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Autore: Ely79    21/12/2011    3 recensioni
Due stranieri rompiscatole, una donna ingegnere, due gatti meccanici, una airship da corsa guasta. E il tempo che scorre inesorabile nella campagna.
Storia prima classificata al contest "In sei ore" indetto da (Vienne) e partecipante all'"Ipse Dixit - Quote Challenge" indetto da Fabi_Fabi.
Genere: Commedia, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cascina dell’Acqua
Officina

La porta sbatté violentemente, chiudendo Banks nel soggiorno. Prue imprecava tra sé, camminando rabbiosa intorno all’Almond, facendo cigolare i sostegni sotto la tuta per il troppo sforzo.
«Hai detto che ti serve una piastra di ceramica?» domandò Nora, appoggiata ad una pila di cassette per gli ortaggi.
Se ne stava lì, a giocherellare con i suoi bei boccoli da bambola, le caviglie incrociate per via della gonna troppo lunga e stretta per consentirle di accavallarle.
Rassegnata all’ennesima intrusione, Prudenza annuì. Aveva capito che cercare di tener lontana Nora era inutile.
«Ceramica altamente isolante, non una piastrella qualunque. Sfortunatamente, il tuo bello là fuori non vuol capire che non me lo consegneranno subito solo perché lui ha fretta di attraversare un oceano!» brontolò, stendendo Nove sul banco da lavoro per sistemarlo.
Nora rimase ad osservarla per qualche istante, prima di parlare di nuovo:
«Quanto dev’essere grande?»
«Cosa? Il cervello di Noon per capire una cosa così semplice?»
«Il piattello».
Prue frugò in una cassetta e ne tirò fuori il pezzo rotto ed un calibro.
«Due pollici di diametro, un quinto di pollice in spessore» rispose, dopo averlo misurato.
«Due pollici di diametro, un quinto in spessore» ripeté sottovoce. «Aspetta, torno subito».
Raccolse gonna e sottogonne alla bell’e meglio e corse via, goffa e impacciata.
«Signore, fa che non torni con qualche assurdità tipo il suo specchietto!» pregò Prue fra sé.
Riprese ad occuparsi di Nove, con Flapper che illuminava gli snodi articolari grazie alla lampada che aveva nella coda. Il danno, fortunatamente, era meno grave del previsto: entro sera quella bestiaccia avrebbe potuto tentare un quarto salto.
Nora riapparve come un tornado nell’officina, facendo cadere una miriade di attrezzi al suo passaggio. Ansimava per la corsa e per via del busto che la ingabbiava.
«Ecco qui. Può andare?» rantolò, cacciandole in mano una cosa tonda e liscia.
Prudenza aprì le dita e trovò una fiche da poker, dov’era dipinta la caricatura di Noon con le dita atteggiate in segno di vittoria. Tipico di quel megalomane.
«Che diamine…»
«Sapevo che la teneva nella giacca. È tutto il giorno che ci gioca!» boccheggiò orgogliosa, allungandosi sul cofano dell’Almond. «Si è fatto fare una serie di fiches personalizzate proprio dalla Siorpaes, per quando organizza partite di poker nella sua suite a New York. Me l’ha mostrata un milione di volte anche se sa che non capisco un accidente di carte. E dato che ama vantarsi di ogni cosa che fa, si è premurato di dirmi che è fatta di una ceramica speciale, trattata per essere inattraversabile dall’elettricità. Anche la decorazione è stata fatta apposta per lui. E non credo si dispiacerà se la prendiamo in prestito; in fondo, sono solo cento dollari!»
Le ultime parole le uscirono dalle labbra con un sibilo esausto e sardonico, accompagnate dalle mani che tentavano di allargare le stecche.
«Può andare?» pigolò.
Lentamente, il volto di Prue si distese in un’espressione di sollievo.
«Non so dove prendi queste idee, ma forse hai salvato la giornata ad entrambe» disse, aprendo il vano e cominciando a trafficare con la copertura dell’alternatore.
Morsetti, bulloni e ghiere si ammassarono rapidamente sul ripiano di lavoro alle sue spalle.
«Perché ad entrambe?» s’informò Nora, quando ebbe ripreso a respirare normalmente.
Le pareva che l’unica persona nei guai fosse Prue.
L’altra si fermò un attimo, il tempo necessario perché Flapper s’infilasse nel comparto.
«Mi stai dicendo che non hai mai visto Noon dare di matto peggio di stamattina?»
La coloniale scosse il capo.
«Visto che siamo tra donne, ti dirò che sono molto più piacevoli le mestruazioni che Noon quando sbraita come un marmocchio frignone» e prese a dare ordini all’automa.

Cascina dell’Acqua
Aia

Algernoon stava impazzendo dall’ansia. Stanco di sedere su ogni superficie che glielo consentisse, aveva deciso di uscire. Camminava con le dita infilate nei taschini del gilet, le maniche della camicia arrotolate fin sopra i gomiti ed il cilindro sulle ventitré. La polvere di quella giornata estiva cominciava ad appiccicarsi alle scarpe di vernice e ai bottoni in bronzo dorato che scintillavano sul vestiario.
Aveva sempre amato stare in quella cascina, respirare l’odore dell’erba e dell’acqua, ascoltare gli sbuffi di vapore dei macchinari dell’officina di Prue, gustare i manicaretti della signora Francesca. Da ragazzo ci trascorreva quasi tutto il periodo estivo. Nuotava con Vincenzo e Giovanni nel canale, trascorreva ore ad architettare dispetti per Prue e altrettanto tempo arrampicato su alberi e tetti per sfuggire alle sue vendette, piagnucolando e implorando che suo padre lasciasse Londra per andare a salvarlo da quella strega mezza sorda.
Di quel periodo non era rimasto molto. Solo qualche fotografia, nascosta in fondo ad un cassetto chissà dove. Di certo, non sulla parete del soggiorno di Cascina dell’Acqua.
Tuttavia, erano altre due cose a farlo star male in quel momento: la prima era l’Almond con quel suo dannato guasto; l’altra era l’approssimarsi dell’orario di partenza e la sagoma del “Paloma” che pareva irrimediabilmente troppo lontana nel cielo.
«Devono riuscirci» meditò, calciando un sasso. «Devono farlo! Non possono farmi fare anche questa figuraccia! Io sono il capo, loro devono obbedirmi! Devono fare quel che gli dico!»
Salì sul terrapieno erboso a larghi passi e di lì sul ponte di mattoni che scavalcava il corso d’acqua accanto alla cascina. La corrente era forte in quel periodo, zeppa di mulinelli e increspature, il livello dell’acqua prossimo alla massima capienza dell’alveo. Si sentiva proprio come il Naviglio: forte e tumultuoso, stretto in argini troppo piccoli per poterlo contenere a lungo.
«Muoversi, muoversi, muoversi!» ordinò a figure invisibili.
Rigirò la catenina dell’orologio fra le dita, incerto se controllare o meno l’ora.
«E tu fermati, dannazione! Mi serve tempo! Tempo!» sbraitò al sole, quando si accorse che l’auto era avvolta dalla densa ombra del fienile.
Quando l’aveva parcheggiata là, il sole l’accarezzava facendo brillare le incrostazioni cromate e la polvere di perle nella vernice. Ora aveva un’aria triste e demodé. Aveva quasi voglia di comprarne un’altra.
Rientrò in casa, aggirandosi per le stanze come una belva in gabbia. Recuperò la giacca, ammassata sul pavimento della cucina e andò nell’unico posto dove riuscisse a calmarsi: la camera di Nereo. Sedette sul letto, lo sguardo perso sul poster di Name.
«Non male» pensò, osservandolo prima con un occhio, poi con l’altro. «Ma posso farne fare uno migliore. Più lirico. Più potente. Devo chiamare Perrot e spiegargli l’idea. Vedremo se riesce a buttare giù quello che ho in mente».
Mancavano trentacinque minuti alla una del pomeriggio, quando il richiamo denso e gorgogliante dell’Almond si fece udire in tutta la sua potenza. I cinquanta cavalli del Lancaster avevano ripreso a galoppare, emettendo una sinfonia di rombi e sbuffi, che cresceva e diminuiva seguendo le prove di regime. I gridolini di esultanza di Nora lo raggiunsero attraverso i muri.
L’uomo scattò in piedi, gli occhi sgranati ed un sorriso raggiante. Trottò giù dalle scale, incurante del rischio di ruzzolare fino al loro piede, diretto all’officina. Stava per entrare, proclamando la propria soddisfazione per essere stato accontentato, quando il soggiorno si oscurò.
Uscì nel portico e alzò lo sguardo dove prima era il cielo: lo zeppelin era arrivato con perfetto tempismo, probabilmente sospinto da qualche buona corrente o da un po’ più di potenza nei motori.
Il volto segaligno di un uomo si affacciò da un finestrino della cabina di comando. Portò un cono metallico davanti alla bocca e parlò:
«Salve, signore» salutò svogliato, senza togliere la lunga pipa dalla bocca. «Bella giornata, eh?»
Visto dal basso, sembrava che a parlare fosse la nuvoletta di fumo e non una persona.
«Magnifica, Commodoro! Prego, da questa parte!»
Con larghe bracciate indicò al Commodoro Edwards come orientare l’aeronave e dove calare i pesi di stazionamento. Nonostante il pilota conoscesse bene il proprio mestiere, Algernoon si sentiva in dritto di metter becco anche su cose di cui non aveva la benché minima nozione.
«Lo sapevo che ce l’avreste fatta tutti quanti a farmi contento! Mi amate davvero! Tutti quanti!» commentò estasiato, quando vide le due donne affacciarsi dal portone dell’officina, richiamate dai suoi strepiti.

   
 
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