E’
mentre guardo Andrea sollevare tra le braccia nostro
figlio che la mente diviene finalmente lucida.
Non la amo.
Fuggo,
incapace di digerire di fronte a loro
quell’agghiacciante verità: quando Andrea stava
partorendo, io sono corso da lui,
non ho perso tempo a scegliere. Tom
era in pericolo e la sua vita era molto più importante di
quella, sangue del
mio sangue, che stava nascendo in un letto di ospedale.
La sua vita…
Stringo
gli occhi fino a che le lacrime non smettono di
scorrere, mentre tra le mani tengo una nostra fotografia. Non ho il
coraggio di
guardare quel sorriso così vivo.
Dov’è
Tom quando serve? Perché non spunta fuori
all’improvviso ancora una volta, dicendo una frase ad effetto
delle sue e
mostrando quegli occhi che tanto spesso mi rassicuravano? Proverei di
nuovo
quel sollievo, la felicità di vederlo vivo, di poter
ascoltare ancora la sua
voce. Ma il sollievo continua a ritardare, non so se questa volta
arriverà.
Improvvisamente
davanti agli occhi mi appare l’immagine della
nostra squadra al completo, che sorride pronta a rivelarmi il ritorno
di Tom.
Gli ero corso incontro, quel giorno, per riabbracciare il mio vecchio
compagno,
il mio migliore amico.
Il
mio migliore amico.
Come
mi ero sentito bene in quel momento! Se solo avessi
saputo… Ma lo sapevo, il nostro lavoro è un
perenne rischio e avevo perso altri
amici in questo modo. E’ Tom che non avrei dovuto perdere;
lui per me era
scontato, era uno sguardo sorridente preparato apposta per me ogni
mattina, era
il sollievo di saperlo ancora vivo.
Allora
perché questo sollievo non arriva? Perché non sei
qui, Tom?
Lentamente
mi trascino a casa, l’unico posto in cui riesca a
stare, nonostante la presenza di Andrea. E’ proprio lei che
trovo sul divano,
dispiaciuta per non avermi creduto, per avermi urlato contro in un
momento del
genere.
E
io l’abbraccio, consapevole che non vorrei quelle braccia,
che baratterei quella vita con un’altra. Ancora una volta,
non perderei tempo a
scegliere.