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Autore: Satomi    17/12/2011    2 recensioni
[Jolanda, la figlia del Corsaro Nero - What if? -]
Una storia č un mazzo di carte, un susseguirsi di personaggi e situazioni: c’č chi osa, chi resta sul sicuro, chi si scopre all’ultimo, chi tende a restare nell’ombra.
Per cambiare una storia non serve stravolgerne l’inizio e la fine.
Basta rimescolare le carte in tavola.
Genere: Avventura, Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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1. Una lunga notte

 


Il cozzare dei boccali era l’unico rumore che poteva udirsi, lì alla posada de la Luz. L’uomo al bancone aveva preso a lustrarli uno dopo l’altro, lavorando di straccio e olio di gomito, ma quella sera nessun cliente avrebbe giovato di recipienti sì abilmente ripuliti, rari da trovare nelle osterie di Maracaibo.
Alvaro Marìn, solo nel raccolto ambiente che era la sua locanda, non aveva trovato altro modo per tener a bada il nervosismo. “Cosa non si fa per le piastre sonanti...” mormorò a mezza voce rivoltando un boccale tra le dita smagrite, insolite per un taverniere. Il giorno prima non si era trattenuto dall’esultare, quando clienti che avevano tutta l’aria d’essere dei ricconi si erano presentati alla sua porta; era certo che il suo collega e rivale, proprietario della vicina posada, fosse schiattato d’invidia alla sola vista, e tale idea l’aveva fatto sorridere di soddisfazione. Lui, lo sapevano tutti, era un uomo che viveva tranquillamente dei suoi modesti guadagni, senza tentare di rimpinguarli con disdicevoli attività.
“Che vada alla malora, lui coi suoi galli!” aveva borbottato quella sera, al vedere una considerevole folla riversarsi nella taverna d’El Toro. Augurandosi al contempo che gli avventori, imbaldanziti dal vino e dalle scommesse, riducessero il locale a un tale stato da levargli dai piedi la concorrenza per un pezzo.
Mai però avrebbe creduto che quella maledizione, pronunciata forse in un attimo estremo di rancore, avrebbe finito per rivoltarglisi contro.

Carrai! Sono già qui!” pensò Marìn all’udire dei passi frettolosi fuori dal locale, seguiti da un furioso bussare. Chiunque vi fosse fuori l’uscio doveva essere molto impaziente, e ciò spinse il locandiere ad accorrere per aprire; si vide dinanzi, come tra l’altro aveva temuto, i visi corrucciati di alcuni soldati. “Desiderate?” domandò, cercando di frenare il tremito della voce.
“Ohe, oste!” l’apostrofò uno del gruppo, venendo innanzi. “È forse tua abitudine tenere gli ospiti sulla porta?”
“Oh no, signor soldato!” replicò in gran fretta Marìn. “Accomodatevi, vi prego.” E scostò il suo magro corpo per permettere ai tre di passare; uno di essi, senz’altro il capo, gettava occhiate intorno con molta attenzione, gli occhi stretti come capocchie di spillo.
“Posso... posso offrirvi qualcosa, signor sergente?” azzardò il locandiere.
“Risparmiate il vino, señor Marìn, e rispondete invece.”
“Dite pure.”
“Immagino abbiate udito anche voi quant’è accaduto alla locanda vostra vicina.”
“Se l’ho udito? Diavolo!” si ritrovò a pensare il taverniere: il tuonare d’un buon paio di cannoni sarebbe passato inosservato in mezzo a un tale fracasso. “Il señor Rubio non sa tener a bada i suoi avventori” si limitò a dire.
“Rispondete alla domanda.”
“Ebbene sì, ho udito e a stento ho potuto chiudere gli occhi, al pari dei miei poveri clienti.”
“Eppure non dormivate quando siete venuto ad aprire” commentò il sergente guardandolo fisso. “Forse che vi attendevate il nostro arrivo?”
Il taverniere deglutì, ma cercò di mostrare una faccia più che contrita. “Sono un uomo onesto, sergente, che non ha conti in sospeso colla giustizia” brontolò.
“Siete certo che non sia giunta qui una qualche... visita inaspettata?”
La domanda fu sparata a bruciapelo, ma Marìn riuscì suo malgrado a conservare il sangue freddo. “Non capisco di cosa parliate. Qui vi sono solo io, assieme ai miei clienti.”
“Che clienti?” chiese il sergente.
“Dei gran signori, che non gradirebbero per nulla il vostro disturbo.”
Uno dei soldati scoppiò a ridere. “Por Dios, il nostro oste tira fuori le unghie!” A un cenno del superiore venne avanti, spingendo via dalle scale il proprietario. “Largo, amigo, abbiamo fretta.” Marìn era pallido come un cencio lavato. Avrebbe voluto protestare, ma temeva che altre parole mettessero ulteriormente in sospetto il sergente.
Quest’ultimo, che per indole pareva assai diverso da molti suoi commilitoni, si sentì quasi in dovere di fornire qualche spiegazione. “Non siamo qui per mettervi a soqquadro il locale, o in cerca di qualche ubriacone” disse. “I nostri obiettivi sono delle spie.”
Carrai! Spie!”
“E pericolose, anche.”
“Qui non vi sono spie, ve l’assicuro, sergente.”
“Forse no, ma alla taverna d’El Toro sì. Abbiamo ricevuta un’interessante segnalazione, così ci siamo affrettati ad accorrere.”
“E li avete presi?” domandò il taverniere trattenendo a stento i timori che in quel momento provava. Il sergente stava forse per rispondere quando dei passi improvvisi al piano di sopra gli fecero volgere in alto lo sguardo. “Ebbene?” domandò al sottoposto appena comparso in cima alle scale.
Quest’ultimo pareva alquanto imbarazzato, a giudicare dalla foga con cui si grattava la nuca.
“Non rispondi, Blanco?”
“Permettetemi di farlo al posto suo, signore.”
Una seconda figura comparve al fianco del soldato, per poi superarlo e prendere a scendere le scale, lasciando che la luce delle candele illuminasse meglio la sua persona. “Una donna!” pensò stupito il sergente. Si trovò d’improvviso il fiato corto nel vedere chi gli si era appena fermato dinanzi, sorridendogli con cortesia.
Mostrava trentacinque anni o poco più; la figura minuta era ammantata in un abito scuro che esaltava maggiormente la tinta candida della sua pelle, e che diveniva più rosea sulle guance. Un grazioso orecchino di perle le pendeva da un orecchio, mentre l’altro era tenuto saldo nella mano di lei, assieme a un elegante girocollo. “Buonasera, signori” salutò chinando appena il capo in direzione dei presenti. “Mi stavo preparando per la notte, quando ho udito i vostri discorsi.”
Il soldato di fianco al sergente batté le palpebre, come se fosse d’improvviso instupidito; Blanco profittò di quell’attimo di tregua per scendere in tutta fretta, badando a non urtare la signora.
Il sottufficiale si decise a prendere la parola, forse confortato dalle maniere tutt’altro che altere di lei. “Ci ascoltavate, signora?” disse mentre si scopriva il capo e accennava un breve inchino.
“Perdonate, ma non ho potuto farne a meno. Avevo preso a girare in corridoio, sperando che ciò mi aiutasse a ritrovare la tranquillità; ammetto d’essermi inquietata al frastuono di poche ore fa.”
“Ah! L’ha udito anch’ella!” pensò trionfante il sergente, deciso a ottenere qualche altra informazione, se poteva. “Potrei sapere il vostro nome?” chiese.
“Doña Carmen Miranda y Torres” rispose la donna. “E voi, signore?”
“Sergente Bernardo Muñoz, per servirvi.”
“Siete cortese, sergente” commentò lei, fissandolo coi suoi occhi dai riflessi color dell’acciaio. “Una dote non comune tra i nostri soldati.”
“Vi ringrazio, signora. Potrei parlare con vostro marito?”
“Non è qui, sergente. Posso rispondere io a tutte le vostre domande.”
“Mi è lecito sapere dove si trova?”
“A una cena.”
“Perché non l’avete seguito?”
“Stamane ho avuto un improvviso malessere che mi ha costretta a letto, e mio marito non ha voluto stancarmi più del necessario; d’altronde si trattava di una cena d’affari.”
“Ah!” fece Muñoz in tono dispiaciuto. “Perdonate per avervi disturbata, allora.”
“Vi preoccupate troppo. Come vedete sono perfettamente ristabilita.”
“Siete sola, dunque?”
“Oh, no. Con me vi sono i miei servi e mio nipote.”
“Vostro nipote?”
“Sì, sergente. Ora è in camera sua, a riposare.”
“Sta male, forse? È... ferito?”
La domanda fece sgranare gli occhi alla bella signora. “Che cosa dite, sergente?” fece lei mentre si portava una mano al cuore. “Perché mai dovrebbe esserlo?”
“È giovane vostro nipote?”
“Ventott’anni appena compiuti.”
“Non sarà estraneo dunque al vino e al giuoco.”
“Dov’è finita la vostra cortesia, sergente?” domandò doña Carmen, la voce fattasi d’improvviso secca. “Ora insinuate che mio nipote frequenti posti di malaffare. Ebbene sì, questa sera ha girato per Maracaibo, città che d’altronde non ha mai veduto, ma posso assicurarvi che è tornato qui tutto intero e per nulla ubriaco. E non s’è diretto alla locanda d’El Toro, se è questo che intendete.”
Il sottufficiale assorbì in silenzio quelle parole, pronunciate con cortesia ma fermezza al tempo stesso. “Non volevo offendere né voi né un vostro parente, signora” mormorò. Lei, con suo stupore, gli sorrise nuovamente, anche se con molto meno calore rispetto a prima. “Sembrate una persona seria che fa bene il suo dovere” disse. “Dunque avrete i vostri buoni motivi.”
“Li ho, signora, credetemi. Io e i miei soldati cerchiamo delle spie.”
“Qui non vi sono spie” replicò lei ripetendo le parole di Marìn. “Sono uomini pericolosi?”
“Pensiamo si tratti di filibustieri, signora.”
Quelle parole ottennero un intenso effetto su doña Carmen: il sergente la vide indietreggiare di scatto fino a cozzare col tacco contro il primo scalino, la mano libera dai gioielli a coprirsi le labbra sottili. “I filibustieri qui...” l’udì poi a mormorare con voce malferma.
“Sì, signora. Capirete dunque la mia urgenza.”
“E non li avete presi! Non sareste qui a domandare, altrimenti.”
“Uno solo, signora. L’altro è stato aiutato a fuggire da tre loschi figuri, comparsi all’improvviso nella taverna d’El Toro.”
“Mio nipote non è stato lì, ve l’assicuro” mormorò la donna, il labbro tremante; la notizia dei corsari in città, temutissimi in tutto il Golfo, l’aveva molto colpita.
“Li prenderemo, signora, è solo questione di tempo” garantì Muñoz rimettendosi il cappello in capo; non avevano più nulla da fare. Si girò, rivolgendosi al taverniere che per tutta la durata della conversazione era rimasto lì, teso come una corda di mandolino. “Badate di sbarrare porte e finestre; quei maledetti hanno un ferito, potrebbero cercare rifugio in posade come questa.”
“Che Dio ce ne scampi!” esclamò a mezza voce Marìn.
“Non è possibile” replicò la donna, che pur spaventata seguitava a mantenere la calma. “Siamo troppo vicini a quella locanda, questo è il primo posto dove sarebbero venuti.”
“Anche questo è vero, signora.” Il sergente, che s’apprestava a uscire seguito dai suoi uomini, non potè non notare un particolare. “Tremate” disse.
“Temo per mio marito” mormorò doña Carmen. “E se li incontrasse sulla via del ritorno? Lui non è uomo di spada!”
“Non spaventatevi, signora; vi assicuro che faremo quanto è in nostro potere per prenderli quanto prima. Vi porgo i miei omaggi.”
“Buona fortuna” augurò lei, e lasciò che i soldati uscissero in gran fretta.

Non occorse molto prima che nella posada de la Luz tornasse il silenzio. Solo allora due pesanti sospiri di sollievo si levarono nel locale. “Siete stata magnifica, contessa” disse Marìn asciugandosi dalla fronte alcune stille di sudore freddo. “Credevo davvero che fosse finita per me e per voi!” Lei si limitò a sorridere appena, la bella mano che si posava sul cuore dal battito ancora frenetico.
“Avete simulato sì bene il vostro spavento!”
“Oh, credetemi, signore. Il mio timore era tutt’altro che finto” replicò lei; d’un tratto pareva nuovamente preoccupata. “Non è ancora tornato” disse, e la sua voce quasi si spezzò.
“Non ancora, contessa, ma sarete la prima a saperlo quando accadrà. Ora andate di sopra a riposare, apparite stanca.”
“E come potrei? Mio marito è lì fuori, a comportarsi come quel giovane che non è più!” esclamò lei, a metà tra l’arrabbiato e l’ansioso. “No, non posso riposare in un momento come questo” disse poi, più a se stessa che al proprio interlocutore, affrettandosi a salire le scale. La luce delle candele non giungeva fin lì, eppure la donna non faticò a distinguere due figure acquattate nell’angolo, ciascuna a un lato della scala. “Posate le armi” intimò. “Non vi è più pericolo.”
Una delle due persone cui era rivoltò l’ordine si alzò, rivelando la figura slanciata di un giovane di non più di trent’anni, dalla pelle appena abbronzata. “Avete recitata la vostra parte egregiamente, zia” disse dopo aver rinfoderato la lunga spada. “Astuto, non rivelare il vostro titolo.”
“Una contessa in un’umile posada? Quel sergente avrebbe raddoppiate le domande, e non potevo permetterlo.”
“Siete la degna moglie dello zio.”
L’ultima parola fece alzare vivamente il capo alla contessa. “Che cosa avete fatto?” domandò secca, stringendo il pugno non impegnato. “Cosa avete fatto voi due, anzi voi tre?” E accennò all’ombra che ancora si teneva celata, come se non volesse in alcun modo rivelarsi.
“Impedire che accoppassero due poveri diavoli” rispose con tranquillità il nipote della contessa.
“Sollevando nientemeno che un vespaio! Vi staranno cercando in tutta la città!”
“Non ci hanno veduti in volto e non sanno chi siamo. Altrimenti temo che Sua Signoria il governatore” e qui il giovane strinse le labbra, come se provasse tutt’altro che simpatia verso la più importante personalità di Maracaibo, “ci avrebbe rovesciata indosso tutta la guarnigione.” 
Lei abbassò il capo: sembrava quasi si sentisse in colpa. Suo nipote s’affrettò a porgerle un braccio. “Ch’ulel!” chiamò poi. “Accendi la bugia.”
Si videro alcune scintille, poi il baluginio d’una fiammella, alla cui luce si rivelò un secondo uomo: alto e ben piantato, i lunghi capelli neri lasciati ricadere sulle forti spalle, la pelle di una tonalità ramigna. “Vi lascio con lui” disse il giovane abbandonando il braccio della zia. “Preferisco stare di sotto a tener d’occhio la porta. Non appena arriverà lo zio v’avviserò immediatamente.” Tuttavia, nel profondo del suo animo, sapeva che la donna non avrebbe mai abbassata la guardia, non prima d’aver avuto di nuovo il marito al suo fianco.
“Ch’ulel” disse poi la contessa rivolgendosi all’altro uomo, che a occhio e croce mostrava solo qualche anno meno di lei. “Tu mi sei sempre stato fedele.”
“Certo, mia signora” affermò lui chinando brevemente il capo; gli occhi neri, però, non s’abbassarono mai; v’era fierezza nel suo sguardo, una fierezza che la servitù non aveva spento. “Sapete che darei la vita per voi.”
“Rispondi solo a questa domanda: dov’è andato?”
Ch’ulel s’irrigidì appena. “Chi?”
“Lo sai bene: mio marito, il tuo signore.”
“Voi sola siete la mia signora, come un tempo siete stata la mia regina” replicò il servo. “Sono fedele a lui perché lo sono a voi.”
“È per questo che non l’hai seguito?” chiese la contessa in tono di rimprovero.
“No, mia signora, è stato lui a chiedermelo e io ho preferito rispettare la sua decisione.”
“Lasciandolo solo!”
“Il signor conte ha il braccio robusto, e non teme i soldati.”
“Ah!” gemette la contessa. “Dunque li ha seguiti!”
“Voleva vedere di persona dov’erano diretti. Quanto a me, ho creduto di essere più utile a vostro nipote: non ce l’avrebbe fatta a difendersi e a trasportare al contempo quel corsaro.” Ch’ulel si avvicinò maggiormente alla contessa senza tuttavia toccarla: quella donna, per lui, era ben più di una padrona. “State tranquilla; vostro marito sa quello che fa, ed è uomo prudente.”
“Ultimamente tendo a dubitarne” mormorò lei.
E mai avrebbe voluto pronunciare quelle parole.

*


“Oh!” Il carrettiere tirò con forza le redini, lasciando che il mezzo si arrestasse dinanzi al palazzo del governatore. “Caramba!” sbottò uno dei quattro soldati trasportati. scendendo con un balzo. “Quella tua bestia è un cavallo o un asino?”
“Un cavallo vecchio, signor soldato” fu la risposta appena mormorata. “Gli avete chiesto anche troppo.”
“Bah! È vivo, no?”
“Ma ancora poco e me l’avreste accoppato!”
“Smetti di lamentarti” lo rimbeccò un secondo soldato, l’unico ad aver in capo un elmetto con piume degne di tale nome. “Piglia le piastre e sparisci, tu e il tuo dannato ronzino.”
“Non posso, è troppo stanco e...”
“Vattene al diavolo, Perez. Pedro, Alonzo!” sbottò il soldato rivolto agli ultimi commilitoni. “Fate alzare quel cane!”
“Hai sentito, hijo de puta? Sta’ ritto!” Quattro mani afferrarono con forza l’ultimo uomo sul carro, l’unico a non vestire la divisa di Spagna; a coprirgli le robuste membra erano abiti piuttosto sgualciti, da avventuriero, e in più punti macchiati di sangue fresco; la fascia rossa che gli stringeva i fianchi aveva certo retto un’arma bianca e un buon paio di pistole, che i soldati dovevano avergli sottratto dopo la cattura.
“Muoviti!” La spinta fu tale che per poco il prigioniero non rovinò giù dal mezzo; riuscì miracolosamente a stare in piedi, più grazie alla forza di volontà che a quella fisica. Con uno sforzo tirò su le spalle, apparendo più alto di una buona spanna rispetto a tutti i presenti.
“Ancora qui?” borbottò all’indirizzo del carrettiere il soldato dall’elmo piumato. L’interpellato non rispose, limitandosi a indicare il proprio cavallo che fumava come una zolfatara. E maledicendosi per aver voluto, quella sera, deviare dal solito giro per andare a farsi un bicchiere alla taverna d’El Toro; se così non fosse stato, avrebbe certo evitato il frastuono furioso creatosi all’interno del locale, una tremenda lotta di spadaccini al suo ingresso e soprattutto quei soldati che gl’ingiungevano di trasportarli al palazzo di Sua Eccellenza. L’uomo che i quattro avevano catturato s’era divincolato a tutta forza, e solo un buon colpo alla nuca l’aveva costretto a crollar sul fondo del carro, semi-svenuto.
I soldati stavano ancora discutendo tra loro quando una voce imperiosa s’impose su tutte. Dal palazzo fuoriuscì un ufficiale alto e assai magro, gli occhi grigi che subito corsero a fissarsi sui sottoposti, irrigiditi nel saluto militare.
“Capitano Valera.”
“Avete fatta buona presa?”
“Eccome. Eccolo qui.” E il prigioniero fu spinto innanzi senza troppi complimenti; l’uomo che rispondeva al nome di Valera lo fissò freddamente per qualche istante, con una sorta di scintilla beffarda negli occhi. Pareva tutt’altro che soddisfatto, però. “Dov’è l’altro?” domandò secco.
Il soldato dall’elmetto piumato s’irrigidì. “L’altro, capitano?” fece debolmente, la sua sicurezza che sfumava d’un colpo.
“Sì, Alcazar, l’altro! Il vecchio notaio aveva parlato di due filibustieri, e io qui ne vedo uno solo!” Il capitano Valera percorse con un solo sguardo il gruppo. “Eravate partiti in dodici e siete tornati in quattro” constatò. “Stento a credere che due soli uomini, quantunque figli del diavolo, vi abbiano tenuto testa così bene.”
“Non erano soli, capitano” intervenne un soldato.
“No? Questa istoria mi giunge nuova.”
“È la verità.” In questo caso fu Alcazar a prendere la parola. “Tre uomini ci hanno sorpresi all’ingresso della taverna e ci hanno assaliti menando stoccate come pazzi; siamo riusciti a far prigioniero uno solo dei filibustieri, prima d’incrociare il carro del señor Perez, che passava di lì, e servircene per tornar qui in tutta fretta.”
“Fuggiti!” borbottò a denti stretti il capitano Valera. “Credevo, Alcazar, che un Bardabo come te preferisse morire sul posto piuttosto che arrendersi.” L’interpellato arrossì a quelle parole, ma conscio d’avere dinanzi un superiore ritenne opportuno non rispondere. “Durante la strada abbiamo incontrato il sergente Muñoz con due soldati” disse poi con voce soffocata. “Ho deciso d’informarlo subito dell’accaduto.”
“In effetti non è tornato dal suo giro” rifletté il capitano.
“Sarà ancora impegnato nella ricerca; gli ho detto di recarsi alla taverna d’El Toro, nella speranza di ritrovar lì il corsaro che ci è sfuggito.”
“I suoi soccorritori l’avranno condotto al sicuro.”
“Era ferito, non possono aver fatto tanta strada.” Il capitano Valera gettò un’occhiata di sbieco al prigioniero: lo vide sussultare, segno che nutriva non poche preoccupazioni per la sorte del suo camerata. “Che sai dirmi di quei tre misteriosi uomini?” chiese poi.
“Due di essi erano tremendi spadaccini, capitano. Nell’impeto del primo attacco hanno gettato a terra ben tre dei nostri.”
“E l’altro?”
“Credo fosse un selvaggio, un caraibo forse o un arawako.”
“Cosa te lo fa pensare?”
“Non maneggiava la spada ma arco e freccia, tenendosi a distanza.”
“Sapresti riconoscerli, se li rivedessi?”
“Non credo, capitano. Dopo il primo attacco ci hanno spinti in un vicolo buio, inoltre avevano tutti il volto coperto; erano alti, i due uomini bianchi vestiti di scuro e il selvaggio a torso nudo, ma altro non saprei dirvi.”
“Spero che il sergente Muñoz sia più fortunato, allora.” Valera stava per ordinare di condurre il prigioniero a palazzo, quando decise di prendere in mano la situazione: s’avvicinò al filibustiere, afferrandolo pel collo della casacca e costringendolo a voltarsi verso la piazza. “Sai dove ti trovi?” domandò, certo tuttavia di non ottenere risposta.
“Sei a Plaza Mayor, un tempo Plaza de Granada. Parecchi dei tuoi hanno lasciata la pelle qui, penzolando come si conviene ai ladroni come voi.”
Ancora silenzio.
“Tra essi vi erano quei cani di Corsaro Rosso e Verde, se non ricordo male.”
Le mani del filibustiere si strinsero convulsamente, lì dietro la sua schiena.
“Peccato che il governatore d’un tempo non sia riuscito a condurre alla forca anche l’ultimo di quella pessima razza; sarebbe stato piacevole vederlo a scalciare in aria con mezzo palmo di lingua fuori.”
Il corsaro attese la fine della frase prima di controbattere, ma a modo suo: uno sputo colse il capitano spagnuolo in pieno volto. Valera, seppur sentisse il sangue ribollirgli dentro, ebbe la forza di sorridere. “Allora li hai, gli orecchi. Ti credevo sordo” commentò sprezzante.
Prima di assestare un violento calcio nello stomaco dell’altro; a giudicare dall’urlo strozzato doveva aver toccato, con sua soddisfazione, qualche ferita ancora fresca. “Portatelo via” disse poi, lasciando che i sottoposti lo raccogliessero da terra, non ancora riavutosi dal colpo di poco prima.
E solo allora tirò fuori di tasca un fazzoletto, asciugandosi con cura la guancia da cui colava lentamente un denso grumo di saliva misto a sangue.

Il carrettiere attese che la piazza fosse nuovamente deserta prima d’incitare il suo cavallo, ormai riposato, al passo. “Si torna a casa, vecchio mio” disse imboccando la via del ritorno, le mascelle che quasi gli si slogavano a furia di sbadigli. Era stanco, a tal punto da non accorgersi di un’ombra che a poca distanza da lui aveva iniziato a prendere vita.
L’ombra, o meglio l’uomo che si era celato in essa, si sporse appena dall’angolo della casa che fino a pochi istanti prima era stato il suo rifugio. Da lì, oltre che vedere, aveva potuto cogliere ogni singola parola dei soldati spagnuoli, che certo non s’erano curati di tener basse le voci.
Per ben due volte la mano, sebbene ormai percorsa da più d’una ruga, era corsa all’elsa della spada colla celerità che l’aveva distinto in gioventù; avrebbe dato qualunque cosa per poter conficcare la sua lama dritta nella gola di quel maledetto capitano, o per correre in aiuto di quello che una volta era stato un suo fedelissimo.
Non era riuscito a trattenere un fremito d’impotenza mista a gratitudine, quando l’aveva veduto reagire a dispetto delle ferite, incapace di far restare impunita un’ingiuria all’onore del suo antico comandante.
L’uomo si ravvolse nel suo mantello, pronto ad allontanarsi. Non prima di fare a se stesso una promessa che avrebbe mantenuto a tutti costi.
“Avrete presto mie nuove, conte di Medina.”

*

“Un altro.”
Marìn fissò dubbioso il giovane seduto al bancone. “È il quarto” constatò. L’altro sorrise, di un sorriso diritto e lucido. “Sono uomo di mare, signore, e come tutti coloro degni di tale titolo ho la gola spesso asciutta; suvvia, non lesinate il vino, son pronto a pagarvelo.”
“Se lo dite voi” disse con un’alzata di spalle il taverniere. Stava empiendogli nuovamente il bicchiere quando due forti colpi risuonarono alla porta. Il giovane s’alzò in piedi con uno scatto, mettendo mano alla sua arma bianca. “Correte a vedere” ordinò a Marìn che pure s’era alzato, anche se con minor impeto.
“Chi... Chi vive?” balbettò il taverniere, le labbra a un soffio dall’uscio sbarrato.
“Aprite, svelto. Sono io.”
Il giovane s’illuminò a quelle parole. “Lo zio! Finalmente!” esclamò. E un grido di gioia l’avvisò che anche la contessa, al piano di sopra, aveva appresa la ben lieta notizia.

“Avevi ragione, Enrico.” Quella fu la prima frase compiuta pronunciata dal nuovo arrivato dopo il suo ingresso nella posada; il respiro corto causato dalla corsa improvvisa fin lì, nonché l’abbraccio della moglie, avevano minato per un breve tempo le sue facoltà oratorie. “L’hanno condotto... al palazzo del governatore...”
“Zio, riprendete fiato” l’invito il giovane vedendo come il suo parente, stretto al braccio della consorte e seduto su uno sgabello, ansimasse ancora. “Avete tenuto dietro a un carro in corsa!”
“Una testuggine sarebbe andata più veloce di quel cavallo. In caso contrario li avrei perduti alla prima svolta.”
“Ora cos’hai intenzione di fare?” intervenne piano la contessa. Il marito la fissò con uno sguardo indefinibile e intenso, color dell’inchiostro, l’istesso che un tempo aveva fatto calare più d’un capo pel timore e il rispetto. “Nulla.” La sua voce era roca, venata d’impotenza. “L’azione di stasera ha gravemente compromesso la nostra posizione.”
“Dunque siete pentito di quanto abbiamo fatto” obiettò suo nipote.
“Non ho detto questo, Enrico. Ma anche tu hai compreso come Maracaibo sia divenuta pericolosa per tutti noi; non possiamo più girare liberamente, alla ricerca di altre informazioni.”
“Non occorre; conosciamo già la più importante” replicò Enrico. “Ovvero che Jolanda è qui, sotto la custodia del governatore.” A quelle parole la contessa tremò, le mani a coprirle il volto, mentre il marito s’alzava di scatto. “Sciocca!” esalò. “Sciocca e imprudente! Come ha potuto solo pensare  di ottenere da sola ciò che volesse!”
“Basta così” intervenne la moglie. “Rimpiangere il passato non giova a noi né a nostra figlia; siamo giunti fin qui collo scopo di liberarla, ed è quello che faremo.”
“Temo che il nostro piano iniziale sia saltato, zia” intervenne Enrico scuotendo il capo. “Qualora ci rivelassimo e tentassimo la via diplomatica, il governatore saprebbe all’istante che dietro la lotta alla taverna ci siamo noi. E state sicura che impedirebbe qualunque trattativa.”
“Allora tutto è perduto!”
“No” intervenne il conte. “V’è rimasta ancora una via: quella delle armi.” La moglie lo fissò come se avesse appena pronunciata la peggiore delle pazzie. “Maracaibo non è più quella che attaccasti diciott’anni orsono” disse difatti.
“E non vi è la flotta dell’Olonese e del Basco ad appoggiarci” aggiunse Enrico. “O avete intenzione di servirvi della nostra nave?”
“La  Nuova Castiglia è solida, ma solo un folle la manderebbe all’attacco contro un’intera città armata di cannoni. No, nipote, se vogliamo liberare Jolanda e sperare nella riuscita dell’impresa ci occorre aiuto, un aiuto che forse abbiamo a portata di mano.”
“Cosa dite, zio?”
Il conte guardò fisso il nipote. “L’aiuto di cui parlo è nella tua stanza” disse. “Andiamo di sopra. Signor Marìn, tenete d’occhio la porta ancora per un po’.”

Fu Ch’ulel ad aprir l’uscio della camera del giovane Enrico, permettendo ad egli e ai suoi zii di entrare. Lo sguardo del conte cadde subito sul letto nell’angolo, ove giaceva un uomo addormentato. “Come sta?” domandò accorato.
A rispondere fu la persona che in quel momento forniva assistenza al ferito; era una fanciulla di venti o forse ventidue anni, una serva senz’altro, i cui tratti ricordavano molto quelli di Ch’ulel. “Non temete, padrone, le ferite di costui non sono gravi” disse. “Domattina sarà già in grado di rispondere alle vostre domande.”
“Sempre che non vogliate interrogarlo ora” intervenne l’altro indiano.
“No, lasciate che riposi” replicò il conte. “Merita un po’ di tranquillità, dopo quanto ha passato.” S’appressò al letto a passi lenti e silenziosi, come temesse di svegliare il ferito; gli si sedette accanto, prendendogli una mano inerte tra le proprie: era rugosa e coperta di calli, la mano d’un uomo avvezzo al remo e alla spada. “Avrei voluto rincontrarti in tutt’altro modo, mio povero Carmaux” mormorò con voce triste. Sua moglie, in piedi nell’angolo assieme al nipote e alla serva indiana, non era meno dispiaciuta.
“Dite che quest’uomo può esserci utile” esordì Enrico, sia per sincero interesse che per distogliere in parte lo zio dai suoi gravi pensieri. “Come?” L’altro si girò a guardarlo prima di rispondere: “Credi tu che lui e Wan Stiller siano giunti fin qui col solo scopo di bere qualche bottiglia di Alicante? Da quando li ho veduti entrare in quella taverna non ho fatto che tenerli d’occhio dalla finestra: ricordo bene che, a un certo punto, avevano avvicinato un uomo panciuto, forse un piantatore o un ricco borghese, intento a scommettere sul combattimento di galli.”
“Dunque?”
“Cercavano informazioni, Enrico! E le avrebbero ottenute se una spia, che sia maledetta, non li avesse traditi!”
“Informazioni su cosa?”
“Questo lo ignoro.”
“Svegliate quell’uomo, zio” esortò Enrico accennando a Carmaux. “Sono impaziente di saperne di più.”
“No” fu la secca risposta. “Manca poco all’alba, e non saranno certo alcune ore d’anticipo ad avvantaggiarci.”
“Ma...”
“Enrico, ascolta tuo zio” intervenne la contessa prendendo il nipote per un braccio. “Hai veduto quel poveretto: ha battuto il capo, la sua memoria potrebbe essere confusa. Lasciamo che dorma e riacquisti un poco le forze.”
Un roco gemito fuoriuscì dalle labbra del ferito; il conte, che subito gli aveva dedicate le proprie attenzioni, lo vide tremare appena prima di voltare il capo dall’altra parte. “Gli hai preparato qualcosa, Ch’ulel?” domandò al servo indiano.
“Sì, signore, un infuso di passiflora per aiutarlo a dormire.”
“Eppure il suo sonno è agitato.”
“La passiflora è solo un sedativo, signore; non può portar via gli incubi.”
“Che spero lo lascino in pace, almeno per questa notte” disse il conte. Alzò per un attimo il lenzuolo che gli celava alla vista buona parte del corpo di Carmaux; il petto e la spalla destra erano stati abilmente fasciati, e in più parti le bende erano punteggiate di sangue. “Sei stanco, Ch’ulel?” chiese.
“No, signore.”
“Allora scendi di sotto e tieni a guardia la porta; quel povero oste cascherà dal sonno. Ti daremo il cambio fra due ore.” Il conte s’alzò in piedi. “Cerchiamo di chiudere gli occhi” disse. “Enrico, mi rincresce che le circostanze t’abbiano privato del letto...”
“Mi contenterò d’un giaciglio di fortuna” rispose il giovane con un sorriso. “Sono un uomo di mare avvezzo a dormire anche sul ponte, come voi.” Suo zio avrebbe voluto sorridere a sua volta, ma non ne ebbe la forza. Non coi terribili pensieri che gli s’erano annidati nell’animo.
Sua figlia e un suo vecchio marinaio erano prigionieri del governatore; la prima tenuta sotto custodia ma forse, sperava, ancora incolume, mentre il secondo sarebbe stato ben presto interrogato e torturato, qualora l’occasione l’avesse richiesto.
“È stata una lunga notte” rifletté con amarezza il conte, mentre si ritirava nella propria stanza. E sua moglie, che gli si era stretta al braccio, parve pensare la stessa cosa.


Note introduttive: inizialmente avevo deciso di tenere questo lavoro per me, almeno per un po’. Niente, non resisto XD Come si dice, la speranza è l’ultima a morire. Qualche anima pia potrebbe sempre inciampare qui e farmi segno della sua presenza.
Ci tengo a fare due precisazioni: pur essendo una what if? del romanzo salgariano, la mia storia ne riprenderà spesso molte situazioni, cambiate più o meno a seconda dell’occasione. Lo stesso dicasi dei personaggi: esclusa qualche new entry (in questo capitolo Marìn, Blanco, Muñoz - e i soldati vari -, Ch’ulel, Chtilali e Perez), tutti gli altri appartengono rigorosamente a Emilio Salgari.
Seconda precisazione: nella mia idea “Sangue corsaro” conclude idealmente il ciclo delle Antille; dunque non si terranno minimamente in considerazione gli ultimi due libri, “Il Figlio del Corsaro Rosso” e “Gli ultimi filibustieri”. Mi sono accontentata di riciclare due personaggi, di cui uno ha già fatto la sua comparsa in questo capitolo, il secondo apparirà in seguito - pur essendo un semplice personaggio di contorno. Entrambi, però, sono stati ripresi come soggetti del tutto slegati agli avvenimenti di quei romanzi, per adattarsi alle mie esigenze.
Satomi

   
 
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