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Autore: L_Fy    31/08/2006    16 recensioni
Shian Tieus aveva proposto una bella iniziativa corale di 10 autori la quale avrebbe dovuto dare vita a una serie di oone shot con riflessioni su specifici argomenti. Il primo di questi sarebbe stato appunto la Nascita. Il progetto poi non è andato in porto, ma il racconto è rimasto. Ho pensato di pubblicarlo lo stesso, perchè contiene delle verità che mi hanno fatto pensare.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nascita.

 

Sembra una bella parola. Di primo acchito, vengono in mente solo cose positive relative alla nascita: il sole che sorge al mattino, un cucciolo che viene alla luce dal ventre della madre, il sentimento che sboccia nei cuori degli innamorati…

La nascita sembra essere il polo positivo dell’indissolubile binomio vita-morte, la parte vivibile  dell’esistenza umana.

Eppure, per ogni mattino che arriva, la notte cala dall’altra parte del mondo; per ogni vita che nasce, ce n’è una che muore; per ogni amore che sboccia, un odio prende forma…

Questa storia parla di una nascita. Un atto di amore, difficile per i tempi e per i modi in cui avvenne. Una sorta di riscatto dalla mediocrità che ognuno di noi non può fare a meno di apprezzare.

 

Eppure, eppure, eppure…

 

Maria Anna piangeva. Le sue erano lacrime discrete e silenziose, piccole e tiepide: le lacrime della serva che non deve disturbare il padrone. Maria Anna era una domestica che da tanti anni serviva bene il suo padrone e sapeva come comportarsi, in caso di lacrime: come nasconderle, come strozzarle in gola in modo che non facessero rumore. Ma non era abbastanza vecchia per nascondere anche il dolore che, vittorioso, traspariva dalle pieghe della sua pelle, dagli occhi arrossati, dal naso gonfio. Ma non un fiato usciva dalla sua bocca pressata: nell’anno di grazia 1831 una donna nubile di 41 anni non aveva nemmeno il diritto di pretendere più un marito, figurarsi quello di urlare la sua rabbia. Maria Anna, oltretutto, nemmeno riusciva a considerarsi una donna libera: una serva austriaca a servizio di un vecchio ebreo, ecco cos’era lei per sé stessa. Una brava, capace e silenziosa serva che aspettava un bambino.

Di colpo, Maria Anna si era trasformata in un ingombrante ed imbarazzante fardello, per la morale comune. Se non fosse stato per i tanti anni di onorato servizio, il padrone non le avrebbe neanche dato le due monete e la giornata libera per concederle di fare quello che doveva fare; l’avrebbe sbattuta per strada dove il freddo e la fame avrebbero fatto il resto. Per un attimo, Maria Anna agognò a quel resto…ma no, che eresia! Il padrone era stato fin troppo buono con lei. Si sforzava di pensarlo ogni singolo istante, ed era per quel motivo che non riusciva a smettere di piangere.

Il padrone. Quel grasso vecchio che puzzava sempre di cavolo scotto, col vocione tonante dei mercanti e il naso grifagno tipico della sua razza. Persino in quel paesino austriaco a uno sputo dalla Germania chiamarsi Chicklgruber e doversi umiliare per fare da serva a quell’untuoso mercante era già da solo ritenuto motivo di disonore. Ma Maria Anna non si era mai lamentata: aveva lavorato sodo, e se la sua schiena era già curva e le sue mani sciupate, comunque non aveva mai sofferto il freddo e la fame, nella casa del grasso mercante Frankenberger. Le era sempre bastato quel pensiero, per sopravvivere. Ma poi…

La levatrice aprì la porta e fissò il suo sguardo duro su Maria Anna che piangeva rannicchiata sullo sgabello.

“Ti manda Frankenberger l’ebreo?” chiese senza mezzi termini, ignorando le sue lacrime silenziose.

“Sì” rispose Maria Anna, alzandosi in piedi. Le doleva la schiena e le dolevano le gambe e le doveva il cuore, ma tutto questo non aveva importanza, in quel momento. L’importante era sbarazzarsi presto dall’ingombrante fardello che le cresceva nel ventre, l’apparente frutto della vergogna di una donna nubile che si era concessa con facilità. Ma per Maria Anna niente era mai stato facile: anche quello che portava in grembo altro non era che il frutto del sopruso del padrone e della sua stessa rassegnata, atavica sottomissione da serva.

“Muoviti” disse la levatrice scostandosi dalla porta cigolante per far entrare Maria Anna nel buio e angusto locale dove la donna svolgeva il suo segreto mestiere. Tante ragazze erano passate di lì colme di sogni infranti e di vergogna per liberarsi di quello che sembrava il prodotto dell’amore ma che in realtà era solo peccato, lussuria e abbandono. La levatrice chiuse la porta dietro le spalle di Maria Anna che si guardò intorno smarrita. Un lettuccio di paglia con l’imbottitura che usciva da tutte le parti, una coperta lercia, un comodino traballante ricoperto da una pezza di lino con sopra cucchiai e forcelle dalla forma strana, un catino sbeccato e un  asciugamano grigiastro erano tutto l’arredamento che la stanzetta deprimente offriva. Maria Anna si fermò in mezzo alla stanza, stretta nello scialle come per ripararsi al destino: la levatrice sbuffò e la spinse senza troppa gentilezza verso il lettino.

“Sdraiati” ordinò con malagrazia.

, pensò Maria Anna, ma non lo disse. Non riuscì a dirlo e questo la sconvolse.

Maria Anna guardava il lettino e non riusciva a vederlo. Al di là del velo delle lacrime vedeva finalmente quello che non aveva mai visto prima: sé stessa. Una donna incolore dallo sguardo sfuggente, curva, grigia. Una donna debole senza dignità e senza gloria che aveva sempre permesso che gli altri la calpestassero. Maria Anna si rese conto, davanti a quel lettino che puzzava di alcool e di disfatta, che non si era mai opposta alla volontà del destino. Non aveva mai lottato per qualsiasi cosa, né per sé stessa, né per le ingiustizie che gli altri perpetravano su di lei. Non aveva mai scelto una strada, per quanto difficile potesse essere.

Sdraiati, le aveva ordinato la levatrice, ma Maria Anna non riusciva a muoversi. Qualcosa di mastodontico si era mosso dentro di lei; fu una sensazione strana, come la scoperta di un nuovo muscolo sconosciuto, debole eppure potenzialmente potentissimo. Alzò gli occhi sulla levatrice, sorpresa, anzi, sconvolta da quello che stava per fare.

“No” rispose, e la sua voce scaturì dai recessi polverosi della sua anima, grattando di ribellione le pareti rinsecchite del suo cuore.

Rimbombò tra le quattro pareti spoglie della stanzetta e il suo tono di comando sembrava appartenere a qualcun altro. Di sicuro non alla piccola, debole Maria Anna.

La levatrice, dopo qualche attimo di attonito silenzio, si strinse nelle spalle, lasciando che un malevolo sorriso le stirasse le labbra rinsecchite.

“Come vuoi” rispose con amara cattiveria “Ma lasciati dare un consiglio: Frankenberger non scucirà un centesimo per il suo bastardo. Dovrai cavartela da sola”

 

Il ritorno a casa fu lento e spossante. Ogni passo pesava come se avesse un macigno attaccato al piede mentre il freddo mordeva il viso con i suoi dentini appuntiti. Quasi non se ne accorgeva, Maria Anna. Camminava ed ogni passo era faticoso come se fosse in mezzo alle sabbie mobili, ma il suo cuore, oh, il suo cuore…per la prima volta nella sua vita esultava. Ancora contornato di stupefatta meraviglia, quel rinsecchito organo che aveva sempre e solo sanguinato batteva ritmando un canto di vittoria e di liberazione. Sembrava impossibile che fosse ancora capace di tanto entusiasmo, dopo tutti quegli anni di tristezza e di solitudine…ma ora aveva qualcosa per cui gioire, qualcosa per cui valesse davvero la pena di continuare a fare il suo lavoro, pompare sangue, sopravvivere. Era per il bambino? Era per quella minuscola sfera di meraviglia che si era aggrappata al suo grembo che ora si sentiva così viva e così disposta a lottare?

No. Almeno, non ancora. Era per il Segreto che quel bambino custodiva. Tiepido e avvolgente come una coperta di lana scaldata davanti al camino, il Segreto abbracciava le spalle curve di Maria Anna e la faceva sorridere con il sorriso segreto delle serve, ancora più segreto delle loro lacrime.

 

“Anna…oh, Anna sei tanto bella…”

Non lo era, naturalmente. Era vecchia, secca e taciturna e aveva perso tutti i suoi sogni per strada, ma a lui non importava. Lui la vedeva “tanto bella…”.

Era lui ad essere bello, invece. Bellissimo, anzi. La bellezza fuggevole e caduca della giovinezza, quella che non dura più di un alito di vento. Lui aveva vent’anni e le mani lisce di chi non ha mai dovuto lavorare. Lui era gentile e sapeva leggere bellissimi racconti, ricchi di quelle avventure che erano sogni, una volta, nei pensieri di Maria Anna. Lui era il figlio del mercante Frankenberger e Maria Anna l’aveva amato con la dedizione assoluta del cane verso il suo padrone che a malapena gli passa un osso ogni tanto, fedele e adorante per il solo fatto di essere stata guardata come una donna. Una donna “tanto bella”. Col senno di poi, al figlio del padrone erano bastate davvero poche e misere parole per riuscire ad infilarsi nel letto di Maria Anna; ma lui non sapeva che erano comunque infinitamente di più di tutto l’amore che lei avesse mai ricevuto.

L’amore fino a quel momento per Maria Anna era stato il corpo grasso e peloso dell’ebreo Frankenberger che faceva i suoi comodi con la sua serva ormai sfiorita, grugnendo come un animale in calore, sollevando le vesti della donna sopra alla testa ed esponendo solo il suo sesso alla vergogna del sopruso.

Il suo surrogato di amore! Erano anni che Maria Anna chiudeva gli occhi e pensava alla lista della spesa, al carbone da mettere nel camino, a qualsiasi cosa non riguardasse i grugniti del padrone al di là della sua veste alzata. Poi c’erano state due mani delicate e lisce, un viso imberbe dall’espressione dolce, una voce sussurrata all’orecchio, senza l’ingombro delle vesti, solo pelle su pelle, solo desiderio su desiderio.

“Anna…oh, Anna sei tanto bella…”

Di nascosto dal padre e padrone, ogni attimo era stato vissuto con la paura di essere scoperti e con il desiderio di sfruttare ogni singolo secondo, consumando una brama, una fame di amore che Maria Anna non sognava nemmeno di avere. Il Segreto che si teneva nel cuore, alimentandolo come un fuoco caldo e benedetto, era che il suo bambino era frutto dell’amore. Non di certo l’amore del figlio del padrone, che aveva abbandonato molto presto il letto di Maria Anna per infilarsi in quello della sguattera Annika prima del termine delle vacanze estive.

Era il frutto dell’amore di Maria Anna verso sé stessa, la nascita della consapevolezza di poter amare…di voler amare.

Maria Anna arrivò davanti alla porta di casa. Di solito entrava dal retro, lesta e curva come una ladra. Ma non quel giorno.

Quel giorno era il primo di una nuova vita, decise Maria Anna, inebriandosi di quella fiducia in sé stessa che cresceva come pasta lievitata nel forno caldo del suo cuore. Adesso c’era un bambino che voleva il suo amore, un bambino che avrebbe voluto davvero bene alla vecchia e rinsecchita serva del mercante ebreo.

Maria Anna, a testa alta, salì le scale ed entrò dalla porta principale. Le sue spalle erano dritte, il suo sguardo lucente e tre parole sole uscirono dalle sue labbra, dopo che il padrone le venne incontro, corrucciato e sottilmente ansioso.

“Terrò il bambino”

 

Il mio cuore è con Maria Anna. La sua fu una scelta dettata dal coraggio dell’amore, la sola per cui valga davvero la pena lottare. La nascita del suo unico figlio fu forse il suo unico atto di eroismo, il momento dove riuscì a riscattare il significato della sua grigia e deprimente esistenza. Nascita come ribellione…nascita come luce del mattino che sorge.

 

Dov’è, allora, la notte?

 

La coraggiosa Maria Anna ottenne dal vecchio ebreo Frankenberger una retta mensile per pagare gli studi al figlio illegittimo, che chiamò Alois. Cinque anni dopo la sua nascita, Maria Anna e il figlioletto si trasferirono a Strones dove la donna, all’età di 47 anni, incontrò e sposò il mugnaio Georg Hiedler il quale, per non perdere il vitalizio mensile del figliastro, non lo riconobbe come figlio adottivo. Nel 1847 Maria Anna morì e il patrigno di Alois sparì lasciandolo solo a casa del fratello, il mugnaio Johann Hutler. Alois intraprese la professione di doganiere, spostandosi in varie parti dell’Austria. Ebbe due mogli e rimase per due volte vedovo, generando due figli, Alois jr. e Angela. Durante il suo primo matrimonio aveva preso a servizio la quindicenne Klara Poelzl, sua nipote perché figlia di una figlia di suo zio mugnaio, Johann. Morta anche la seconda moglie, Alois, ottenuta una dispensa speciale dalla chiesa, sposò Klara. Il patrigno scomparso ritornò quando Alois aveva 40 anni e, per questioni di eredità, si decise a legittimarlo, dandogli il proprio cognome: sul registro battesimale della parrocchia di Dollerstein il nome di Alois Chicklgruber venne sostituito con quello di Alois Hitler.

Alle 6.30 di sera del 20 aprile 1889 in una locanda di  Braunau , Klara diede alla luce il terzo dei cinque figli che ebbe da Alois Hitler.

Lo chiamarono Adolf.

 

Il resto è storia.

E notte.

 

 

  
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