertire il suo tocco gentile, anche se leggero e durato solo un istante. Sentiva aleggiare mille odori lì intorno, e ognuno richiamava migliaia di pensieri, speranze, gioie e preoccupazioni dimenticate da lunghissimo tempo.
“Ti tremano le labbra” disse il fantasma “E che cos’hai sulla guancia?”.
Mac mormorò, con un insolito groppo alla gola, che non era niente e pregò lo spettro di condurlo dove più gli piacesse.
“Ricordi la strada?” domandò lo spirito.
“Se me la ricordo!” esclamò il poliziotto con calore “potrei percorrerla ad occhi chiusi!”
“Strano che tu l’abbia dimenticata per così tanti anni!” osservò il fantasma “Andiamo avanti!”.
Proseguirono sulla strada, con Mac che riconosceva ogni cancello, ogni albero, ogni cassetta delle lettere; finché non apparve in lontananza un piccolo quartiere, piuttosto modesto, attraversato dal fiume. Videro allora trottare verso di loro un gruppo di ragazzini che giocavano a tirarsi a vicenda palle di neve fresca; erano tutti pieni d’entusiasmo e gridavano a gran voce, tanto che l’aria frizzante traboccava di gioiose melodie e quasi rideva ad ascoltarli!
“Non sono che ombre di quel che fu” disse il fantasma “non possono vederci”.
Gli allegri fanciulli si avvicinavano e, mentre lo facevano, Mac li riconobbe tutti e ricordò i loro nomi: tra loro, Will e Jimmie Davis, seguiti dal fratellino minore Andy, che trotterellava loro dietro con qualche difficoltà, affondando nella neve alta con le sue gambette di bimbo.
Cosa era stato di quei bambini tanto spensierati e allegri? Uno di loro era stato brutalmente ucciso solo pochi anni dopo davanti ai suoi occhi, un altro era quasi impazzito per il dolore ed aveva tentato di sopravvivere concentrando il suo odio su di lui.
La morte di Will Davis era stata davvero colpa sua? La sua era stata codardia, come gli aveva gridato in faccia Andy, oppure l’innato istinto che gli aveva consentito di discernere il bene dal male e di agire di conseguenza?
Quell’episodio lo aveva appreso spietatamente alla brutalità della vita, segnando la fine della sua infanzia e, insieme, della sua spensieratezza. Lo aveva rivissuto angosciosamente per anni, prima di riuscire a perdonarsi; e, forse, non c’era mai davvero riuscito del tutto.
Forse, lo capiva adesso, era stato per riscattare quell’inazione che, da allora, aveva sfidato la morte un numero incalcolabile di volte.
Ma allora perché, nonostante ciò, in quel momento era felice al di là di ogni immaginazione alla loro vista? Perché aveva gli occhi lucidi e il cuore che batteva più forte, quando gli passavano a fianco?
Per quale motivo si sentì pieno di gioia, allorché li udì augurarsi “buon Natale” mentre si separavano all’angolo di una via o ad un incrocio, per tornare tutti nelle loro case? Che cosa significava “buon Natale” per Mac Taylor? in giro a dirsi “buon Natale!” A che cosa gli aveva mai giovato?
“Andiamo!” disse il fantasma.
Mac annuì, trattenendo a stento le lacrime.
Abbandonarono la via principale imboccando una strada secondaria di cui aveva un vivo ricordo. Presto giunsero ad una palazzina di mattoni rosso scuro: nel cortile, accanto ad una bandiera a stelle e strisce che garriva furiosamente al vento, un uomo bruno sulla quarantina tentava di trascinare verso la casa il più grande albero di Natale che un bimbo di sei anni potesse mai avere visto, in tutta la sua vita. L’uomo era forte, i suoi guanti robusti, ma l’abete era dannatamente pesante e la strada era stata lunga.
A un tratto, la porta d’ingresso si spalancò e un bimbo dai lunghi capelli un po’ arruffati, scuri come quelli del padre, apparve sulla soglia. Non indossava né giubbotto, né guanti, né cappello ma il gelo non lo trattenne e si precipitò in cortile. Corse incontro all’uomo, incespicando nella neve, senza riuscire a trattenere l’entusiasmo: quell’anno suo padre aveva davvero trovato l’albero di Natale più gigantesco di tutto il quartiere!
Lui lasciò un momento la presa e gli scompigliò affettuosamente ancor di più i capelli, ma il bimbo, con aria determinata, scostò la mano del padre, quasi che gesti di tenerezza come quello non fossero graditi, né tanto meno opportuni in quel momento solenne, in cui si decideva la sorte del loro albero di Natale.
Mentre l’uomo se la rideva vedendo sul faccino infantile di suo figlio quel piglio già così serio, il bambino afferrò l’abete e con tutte le sue forze tentò di sollevarlo.
Era una tradizione di famiglia e, insieme, una sfida. Diciassette Natali e, nel quartiere, mai nessun abete più grande di quello di casa Taylor.
Mac Taylor rimase immobile, nel cortile coperto di neve, e pianse di tenerezza a vedere quello che era stato.
Nessuna eco indistinta nell’edificio, nessuno scricchiolio, nessuna voce che riconobbe, né una goccia che cadesse nella fontanella mezza gelata nel cortile, nessun fremito far i rami spogli di un isolato pioppo avvilito, nessun pigro cigolio di una porta, nessun crepitio del fuoco nel camino mancavano di penetrare nel suo cuore dando via libera alle lacrime.
Lo spirito gli toccò una spalla e indicò il suo io fanciullo.
“Mi piacerebbe” mormorò Mac, infilandosi la mano in tasca e guardandosi intorno dopo essersi asciugato le lacrime “ma ormai è troppo tardi”.
“Che cosa c’è?” domandò lo spirito.
“Niente” rispose il poliziotto “Niente. C’era un ragazzino che cantava una canzone di Natale davanti il mio ufficio, l’altra sera. Mi piacerebbe essere stato più gentile con lui, avergli dato qualcosa, solo questo”.
Il fantasma sorrise pensieroso e fece un gesto con la mano dicendo: “Andiamo a vedere un altro Natale!”.
A queste parole, il Mac del passato diventò un po’ più grande, mentre la casa si fece un po’ più buia e vecchia. Su come questo potesse accadere, non ne sapeva più di quanto non ne sappiate voi. Sapeva solo che era vero, che tutto era andato all’incirca così e che lui era lì, nella sua stanza oscura, che fingeva di dormire mentre in realtà era roso dalla curiosità di sapere in anticipo cosa gli avrebbe portato Babbo Natale in regalo quell’anno. Aveva davvero letto la sua letterina? Avrebbe esaudito il suo desiderio? In realtà, a scuola non era mai stato il primo della classe e spesso, per essere accettato dai compagni più grandi, aveva combinato qualche guaio, sebbene dentro di sé sapesse perfettamente che stava sbagliando. Ma il desiderio di fare parte di un gruppo era più forte del suo buon senso.
Mac riviveva quelle sensazioni come se non fossero trascorsi quarant’anni da allora, ma nemmeno quaranta secondi.
Vide il bambino che era stato levarsi dal letto, nonostante il freddo pungente della notte, e scendere le scale più silenziosamente possibile. Lo vide fermarsi nell’udire un rumore dabbasso, in salotto, e sbirciare col cuore che batteva all’impazzata: allora, quei passi che aveva sentito…stava per incontrare Babbo Natale! Distinse chiaramente la sorpresa e la delusione segnare i suoi tratti delicati quando si accorse che a posare sotto l’albero di Natale una grossa scatola avvolta nella carta rossa e dorata non era il famoso vecchio con la barba bianca, ma soltanto…sua madre!
Sorrise ricordando come la mattina dopo la gioia nel trovare, in quella famosa scatola avvolta nella carta da regalo rossa e dorata, proprio ciò che tanto aveva desiderato  (vale a dire quella stessa mimetica del Sergente Rock che poi aveva tenuto addosso fino a consumarla, dormendoci persino dentro), non avesse avuto lo stesso sapore degli anni precedenti.   
Il pensiero corse inevitabile a sua madre; era morta, anziana, all’improvviso, per un aneurisma cerebrale. Senza mai riprendere conoscenza e senza, gli avevano detto, neppure accorgersene. Senza soffrire.
Fin da quell’istante gli era sembrato che la sua morte e la sua vita fossero state, in qualche modo, perfettamente riuscite: sua madre era una donna mite, gentile, piena d’amore. Aveva lavorato molto e vissuto modestamente, eppure, nonostante la semplicità della sua vita, era quanto di più lontano potesse immaginarsi dalla parola “rimpianto”.
Ogni tanto ci pensava, Mac, e sempre riaffermava a se stesso che, per quanto strano potesse sembrare, non aveva di lei che bei ricordi.
“Fu sempre una creatura delicata” disse il fantasma “ma aveva un gran cuore!”.
“Certo che l’aveva” mormorò il detective.
Nonostante si fossero appena lasciati la casetta alle spalle, erano ora nell’affollata arteria principale di una città. C’erano ombre di passanti che andavano avanti e indietro e auto che si contendevano la strada; e c’erano tutti i contrasti e il tumulto tipici di una grande città. Era abbastanza chiaro, dalle decorazioni dei negozi, che anche qui era ancora una volta Natale; ma era sera e le strade erano illuminate. Faceva freddissimo e la gente, carica degli ultimi pacchetti confezionati in fretta e furia, si affrettava a tornare a casa, al caldo.
Il fantasma si fermò davanti ad un severo edificio grigio e chiese a Mac se lo conosceva. “Se lo conosco!” disse lui “ho passato il mio primo anno da agente di polizia qui dentro!”.
Entrarono: era la sede del Distretto di Polizia n. 22, piccolo e periferico. Non un posto per chi desiderasse una brillante carriera nelle forze dell’ordine, per intenderci.
Alla vista di un vecchio sergente rubicondo che aveva indossato il giaccone d’ordinanza e stava per andarsene a casa, il poliziotto gridò, pieno di entusiasmo: “Ma guarda, è il vecchio sergente Fezziwig! Che sia benedetto: il vecchio Fezziwig l’irlandese, redivivo!”.
Il vecchio prese la pistola dal cassetto della scrivania e la mise nella fondina, diede poi un’occhiata all’orologio, che segnava le nove. Si strofinò le mani, s’aggiustò il berretto, fece una gran risata che lo attraversò tutto, dai piedi alla testa, e chiamò con voce rotonda, oleosa, ricca, grassa, gioviale: “Eeeehi, laggiù! Mac! Dick!”
Il Mac Taylor del passato, divenuto ormai un giovanotto, entrò prontamente assieme al suo compagno di pattuglia dell’epoca. Entrambi indossavano la divisa blu scuro dei poliziotti newyorkesi ed avevano un’aria terribilmente seria.
“Dick Wilkins, per l’esattezza!” disse Mac al fantasma “Certo, eccolo lì. Mi si era molto affezionato. Povero Dick. Caro vecchio Dick!”.
“Ehilà, ragazzi miei!” disse il sergente “siete pronti? iniziate ora il turno di pattuglia: lo so, è dura, la vigilia di Natale, ma voi due siete in gamba! Lavorare la notte di Natale è il privilegio che viene riservato a chi, come voi, è ancora maledettamente giovane!” rise in modo sonoro ed assestò una pacca sulla spalla di Mac, che non se lo aspettava e vacillò. “Andiamo ragazzo!” disse il sergente “Non essere sempre così serio, figliolo!”.
La sua allegria gli strappò un sorriso. In verità, sorrisero sia il Mac del passato che quello del presente, esattamente nello stesso momento.
Fezziwig con aria da cospiratore allungò all’agente Dick Wilkins un thermos. 
“Fa un freddo cane là fuori, ragazzi” disse “Ma per tirarvi su eccovi un po’ del mio speciale punch natalizio irlandese…solo gin e succo di limone, mescolati con cura a fuoco lento dalla mia paziente signora, appositamente per voi due!”.
“Conoscendola, sergente” scherzò Wilkins “scommetto che c’è molto più gin che succo di limone, o mi sbaglio?”.
“Non vorrai mica bere in servizio?” domandò uno scandalizzato giovane Mac Taylor.
Wilkins e Fezziwig scoppiarono a ridere all’unisono, ma era una risata piena di affetto. Il giovane agente si mise in tasca il thermos ignorando a bella posta la domanda del collega e lo spinse verso l’uscita con fare amichevole. “Andiamo, và!” disse, con l’aria di chi sta per intraprendere una missione disperata in compagnia del più deprimente compagno di avventura ma che, allo stesso tempo, non cambierebbe quel deprimente compagno di avventura con nessun’altro al mondo.
Il tenente della Scientifica, che aveva assistito alla scena con il cuore e il suo spirito del suo giovane io di tanto tempo prima, a quel punto si voltò verso il fantasma e si accorse di come questi lo stesse osservando con attenzione, mentre la luce sopra la sua testa s’irradiava splendente.
“Una cosa da niente” disse il fantasma “riempire di serenità e gratitudine quei due pivelli!”.
“Da niente?!” fece eco Mac, offeso dall’osservazione e parlando inconsapevolmente come avrebbe fatto in passato, non al presente. “Non è questo, Spirito, lui ha la possibilità di farci felici o infelici, di rendere i nostri compiti leggeri o pesanti, un piacere o una fatica. Diciamo pure che questa sua facoltà sta nelle sue parole e nei suoi sguardi, in cose così lievi e insignificanti che è impossibile contarle o farne una somma…”
Si accorse dello sguardo dello spettro e si arrestò.
“Qual è il problema?” domandò il fantasma.
“Nulla di particolare” disse Mac.
“Qualcosa c’è, dico bene?” disse il fantasma.
“Niente” ribatté l’altro “niente; mi piacerebbe poter dire una parola ad uno dei miei agenti in questo momento. Ecco tutto”.
Mentre esprimeva questo desiderio, le luci si spensero e lui e il fantasma si ritrovarono ancora una volta all’aria aperta.
“Il mio tempo sta per scadere” osservò lo spirito “In fretta!”.
Non stava parlando a Mac Taylor, né ad alcuno che lui potesse vedere, ma l’effetto fu immediato.
Infatti, ancora una volta, vide se stesso. 
Era adulto, ora, un uomo nel fiore dell’età. Il suo viso non recava ancora i tratti duri e rigidi degli ultimi anni, ma mostrava già i segni della preoccupazione e dello stress.
Non era solo: sedeva al fianco di una donna un po’ più giovane di lui, dai lunghi capelli ramati. Ecco, pensò il Mac Taylor del presente: ci siamo. Ecco il momento che temeva più di tutti gli altri.
Claire.
Uno dei primi Natali che aveva trascorso insieme a lei: forse il più importante della loro vita. Riconobbe l’appartamento di lei, i libri sparsi dappertutto disordinatamente, persino impilati uno sull’altro sul pavimento. Claire aveva un vestito rosso e si era drappeggiata intorno al collo, come fosse un’originale sciarpa, un festone natalizio rosso e argento.
“Avanti! Sono troppo curiosa, mostrami il tuo regalo!” gli disse implorante, cercando di agguantare il pacco che lui teneva dietro la schiena.
Lui fece segno di no con il dito. “Non si può: i regali si aprono la mattina del 25…”
“Uffa! Ma devi sempre fare il sergente di ferro anche con me?” chiese lei, divertita, continuando a tentare di infilargli le mani dietro la schiena. Fu una lotta breve ma molto piacevole per entrambi i contendenti.
“E va bene…” si arrese alla fine il giovane poliziotto, mostrando alla ragazza ciò che teneva nascosto dietro la schiena. A Claire ridevano gli occhi, ma fece una smorfia di delusione quando si vide mettere davanti un enorme pacco sontuosamente incartato; era evidente che si aspettava un pacchetto ben più piccolo e significativo…
“Voglio sperare che non sia un altro robot da cucina…” fece, gelida, mentre lacerava la carta dorata. “Sai che qualunque altra donna ti avrebbe lasciato dopo uno scherzetto come quello dell’anno scorso…”
“Avanti, aprilo!” disse solo Mac, incrociando le braccia con aria divertita.
Senza nutrire grandi speranze, Claire tirò fuori una scatola di cartone, la aprì e dentro trovò…un’altra scatola, un po’ più piccola della prima, pure infiocchettata e bene incartata.
“Se non fossi innamorata di te penserei che sei completamente pazzo!” disse.
Senza riuscire a smettere di ridacchiare per l’emozione e la felicità, dato che ormai stava cominciando a capire quale trattamento le avesse riservato il suo sadico fidanzato, le toccò scartare e aprire almeno altre cinque scatole da regalo, sempre più piccole, accuratamente sistemate l’una dentro all’altra.
Prima di tirare fuori un pacchettino che aveva esattamente le dimensioni giuste; riconobbe all’istante la sofisticata carta da regalo turchese ornata di un nastro bianco latte.
Tiffany.
Con il cuore che le batteva all’impazzata, fece a pezzi la carta e aprì l’astuccio foderato di raso, al cui interno splendeva un meraviglioso anello di diamanti.
Claire guardò l’uomo che aveva davanti giusto per una frazione di secondo prima di gettargli le braccia al collo e baciarlo con passione.
“Spirito” disse Mac Taylor, abbassando lo sguardo, gli occhi già lustri “non mostrarmi più nulla…riportami a casa. Perché ti diverti a torturarmi così?”.
“Ancora un’ombra!” esclamò il fantasma.
“No, basta!” ribatté l’altro “Basta. Non voglio vederla. Non mostrarmi altro!”.
Ma lo spirito, inflessibile, lo trattenne per le braccia e lo obbligò a guardare il resto.
Erano in un’altra scena, in un ambiente diverso. La casa che lui e Claire avevano diviso durante la loro vita coniugale. Anche qui era sera ed era Natale. L’aria odorava di abete, agrifoglio e di…bruciato, dato che Claire aveva appena tirato fuori dal forno un tentativo di tacchino ripieno, in sostanza quello che il detective avrebbe chiamato senza troppe cerimonie “un cadavere carbonizzato”.
Un Mac Taylor più vecchio solo di qualche anno, ma già infinitamente più severo nell’espressione rispetto alla scena precedente, si era appena infilato il cappotto e si accingeva ad uscire.
La moglie lo guardò con disappunto, indicando con il cucchiaio di legno che teneva in mano la porta della cucina, da cui si propagava quell’odore disgustoso.
“E’ per via del tacchino, vero?” disse, tentando di dissimulare con una battuta il disappunto di vederlo andare al lavoro persino la notte di Natale.
Mac sorrise “C’è stata un’emergenza…devo proprio andare, hanno trovato due cadaveri a Central Park, un vecchio vestito da Babbo Natale e un tale con una calzamaglia verde travestito da Grinch…potrebbero essersi uccisi a vicenda…”
“Sai che potrei tollerare di essere lasciata sola la vigilia esclusivamente se tu dovessi dare la caccia al killer di Babbo Natale, vero?” fece lei, ricacciando in gola il magone.
“Non essere arrabbiata, Claire, lo sai quanto conta per me questo lavoro…è solo una notte, una delle tante…tornerò il prima possibile e ti prometto che l’anno prossimo farò in modo da trascorrere il Natale con te” ribatté l’uomo, mettendo la pistola nella fondina e agganciando il distintivo alla cintura dei pantaloni. L’anno prossimo…
“Va bene” disse lei, un po’ triste ma in fondo già rassegnata “lo so che avremo ancora tanti Natali da trascorrere insieme…sempre che io non decida prima di lasciare un marito che mi trascura e scappare con Babbo Natale a consegnare doni in giro per il mondo…”
Claire. Che per un tempo troppo breve aveva portato la primavera nell’inverno selvaggio della sua vita.
Cosa l’aveva fatto innamorare di lei? Era, per molto versi, una persona assolutamente ordinaria, a volte irrazionale, a volte capace di perdere il controllo per delle cose che lui giudicava del tutto insignificanti.
Tuttavia, possedeva il dono della lucidità; in alcuni momenti era in grado di dire ciò che pensava in modo limpido, chiaro, con tanta forza che lui non era mai riuscito a trovare le parole per contraddirla.
Lo faceva con serenità e una profonda, inconsapevole saggezza: ecco, non c’era insicurezza in lei, né presunzione, ma solo l’immensa forza di chi è stato cresciuto con amore, nella consapevolezza di essere sempre e comunque accettato.
In quei momenti, Mac pensava che, al di là delle apparenze, era lei quella veramente forte tra loro due.
E spiritosa, piena di leggerezza.
Riusciva ancora, a volte, a ricordare il suo sorriso; eppure, anche quello se l’era portato nella tomba. Anzi, nemmeno questa frase rappresentava il suo dramma con veridicità: lei non era in una tomba, lei e il suo sorriso erano diventati polvere, aria, luce, vento, altre persone persino. Erano diventati in qualche modo la stessa città in cui lei era nata, vissuta e morta.
Per questa ragione aveva deciso (ma poi era stato veramente lui a deciderlo?) di dedicare tutte le sue energie a proteggere quella stessa città?
Che idea folle e assurda! ora lo capiva: pretendere di salvare il mondo, proteggere, servire ad ogni costo. Il male agiva nonostante tutti i suoi sforzi, era una guerra che non sarebbe mai riuscito a vincere, che nessun uomo avrebbe mai vinto.
Poteva impegnarsi al massimo, sacrificare il suo tempo e il suo piacere, poteva persino morire nel tentativo, ma alla fine avrebbe comunque perso la sua battaglia: il male sarebbe durato fino a che fosse durato l’uomo.
“Spirito” disse con voce rotta “portami via di qui!”.
“Ti ho detto che queste sono ombre delle cose che furono” rispose il fantasma “non incolpare me se sono come sono”.  
“Portami via!” esclamò Mac “non posso sopportarlo!”.
Si voltò verso lo spettro e si accorse che questi lo guardava con un volto in cui, per qualche strano effetto, c’erano frammenti di ognuna delle facce che gli aveva fatto rivedere. Allora si mise a lottare con lui.
“Lasciami! Riportami indietro. Smetti di perseguitarmi!”.
Durante la lotta, se si può chiamare lotta quella in cui il fantasma, apparentemente senza alcuno sforzo, restava indifferente a ogni attacco dell’avversario, Mac Taylor si accorse che la sua luce splendeva forte e brillante. Indovinando un oscuro collegamento tra quella e l’influsso che lo spettro aveva su di lui, afferrò il berretto-spegnitoio e, con un movimento repentino, glielo calò sulla testa. Il fantasma vi si  piegò sotto, così che lo spegnitoio lo coprì in tutta la persona; ma benché il detective lo tenesse giù con tutte le sue forze, non riusciva a nascondere completamente la luce, che continuava a fuoriuscire dal di sotto spandendosi a terra.
Mac si sentì esausto e oppresso da un’irresistibile sonnolenza, e inoltre sapeva di essere tornato nella sua camera. Spinse giù il berretto per l’ultima volta, dopo di che lasciò andare la presa. Ebbe appena il tempo di buttarsi sul letto prima di sprofondare in un sonno pesante.
 
 
 
 
 
 
 
 

  
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