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Autore: scarlett666    21/01/2012    5 recensioni
Dafne ora ha trent’anni, sta ancora studiando, non ha un lavoro fisso, non ha una casa sua e, al contrario di molte sue coetanee, non è sposata e non ha chiassosi bambini che le riempiono la giornata ma guarda la sua vita, tutto ciò che la circonda in questo mattino freddo d’inverno, e lo trova bellissimo, di una bellezza commovente. Tutto è esattamente dove dovrebbe essere. Profondamente giusto e perfetto nella sua umana imprecisione. Si guarda intorno e con gli occhi vorrebbe abbracciare quello che è il suo mondo, il suo piccolo universo tanto duramente conquistato. La sua felicità.
Fanfiction partecipante al Lovely Valentine - II edition, indetto dal « Collection of starlight », said Mr Fanfiction Contest, « since 01.06.08 »
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L'attimo in cui apre gli occhi

L’attimo in cui apre gli occhi






...to my amazing guy


E anche per questa mattina è fatta”, borbotta fra sé e sé mentre, con un ultimo sbuffo di vapore condensato, varca la soglia nel suo appartamento. Subito il tepore della stanza semibuia l’avvolge benevolo, provocandole un piacevole formicolio alle estremità semicongelate; per quanto possa essersi coperta, non ci sono cuffia o sciarpa di lana che possano mettere al riparo dal freddo pungente il suo povero naso. Strizza lievemente gli occhi, nel doppio tentativo di mettere a fuoco l’ambiente e liberarsi della sottile patina di lacrime che li ha ricoperti dopo l’ultima raffica gelida. Le dita si muovono ancora a fatica, la piena sensibilità dei polpastrelli le tornerà forse qualche minuto più in là, magari sotto le lenzuola. E’ ancora presto, non sono nemmeno le dieci e la stanza è ancora satura degli odori della notte: il torpore denso del sonno, l’intossicante pungere dei sensi che rimane nell’aria dopo il sesso, così densa di anidride carbonica da rallentare il pensiero al risveglio.

Posando leggera piccoli passi uno innanzi all’altro, si fa avanti piano, accostando la porta dietro di sé, attenta a non far troppo rumore. Solo il lievissimo scatto della serratura. Non riuscirebbe a perdonarsi di averlo svegliato al suo ritorno, lasciandosi così sfuggire la rara opportunità di vederlo dormire in quella sua buffa posizione, a pancia in giù e le braccia aggrappate al cuscino, le mani artigliate alla federa candida, con la stessa disperazione con la quale la notte stringe possessivamente i suoi fianchi bianchissimi. Ama disperatamente il suo uomo, ogni volta come se fosse l’ultima, come se dovesse sfuggirgli tutto fra le dita, dissolversi improvvisamente. Troppe volte aveva visto andare in frantumi quel poco che faticosamente si era costruito, aveva conquistato e, col tempo, aveva quasi smesso di lottare. Un cuore in ipotermia preventiva, questo gli era sembrato al primo sguardo; bellissimo ma straziato internamente, l’animo più volte dilaniato e rappezzato a fatica. Due occhi infinitamente tristi, mal celati al mondo da fredde lenti specchiate. Ferite mai rimarginate e la pretesa di nasconderle con un’indifferenza non sua.

Si muove sicura nella penombra fumosa della stanza; casa sua non è grande, poco più di un monolocale e, a dirla tutta, non è nemmeno sua, solo in affitto. Ma è ciò che le basta, non vuole altro. E’ la sua indipendenza, e la conosce come il palmo delle sue mani, la sente, vi si riconosce ad occhi chiusi. Posa il palmo contro la parete ed individua, coi polpastrelli ancora intirizziti dal freddo che i suoi guanti tagliati non riescono a schermare, i contorni squadrati dell’interruttore. Indugia. Accedere la luce cambierebbe tutto, spezzerebbe quell’incantesimo sospeso che è la quiete mattutina, quel sopore vago che già la sta cogliendo mentre, ritirando la mano, decide semplicemente di liberarsi di cappotto, sciarpa e cuffia, abbandonandoli sul pavimento.
In fondo alla stanza, al riparo dai primi raggi nebulosi di sole invernale, il suo letto pare chiamarla; i lievi riflessi del copriletto sgualcito le ricordano cosa l’attende sotto le coperte, avvolto dal tepore delle lenzuola scure. Amaranto, le aveva detto quasi con orgoglio la commessa. Come i miei capelli, aveva pensato subito lei.
Quasi sovrappensiero, rapita dal senso d’attesa e dalla visione che i suoi occhi ormai abituati al buio le stanno regalando, si spoglia silenziosamente, attenta a non urtare nulla, ma al contempo con un sottile senso di impazienza che nell’animo va crescendo. E non è il freddo che si impossessa delle sue membra sempre più scoperte a provocarle quell’urgenza. Sfila gli stivali facendo leva sui talloni, poi le calze pesanti, il vestito di lana nero, la maglia, la canotta, poi infine anche il reggiseno. Troppi indumenti tuttavia necessari per combattere il freddo delle mattinate di lavoro. Infila i pollici oltre l’orlo degli slip, indecisa se lasciarli o liberarsi completamente di tutto ciò che avrebbe potuto separarla dalla sua pelle una volta sotto le lenzuola. Fa scorrere il dito lungo tutto il ricamo, soppesando la cosa come fosse di vitale importanza, mentre ancora guarda il letto; poi, con un rapido gesto, li sfila. Nuda, via tutto. Rapida ma attenta, quasi sinuosa, aggira il letto e vi si infila dentro, adattando la propria posizione alla presenza di una piccola palla di pelo nera proprio al centro della sua piazza. Anche lui ronfa beato, non le va di spostarlo malamente. Sotto le lenzuola è rimasto imprigionato ancora parte del tepore di quella notte e lei, riconoscente per questa inaspettata coccola, vi affonda con soddisfazione, lasciando alla stoffa il compito di scaldarle il corpo ancora in parte insensibile. Si sistema come un gatto, quasi acciambellandosi, socchiudendo gli occhi per il sottile piacere e la soffice consistenza del cuscino sul viso. Poi li riapre e finalmente, consolata la pelle offesa dalle intemperie, può dedicarsi a lui.
Lo guarda in silenzio, con semplice dedizione, quasi lo vedesse per la prima volta. Dorme mostrando la schiena, ma il viso, seppur affondato nel guanciale, è rivolto verso di lei. Una spalla nuda fa capolino da sotto le coperte; la sua pelle liscia le fa venir quasi voglia di assaggiarlo, mordicchiarlo lievemente lasciando piccoli segni al suo passaggio. I capelli, lunghi e scuri, gli ricoprono la nuca e parte delle spalle, ricadendo sul cuscino e sul volto in ciocche scomposte: è completamente spettinato, perché nel sonno si agita, di notte si rigira, non trova pace.
Osserva le coperte alzarsi ed abbassarsi impercettibilmente seguendo il ritmo del suo respiro, ora regolare e quieto. Una sottile ciocca di capelli, sfuggita davanti al viso, oscilla piano, mossa dal respiro di lui.
Si è riaddormentato una volta solo, dopo averla destata con una carezza, al suono della sveglia che lei puntualmente non aveva sentito. Ancora la sorprende il fatto che lui non si sia mai lamentato dei suoi orari, del fatto che ogni santa mattina lei lo sveglia, seppure involontariamente, mentre si prepara per andare al lavoro. Semplicemente socchiude gli occhi e, senza nemmeno parlare, le dedica i primi attimi della sua giornata. Piccole cose, come due braccia nude, calde, che ti accolgono in un abbraccio morbido, o un leggero bacio dato a fior di pelle sulla tempia, hanno, con lui, acquistato un nuovo ed inaspettato valore. Momenti preziosi ed inestimabili solo per loro: semplici gesti carichi d’affetto prima di affrontare il mondo.
Ora riposa come un bambino e lei, per quanto senta urgente il bisogno di essere nuovamente stretta nel suo abbraccio, proprio non trova la forza di svegliarlo. Allunga timidamente una mano per accarezzarlo, esitando un attimo col braccio sospeso su di lui. Non vorrebbe interrompere questo suo momento di tranquillità ma, contro ogni pensiero razionale, si trova a sfiorare delicatamente la guancia punteggiata dalla barba incipiente, lasciata un po’ incolta. Non avrebbe mai pensato che potessero piacerle gli uomini con la barba; l’aveva sempre trovata un inconveniente piuttosto fastidioso, ispida e sgradevole da toccare ma, deve ammetterlo a se stessa, ora non può più farne a meno. La sua poi è morbida, irresistibile anche quando leggermente trascurata. Forse la trova persino sexy. Forse. O probabilmente bisognerebbe chiedersi cosa non trova affascinante nel giovane uomo che le ha riempito la vita ed i pensieri, pezzetto dopo pezzetto, conquistando ogni giorno una parte sempre più grande del suo essere, sconvolgendone gli equilibri, sino a reclamarne il cuore come legittimo rifugio.

Immersa in tali pensieri non si rende nemmeno conto che qualcuno, accortosi della presenza della sua padrona, si è svegliato e le è salito sulla pancia in cerca di attenzioni. Lei abbassa lo sguardo ed intercettando il bagliore dorato delle sue iridi gli sorride, affonda una mano nel pelo morbido e si sistema meglio sul letto, a gambe incrociate, mentre lui le si acciambella in grembo con gli occhi socchiusi, già pronto a fare la fusa. Che gatto ruffiano. Il suo adorabile gattaccio nero. Elegante e bastardo, proprio come un Uchiha. Ed infatti, proprio di un Uchiha porta il nome. “Sas’ke”, sussurra in un respiro quasi muto, avvicinando il viso al musetto del felino e lasciandosi regalare una leccatina sul naso, riconoscente per il trattamento riservatogli, una volta tanto. Le sue mani si muovono quasi da sole, in autonomia, come riconoscessero il territorio nel quale si stanno avventurando, ed in effetti è proprio così. Sasuke è stato la prima compagnia di Dafne in quella casa, il suo primo coinquilino possiamo dire, l’unico col quale condividere i pensieri, nel quale cercare conforto nei momenti tristi, quelli veramente difficili. O almeno fisicamente, perché nei pensieri, invece, lui già c’era. Fortemente. Anche quando ancora c’era l’altro.

L’altro… il fidanzato storico, quello da sposare, quello con il quale avere un futuro, condividere le responsabilità, un mutuo, i figli. Quello con cui fare “Il Passo”. Quello che piace a tutti, quello giusto. Talmente giusto e perfetto da essere lontano anni luce dalla sua anima, dalla sua comprensione. Lei era quella che pensava troppo, quella che si perdeva in inutili dissertazioni, quella che esagerava. Lui era quello con la soluzione pronta, con la chiave giusta sempre a portata di mano. Lei triste, ciclicamente in crisi. Lui sempre sorridente, solare. Lei pallida, riflessiva, intorta… lui la sua speculare immagine. E lei per tanto tempo aveva pensato che lui potesse essere il sole dal quale attingere la luce da riflettere, il muro da frapporre fra sé ed il mondo, la roccia sicura alla quale aggrapparsi. La sua cura. E per sei anni lo era stato. Devoto, fedele, presente. Forse anche troppo. Sei anni di sicurezza, sei anni di spalle larghe, di stabilizzante e prevedibile quotidianità. Sei anni di morte interiore… poi?
Una presa di coscienza improvvisa, una riflessione incessante di giorni e notti insonni, una sola possibile decisione. La rottura. Perché non si può vivere una vita di palliativi, perché non si può sempre contare sul sostegno di chi non ti vuole libera, ma ti lega a sé con l’allettante promessa di sorreggerti per sempre… purché tu rimanga senz’ali.
L’avrebbe salvata dalla sua famiglia, sì, ma a quale prezzo? Rinunciare al lavoro della sua vita, alla propria realizzazione, alla libertà di scelta per rincorrere un sogno di normalità familiare, forse desiderata solo perché mai vissuta? Ne valeva veramente la pena? Rinunciare ai propri sogni per rincorrere una sicurezza? Una scelta che avrebbe pagato a caro prezzo in un giorno non troppo lontano. Il giorno in cui, aprendo gli occhi all’improvviso, si sarebbe resa conto di aver vissuto una vita non sua ma di aver fatto tutto per inerzia, trascinata dai “è giusto così” e dai “una brava ragazza lo fa”. Una vita facile. Fidanzamento, villetta con piccolo giardino, lavoro magari part-time, un figlio o forse due, magari un cane, ed un marito fedele che torna a casa ogni sera giusto per cena. Ed un blister di Prozac nel primo cassetto del bagno. E, perché no, prima o poi un cappio al collo. Una vita facile, una vita non sua. Come già detto… la morte interiore.
Ma veramente, se quel giorno non avesse posto un freno a quella relazione, se non avesse detto basta, cosa sarebbe potuto accadere? Dove, e soprattutto, cosa sarebbe potuta essere? Moglie? Forse madre? Sicuramente con un lavoro fisso, magari da commessa, e addio ai suoi sogni da lettino di analisi.
La grande psicoterapeuta con le tasche piene di sogni. Ma con quelli non ci paghi un mutuo. Con quelli non ti sposi un meccanico, perché lei non sa ancora chi è, non riconosce nemmeno la sua forma allo specchio, mentre lui sa benissimo dov’è e dove sarà fra vent’anni. Esattamente nello stesso punto. E lei, avrebbe retto vent’anni ferma nello stesso punto? E pensare che era già tutto programmato: le prime case da andare a vedere, le rate del mutuo concordato con quell’amica di famiglia che lavora in banca, i soldi che avrebbero dovuto sborsare i rispettivi genitori, il nome dei bambini e, perché no, anche quello del cane. Peccato che lei odiasse i cani. Persino il nonno sognava già i nipotini, magari aveva anche qualche idea sui nomi, mentre lei sognava solamente una via di fuga.

Poi era arrivato lui, la sua mente acuta, le riflessioni spiazzanti, la dolcezza infinita, il riconoscimento della propria forma riflessa negli occhi dell’altro e la spinta a volare con le proprie ali. L’aveva incoraggiata ad osare, a cercare di non accontentarsi, ma rincorrere la vera felicità, la propria realizzazione. Le aveva parlato dell’ape, quell’insetto tanto laborioso e pieno di forza di volontà da riuscire a volare nonostante di fatto questa sua caratteristica violi tutte le leggi della fisica. Perché il suo corpo è troppo grosso, perché le ali sono troppo piccole e fragili, strutturalmente inabili a sostenere il peso di quel corpo, figuriamoci a volare di fiore in fiore. Eppure lei lo fa, e ogni giorno sfida le leggi della fisica con la sua forza di volontà. Le aveva fatto capire che lui credeva nelle sue capacità, che anche lei sarebbe stata in grado di volare alto, nonostante tutti cercassero di convincerla del contrario. Ce l’avrebbe fatta. E lui le sarebbe stato accanto, se solo lei gliel’avesse permesso.
Forse questa era stata la molla che doveva scattare per convincerla a prendere in mano la sua vita. E così aveva fatto. Aveva mollato tutto: fidanzato, casa, mutuo e parenti. Aveva preso un appartamento in affitto, minuscolo ma tutto suo, uno spazio vitale nel quale poter avere respiro e prendere le proprie decisioni con consapevolezza. Aveva cominciato a fare due, anche tre lavori contemporaneamente per poter pagare affitto, bollette, studio e scuola di specializzazione privata. Quella che aveva sempre sognato di fare, quella di Milano, la migliore. Ed a quel punto era arrivato anche Sasuke, primo compagno di quel nuovo viaggio apparentemente in solitaria.

Dafne ora ha trent’anni, sta ancora studiando, non ha un lavoro fisso, non ha una casa sua e, al contrario di molte sue coetanee, non è sposata e non ha chiassosi bambini che le riempiono la giornata ma guarda la sua vita, tutto ciò che la circonda in questo mattino freddo d’inverno, e lo trova bellissimo, di una bellezza commovente. Tutto è esattamente dove dovrebbe essere. Profondamente giusto e perfetto nella sua umana imprecisione. Si guarda intorno e con gli occhi vorrebbe abbracciare quello che è il suo mondo, il suo piccolo universo, tanto duramente conquistato. La sua felicità.
Colta dal momento non si accorge di aver stretto la presa sul morbido manto nero del suo gatto, il quale, preso alla provvista dal gesto avventato, spalanca gli occhi fino a quel momento chiusi e con un balzo si allontana dal letto, alquanto indispettito, premurandosi di lasciarle un segno del suo passaggio in forma di artigli proprio sulla mano colpevole. Poco male, ormai c’è abituata. Tornerà fin troppo presto, già lo sa.
Guardando fuori dall’ampia portafinestra un timido sole farsi largo fra le fenditure degli scuri, si stiracchia pigramente lasciandosi sfuggire un sonoro sbadiglio e, soddisfatta, si lascia cadere indietro sul materasso con le braccia ancora alzate. Si volta verso di lui, sorpresa del fatto che stia realmente ancora dormendo. Poi decide di svegliarlo, ha pensato abbastanza, ora vuole vivere un po’ di quella vita che a lungo ha agognato. Gli si avvicina al viso, incerta se posargli una carezza sulla mascella ispida o se cedere alla tentazione di definirne il profilo morbido con la punta della lingua… ma forse sarebbe un po’ troppo. Deve ancora imparare a controllare la bestiola inselvatichita che è in lei. Lentamente, posa il viso accanto al suo, sul cuscino ancora sgualcito, abbastanza vicino da poter sentire il suo respiro sulle labbra e lo osserva ancora per un lungo attimo. Ripercorre con gli occhi le linee scure e sottili che si disegnano sotto le palpebre, segno indelebile di troppe notti insonni. Soffre d’insonnia il suo amore, da tanto tempo ormai. Ora però pare dormire profondamente, sul viso la spensieratezza del riposo che solo i bambini sanno avere e che, lo ammette, lei stessa gli ha visto di rado.
Allunga una mano e gli accarezza dolcemente la guancia, dapprima quasi con timidezza, il tocco accennato di due dita appena, poi sempre più audace, col dorso ed il pollice che, quasi per riflesso, ne delinea il contorno delle labbra sottili.
Lui dapprima muove impercettibilmente le sopracciglia, gli occhi che si agitano sotto le palpebre ancora chiuse, poi ha un lieve sussulto, come se, nel risvegliarsi, non riuscisse a rendersi conto di cosa gli sta accadendo intorno, una curiosa forma di sorpresa coscienziale. L’attimo in cui apre gli occhi. Poi tutto si ricollega e, guardandola quasi di sottecchi, le sorride.
Ehi…”, biascica con la bocca ancora impastata dal sonno, mentre inspira profondamente nel tentativo di ossigenare i polmoni intirizziti da una notte d’immobilità, “sei tornata…”.
Poi è tutto come sempre: lui protende le braccia verso di lei e la stringe, accogliendola in un abbraccio che ha tutto il calore di un istante prezioso da trascorrere insieme. Lei poggia la schiena sul suo petto, mentre lui, avvolgendole le braccia attorno alla vita e alle spalle, prende le sue mani ormai calde stingendole nelle proprie, intrecciando le loro dita saldamente e, prima di lasciasi nuovamente cullare dall’irresistibile richiamo del sonno, le posa un singolo bacio sulla spalla nuda, proprio sul suo ultimo tatuaggio: un bocciolo di rosa ancora socchiuso.

   
 
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