Please
don’t wake me up
I’m on the road to Paradise
When She was just a girl
She expected the world
But it flew away from her reach
So she ran away in her sleep
Dreamed of paradise
Every time she closed her eyes
“Vuole
anche il cuscino, signorina?” La hostess le si rivolse con un sorriso, parlando
a bassa voce per non disturbare la sua vicina, già addormentata.
Bella acconsentì, ringraziandola. Voleva davvero dormire, era stanca e
desiderosa di fuggire da quella realtà, da quel viaggio, che non voleva compiere, tuttavia sapeva che
non sarebbe riuscita a riposarsi.
Appena ebbe ricevuto il cuscino, accomodatasi meglio sul sedile,
inevitabilmente la sua mente tornò indietro alle notti precedenti. Era curiosa
di sapere come sarebbe finito. Quel sogno che proseguiva nella sua mente tutte le
volte che chiudeva gli occhi aveva reso quelle due notti le più strane della
sua vita. La prima notte l’aveva spaventata, la seconda l’aveva sorpresa, e la
terza?
Signori e signore, si parte verso la
terra dell’inconscio, allacciate bene le cinture, rilassatevi, e godetevi lo
spettacolo.
*
A occhi chiusi, isolata dai rumori dell’aereo, mi concentro. Dov’ero rimasta?
Vediamo se mi ricordo…
Ah, sì.
Comincia tutto su una strada stretta, di sicuro di un piccolo paese. È deserta,
nessuna automobile in transito, ed è circondata sui due lati da una foresta
verde, umida. Mi guardo alle spalle, il paesaggio è oscurato da una fitta
nebbia; posso solo proseguire dritto davanti a me.
Inizio a muovere qualche passo, ma dopo poco sento un rombo che mi allarma. Mi
fermo, controllo che non stia arrivando nessuna macchina. Negativo. Riprendo a
camminare; presto, però, la fonte del rumore si rivela: una pioggia scrosciante
mi si riversa addosso all’improvviso,
inzuppandomi.
Fin qui l’interpretazione del sogno è più che chiara: Forks
fa schifo e io non ci voglio andare. Ma andiamo oltre. Continuo quindi a
camminare sotto la pioggia, il raggio visivo ridotto a pochi palmi dal mio
naso, cercando comunque di osservare l’ambiente che mi circonda. Per qualche
tempo la foresta sembra proseguire all’infinito sempre uguale, finché qualcosa
comincia a cambiare: prima qualche cespuglio, poi gli alberi, i fiori… tutto diventa più inquietante, un vero e proprio
paesaggio da incubo, di quelli pieni di piante rinsecchite che solitamente sono
di sfondo a cimiteri infestati da fantasmi. A un certo punto – ricordarlo mi fa
ancora venire i brividi – degli ululati terrificanti mi raggiungono, facendosi
strada nella nebbia. Evidentemente non sono un cuor di leone nemmeno nei miei
sogni, perché, presa dal panico, comincio a correre, senza più guardare niente:
la strada, gli alberi, tutto si mischia riempiendo la mia visuale di indistinti
colori opachi.
Corro, corro come sarei capace di fare solo in un sogno, e mi fermo solo quando
mi sento più sicura, convinta di essermi lasciata i lupi alle spalle.
Già a questo punto il mio sogno smette
di avere interpretazioni logiche: da quel che ne so, l’area di competenza di
lupi e bestie simili continua ad essere a qualche chilometro dalla piovosa
cittadina di mio padre. O almeno, lo spero.
In ogni caso, ripreso fiato, noto con piacere che la nebbia inizia a diradarsi
e che svela ai miei occhi un edificio in lontananza. Ricomincio a camminare, la
pioggia sempre fitta su di me, diretta in maniera decisa verso quello che
perlomeno dovrebbe essere un riparo sicuro dalle intemperie.
Ma non sia mai che la vita di Bella sia facile, nemmeno nei sogni!
Presto l’inquietante sensazione di non essere più sola comincia infatti a
pervadermi, strisciando nel mio corpo come un serpente, e una paura ancora
peggiore della precedente mi assale. Ma le presenze che mi sembra di avvertire
tardano a mostrarsi e solo dopo un po’ questa mia sensazione diventa certezza:
sento dei suoni distinti intorno a me e delle mani gelide che mi toccano, che
mi afferrano.
Improvvisamente si materializzano e le vedo: una schiera uniforme di ombre
incorporee e indistinguibili una dall’altra mi circonda, mi segue. Alcune si
distaccano, vogliono trascinarmi questa da un parte, quella dall’altra, alcune
addirittura litigano tra loro, altre ancora mi passano solo di fianco,
urtandomi.
Confusa e terrorizzata, riprendo la corsa da poco fermata e mi lancio contro
quella barriera dall’aspetto però inconsistente, che infatti, come speravo, pur
con qualche difficoltà mi lascia passare.
Alla fine, stremata e senza più fiato, giungo alla porta dell’edificio che
avevo visto da lontano e la apro di slancio. Al suo interno trovo qualcosa di
inaspettato: a riempire quasi tutta la superficie di quel locale, costituito da
un’unica stanza, ci sono dei banchi da laboratorio. Sì, dei comunissimi banchi,
di quelli che si trovano in tutte le scuole superiori, dietro ai quali gli
studenti sono chiamati a sgobbare su esperimenti di chimica o biologia.
Un po’ titubante avanzo quindi oltre la cattedra, ma un rumore improvviso mi fa
intendere che, ancora una volta, non è tutto semplice come sembra. Quel suono,
cupo, gutturale, mi causa all’istante dei sudori freddi lungo la schiena,
poiché nell’udirlo si delinea nella mia mente una fin troppo nitida immagine, forse presa da qualche documentario.
Lentamente giro la testa verso la cattedra, alla mia destra, e purtroppo trovo
proprio ciò che avevo sospettato, lì, sdraiato sulla pancia ma con la testa
chiaramente puntata verso di me.
Un maestoso – di dimensioni non esattamente trascurabili – leone tiene i suoi
occhi fissi nei miei, mentre si solleva sulle quattro zampe.
Potrà sembrare sciocco, forse insensato, ma in questi istanti è proprio il
colore dei suoi occhi a colpirmi, non la sua stazza o i suoi denti aguzzi.
Hanno la stessa tonalità di rosso intenso della sua folta criniera, una cosa innaturale, mi dico, e proprio
non riesco a distogliere l’attenzione da questi. Anzi, sono così concentrata,
che solo dopo diversi secondi mi accorgo della sua espressione feroce, di tutta
la bava che sta colando sul pavimento e delle sue zampe posteriori piegate in
posizione di attacco, giusto in tempo per vederlo mentre salta verso di me.
Così si era
chiuso il primo sogno, con la sveglia che è squillata proprio quando quel
simpatico cucciolotto voleva giocare con me. Un
peccato!
La sera successiva ero, lo ammetto, un po’ in apprensione, ma mai avrei creduto
che l’incubo fatto la notte precedente sarebbe ricominciato da dove si era
interrotto. E invece, chiusi gli occhi, mi ero ritrovata in quello stesso laboratorio,
seduta ad un banco. Su quello di fianco al mio, in posa come un cane
ammaestrato, c’era il leone, immobile: non muoveva un muscolo – solo la sua
coda scuoteva l’aria attorno a noi – e mi guardava.
Nonostante sembrasse davvero calmo, ero comunque impietrita al mio posto,
pervasa dal timore che si riavesse da quello stato di quiete; non osavo
distogliere lo sguardo, fisso nei suoi bellissimi occhi nel tentativo di
coglierne le intenzioni.
Per un tempo infinito io e il leone ci siamo squadrati, lui curioso – possibile? – io terrorizzata,
ma ostentando una fintissima calma. I suoi occhi
sembravano quasi appartenere ad un umano, pareva che mi stessero analizzando,
che cercassero di comprendere qualcosa. Attorno a noi c’era il silenzio mentre
in quello sguardo io andavo via via sciogliendo il
mio timore e cominciando a provarne un altro di diversa natura: erano infatti
così penetranti quegli occhi, che iniziai a sentirmi a disagio, come se fossero
in grado di leggermi dentro.
Mi resi conto all’improvviso, dopo parecchio, di quanto si fosse avvicinato il
leone, col viso ormai a una spanna dal mio, e sobbalzai all’indietro.
Senza avere neanche il tempo di riprendermi da quello shock, alzandomi, vidi
che non eravamo più soli nel laboratorio: quattro gatti di dimensioni fuori dal
normale – le loro teste mi arrivavano sopra al ginocchio – si avvicinavano a
me, apparsi dal nulla.
Avanzavano in formazione, due davanti e due dietro; ce n’erano due dal pelo
corvino e due con il manto color miele, disposti in alternanza. Affiancarono il
leone, che nel frattempo era sceso dai banchi, come a volerlo proteggere: tirarono
fuori gli artigli, inarcarono la schiena, soffiando in mia direzione, pronti ad
attaccare.
A quel punto, nel panico, devo aver invocato una fine provvidenziale del sogno
come quella della notte precedente, senza però avere successo.
Il colpo di scena in ogni caso, come in ogni sogno che si rispetti, non si è
fatto attendere: il leone ha ruggito, inferocito, e superando la schiera di
felini con un balzo si è portato davanti a me. Sempre ruggendo si è imposto su
di loro, obbligando i gatti a chinare il capo e a ritirare gli artigli.
Io ero immobile per la sorpresa, quando il leone, giratosi verso di me,
strusciò il muso sul mio fianco, con fare quasi affettuoso.
Zac! Ed ecco che ancora tutto sparisce in un
dissolversi di colori ed io mi ritrovo nel mondo reale.
Ecco, questo è il punto dove ero rimasta, quando stamattina è suonata la sveglia
ed è iniziato il giorno che avrei preferito non arrivasse mai: quello della mia
partenza.
Il fatto che io non sia stata in grado di dare nessuna valida interpretazione
alla seconda parte del sogno mi rende molto curiosa di sapere se e come
continuerà stanotte.
Con i sensi ormai azzerati, il brusio ovattato dell’aereo chiuso fuori dalla
mia mente, affondo la faccia nel cuscino, preparandomi a quella che spero
essere un’avvincente e interminabile fuga dalla realtà.
In
a night, the stormy night she closed her eyes
In a night, the stormy night away she flies
Dream of paradise
Sono davanti a
una porta, laccata di bianco. Neanche ho il tempo di girarmi, che comincio a
sentire qualcosa che sta bagnando la
mia mano. Rido, un solletico irresistibile mi pervade il braccio, e quando mi
volto vedo il leone intento a leccarmi; sembra quasi che sia stato qua da ieri
sera ad aspettare che tornassi e che questo sia il suo modo di darmi il
benvenuto. Dopo aver ricevuto la sua dose di carezze, che accoglie con
l’espressione compiaciuta di un micione che fa le
fusa, cambia atteggiamento: mi spinge col muso, tira leggermente un lembo del
mio golfino.
Capisco che vuole che io apra la porta e lo assecondo. Al minimo tocco questa
si spalanca, lasciandomi accecata per un attimo.
Davanti a noi non vediamo infatti un’altra stanza, ma un prato sterminato, di
un verde così acceso e brillante che riflette come uno specchio la calda luce
di un sole estivo – altro che Forks! –.
Il leone dietro ed io in testa ci lanciamo di corsa nell’ampio spazio aperto,
senza confini, intervallato solo qua e là da alcuni alberi. Dopo essersi
divertito a seguirmi e a girarmi intorno per un po’, il mio nuovo amico si
ferma davanti a me e, proprio come se gli leggessi nel pensiero, comprendo all’istante
che vuole che io salga sulla sua groppa. Supero la mia esitazione in un attimo
e mi avvicino, monto sul suo dorso liscio, lo accarezzo e poi appoggio il petto
sulla sua criniera, allacciando le braccia attorno al collo.
Il sogno continua così, con la mia prospettiva che diventa quella del leone, i
miei occhi che vedono quello che vedono lui, un tutt’uno che sfreccia
sull’erba, fra gli alberi per un tempo simile all’eternità.
Infine il leone arresta la sua corsa e mi fa scendere; appena ho rimesso i
piedi a terra alzo il viso, ma non lo vedo più. Mi giro e mi rigiro, mettendo a
rischio il mio precario equilibrio, finché vedo una sagoma in lontananza, un
punto che si fa sempre più luminoso. Sono certa che sia una figura umana,
tuttavia so che è il leone: non c’è un motivo, come accade spesso nei sogni, lo
so e basta.
Faccio in tempo a muovere un passo verso di lui, prima che una luce innaturale
inghiotta tutto il paesaggio attorno a me, lasciandomi ad urlare nel vuoto. No! Lascia solo che io lo raggiunga…
*
“Signorina, si svegli, siamo arrivati.” Bella spalancò gli occhi, sobbalzando;
la sua vicina di posto non aveva modi granché delicati.
“Sì, sì, sono sveglia.” La rassicurò, sperando che mollasse velocemente la
presa sul suo braccio.
Sbatté tuttavia gli occhi ripetutamente, prima di essere davvero vigile e
presente a se stessa.
Per tutto l’atterraggio rimase comunque con lo sguardo fisso sul sedile di
fronte a lei, senza guardarlo realmente, solo pensando al senso di amarezza che
le aveva lasciato quel sogno così strano. Ripensò all’evoluzione di quella
fantasia, dal principio alla fine, e più ci rifletteva, più un insensato
ottimismo cresceva dentro di lei. Un nuovo sentimento di positività la stava
guidando nell’intraprendere quella piovosa – ma pensa! – giornata, che si era preannunciata come una delle
peggiori della sua intera vita: aveva come la sensazione che, non sapeva come,
non sapeva perché, la sua vita a Forks non sarebbe
stata poi così male.
So lying underneath
the stormy skies
She said I know the sun’s set to rise
It’s gonna be paradise