Allora, voglio premettere un paio di
cosette, a questa storia. Chi mi conosce, sa che mi è tipico andarmene di
ragionamenti in ragionamenti, quindi non se ne stupirà. Questa storia, come è
visibile nella sua presentazione e nella sua intestazione, è stata scritta per
l’ OTP Tournament, Dramione
vs Drarry vs Harmony. Mi è
arrivato un elegantissimo invito, in cui mi si chiedeva la partecipazione a
tale iniziativa, nominandomi Fanwriter d’onore del fandom Dramione. Inutile dire la
mia gioia e la mia sorpresa, è stato davvero un onore che ancora non credo di
meritarmi viste le altre partecipanti in gara. Ho avuto un mio Prompt esclusivo e due mesi di tempo per scrivere. Ebbene
durante i succitati mesi, ho avuto crisi d’ispirazione, esami all’università,
crisi di vario tipo, riuscendo a cavarne solo poche paginette. Peraltro
distrutte dal mio pc all’inizio di gennaio, costringendomi a considerare
seriamente il ritiro. Ho ricominciato a scrivere, ho sostenuto l’esame di
procedura penale (a cui questa storia fa anche eccessivo riferimento) e in
quindici giorni ho scritto una storia completamente diversa da quella pensata
in origine. Ora questa premessa ha tale senso.
Io odio questa storia, la odio. Odio come
è scritta, odio la sua lunghezza, odio la sua trama, odio tutto. Ed odio come
mi ha fatto sentire, svuotata, persa, mentre scavavo in cose decisamente da
dimenticare. Quindi insomma, prendetela in questo senso. Non vuole essere il
tipico atteggiamento di una che cerca di ingraziarsi voti e pubblico, sono
onesta… J è stata un flusso continuo di pensieri e spero di
averli espressi in un modo almeno comprensibile.
Detto questo, ringrazio davvero chi mi ha
dato questa possibilità, concedendomi la possibilità di impegnarmi in una cosa
del genere, concedendomi anche più tempo, quando non ce l’ho fatta per la prima
scadenza.
La dedico a tutte le meravigliose ragazze
del gruppo PUT A SPELL ON HER EYES, per avermi sostenuto, difeso e per avermi
dato tutto il tempo per finire questa storia, anche a prezzo di mettere in
pausa Halft, la storia che loro seguono maggiormente.
Sono stata fortunata a trovare persone come voi. Davvero. Non smetterò mai di
dirlo.
Buona lettura. Cassie chan.
In
ogni processo, il diritto alla ricerca della prova è considerato un diritto
inalienabile. L’ordinamento garantisce il diritto all’indagine a ciascuna delle
due parti, in ogni stato e grado del procedimento.
“E’ solo una carezza…”.
Hermione
sapeva usare bene le parole, poteva dire che lei stessa rassomigliasse alle
parole in modo quasi tangibile. Sempre precise, sempre nette, sempre
inequivocabili. C’erano i sinonimi, certo, ma per ognuno di essi, un
significato unico e distinto era sempre possibile da distinguere. Poteva non
essere facile, ma lei conosceva ogni sfumatura, ogni colore delle parole che
tanto amava, da quando aveva imparato a parlare.
Mare e oceano. Cielo e firmamento. Amore
ed affetto.
Carezza…
e altro.
Hermione
aveva l’attitudine a modellare le parole, restituendo il loro vero suono e
peso, collocandole nelle frasi come pezzi di un puzzle sintattico studiato a
tavolino. E le parole, gloriate nel loro essere sempre sé stesse, la
ricompensavano consentendole di nascondersi dietro di loro, di usarle a loro
piacimento, facendosi forzare in acrobazie dialettiche che la tenessero al
sicuro, proteggendola dagli altri e da sé stessa.
Hermione
aveva calcato il solo, con perizia da
avvocato consumato, cosicché la debolezza fiacca che l’aveva colta passasse
inosservata, sfuggisse lontano da sé stessa come qualcosa che non aveva alcuna
importanza. Negletto, trascurato, un gesto di poco conto. Irrisione a pensare
il contrario.
Aveva
anche usato la parola carezza, così
molle all’udito, così affine all’aggettivo cara
da sembrare persino stucchevole. Era scivolata fuori anch’essa senza
particolare attenzione, come se nemmeno se ne fosse accorta. Eppure, con quei
suoni strascicati e sinuosi nel finale, era rimbombata nelle sue orecchie come
la nota trattenuta di un organo, all’interno di un’immensa cattedrale di pietra
bianca.
Le
parole erano ancora uno schermo, forse lo sarebbero state per sempre.
Se le
fossero sempre uscite direttamente
dalla mente così come le pensava, non avrebbe avuto il minimo problema nella
vita. Si sarebbe erta come una statua di cera, inespugnabile, al sicuro.
Ed
invece le parole erano corse nel sangue, erano arrivate in gola, erano esplose
dalle labbra, superando la barriera dei denti. Troppa strada, perché non
perdessero l’intenzione originaria che le aveva plasmate, il freddo
ragionamento che le aveva contraddistinte, la scelta tecnica di quale fosse la
migliore nel tentativo di sistemare la falla nella scialuppa su cui annaspava. La
falla, però, lei stessa l’aveva aperta, lei e la sua mano che era corsa lesta e
repentina, come un elastico rilasciato all’improvviso.
E da
una donna di trentasei anni, era quantomeno fuori luogo avere una reazione
simile. Fuori luogo, certo, per non dire altro. L’altro faceva rima con ovvio, naturale, inevitabile, e con tutta
una serie di aggettivi diversi e uguali nel spaccarle il cranio con lo stesso
concetto.
Era stato fuori luogo, ma era stato
inevitabile.
Non
era la mente a parlare, lo sapeva, dopo aver usato la dannata parola “carezza” se ne era rimasta in silenzio,
tacendo svergognata in un moto di orgogliosa ritrosia .
Era tutto il resto a sproloquiare su parole mai nemmeno
esistite: la pelle della mano stessa, le falangi delle dita, i polpastrelli
al contatto con il tessuto della camicia che continuava a stringere. Ogni
centimetro di lei.
La
mente si era trincerata dietro quella scelta di un termine assolutamente neutro
ed innocente, come carezza, per
giustificarla e proteggerla da quello che, invece, imperativo il corpo le aveva
comandato, riempiendola di disagio ed imbarazzo. Non era stato innocente il
pensiero di toccarlo, ancora, di nuovo, in quel gioco di specchi che era quel
corridoio deserto, quella luce calda di ottobre che indorava le pietre in
rilievo delle pareti, quella scomoda sensazione che, se non lo avesse toccato
anche solo per sbaglio, sarebbe caduta a pezzi, macerandosi come polvere dietro
l’aspetto rispettabile e quieto che il decoro ancora le suggeriva.
Un
tempo, il decoro era stato quello di una diciottenne ancora vergine della vita
e degli infiniti compromessi che ti insegna. Quel giorno, il decoro era quello
di una madre di famiglia, che della negazione aveva fatto il suo mantra, al
punto di negare persino che ci fosse concretamente qualcosa da negare.
La
borghese pudicizia è sempre stata nascondere un cadavere sotto al letto,
scrollandosi la polvere di dosso ed additando l’assassino del giardino accanto,
mentre il segreto si putrefaceva e la sua esistenza restava inviolata.
Anche
se usava il termine carezza, Hermione
sapeva che persino la pelle bollente contro la sua camicia la sbugiardava, come
la smascherava la voce tremula, fioca, fosca. Per non parlare degli occhi,
puntati altrove, chiusi poi come a non voler vedere più niente. Quello che lei
stessa aveva fatto.
Non
c’era nulla di innocente nell’averlo richiamato indietro, non usando la voce,
ma la sua mano. Meno che sconvenientemente calcolato, era stato chiudere le
dita attorno al suo avambraccio destro. Una previsione, un vantaggio sfruttato,
un colpo dove faceva più male, dove lei sapeva che avrebbe fatto più male.
La
pelle, sotto quella camicia, si era tesa impercettibilmente, aveva sentito i
muscoli contrarsi come se fossero stati punti da uno spillo. L’aveva sentito
trasalire, la schiena davanti ai suoi occhi che si piegava.
Ed
aveva rassicurato lui e sé stessa, mentre si scioglieva come burro il pavimento
sotto i suoi piedi.
Aveva
rassicurato solo sé stessa. Chiacchiere. Se ti metti a fare una frittata, devi
rompere qualche uovo.
“E’ solo una carezza…”.
Lei
ce l’aveva tutto il diritto e il dovere di toccarlo ancora, di nuovo, in quel
corridoio deserto, in un pomeriggio pigro di ottobre, non fosse altro per
affetto, non fosse altro per i ricordi, i rimpianti e i rimorsi e tutto quello
che ci scorre in mezzo.
Fu
fulmineo pensarlo, fu un lampo avere quel pensiero, fu un attimo prima che le
sfuggisse il controllo. Permeò la rabbia nel sangue, facendole contrarre le
labbra in uno spasmo, riducendole ad una fessura, facendole abbandonare lo
sguardo dolciastro che voleva celare le sue vere intenzioni e i suoi veri
sentimenti dietro una patina di resettata cortesia, consciamente normale dopo
diciotto anni. Le dita scivolarono via dalla sua camicia, in segno di resa,
facendole pendere il braccio lungo il fianco, come un arto morto.
“S-scusami…”
balbettò pateticamente sincera, facendo ricadere in gola la morsa che
minacciava di farla capitolare “E’… stato un riflesso… non me ne sono
accorta…”.
Un riflesso. Un’altra parola scelta ad
hoc.
Lei stessa era diventata un riflesso. Di
una sé stessa fissata per sempre in un giorno di diciotto anni prima.
Chiuse
gli occhi, le ciglia bagnate di lacrime nascoste, frementi le palpebre di una
parola sfuggita, di un gesto dimenticato, di un imprevisto sospiro. Ed invece l’accolse
solo il silenzio e qualche parola.
Asettica
come il bisturi chirurgico che dissezionava nuovamente la loro vite,
separandole di netto con un taglio preciso, da cui non disperdere nemmeno una
goccia di sangue.
“Non è niente…”. I suoi passi sparirono
sotto le sue palpebre ancora chiuse, dentro le lacrime che negò di star versando,
anzi che negò persino di aver negato di versare.
Lui
era stato sempre quello dei gesti,
mai quello delle parole. Quella era
sempre stata lei.
Eppure
Hermione ebbe la nettissima sensazione che stavolta lui le avesse scelte
apposta.
Una
dopo l’altra, la contrapposizione netta con le sue, scelte per nasconderla. Le
sue erano scelte per svelarlo.
Non è
niente, Hermione. Come sempre è stato.
Respira.
Draco
Malfoy non è niente, Hermione. Come sempre è stato.
Negazione della negazione.
Parte
prima: Fonte di prova. Ovvero ogni reato lascia una traccia nel luogo nel quale
si è verificato.
5 ore prima
Hermione
non era mai stata una donna scaramantica, tantomeno poteva diventarlo a
trentasei anni compiuti. Era sposata da
dodici anni, aveva due figli, era un’ex eroina del Mondo Magico ed attuale
dipendente del Ministero della Magia. Tutto di lei trasudava razionalità e
logica, nonché una malcelata ansia da controllo.
Eppure
Hermione era una di quelle tipiche donne che esorcizzavano l’irrazionale e
l’imprevisto in una serie di piccoli riti quotidiani che, se eseguiti alla
perfezione, le davano la rassicurante certezza che nulla di strano le potesse
accadere in giornata. Oppure, la preparavano all’inevitabile.
Hermione
Granger era già stata punita abbastanza dall’imprevedibilità della vita, dalla
sua assoluta mancanza di logica e di senso comune, dal gioco perdutamente
casuale di coincidenze e sovrapposizioni di momenti e persone, al punto di
creare schemi enigmatici in cui lei era soffocata per diciotto lunghissimi anni.
Oramai,
il peggio era alle spalle: la lunga guerra contro Voldemort, la lunga pace
armata, la lunga riappacificazione con Ron, la lunga accettazione del
matrimonio, la lunga accettazione di una nuova sé stessa, né migliore, né
peggiore, solo drammaticamente differente.
E lei
rivendicava alla vita uno schema, una logica, un disegno da creare a tavolino
con piccoli segnali.
Scendi dal letto solo dal lato destro.
Accendi la luce in bagno prima di entrare.
Bevi caffè nero bollente decaffeinato
dalla tazza azzurra con i decori bianchi.
Dai due baci per fronte a Rosie ed Hugo.
Saluta Ron con un bacio a fior di labbra.
Per
dodici anni, i riti avevano creato un comodo e confortevole bozzolo in cui
Hermione si era rifugiata. Spesso, chiaramente, era intervenuto il classico
imprevisto, ma nulla che Hermione, con la pazienza rocciosa di un comandante,
non avesse riportato nei giusti argini. Qualcuno le avrebbe potuto dire che
viveva un’esistenza noiosa e prevedibile, ma Hermione avrebbe ribadito che i
primi vent’anni della sua vita erano stati tutto fuorché noiosi, quindi si
meritava almeno vent’anni di pace come contrappasso.
Hermione
sentiva di meritare la pace, ma una vera pace, non quella illusoria della fine
della seconda guerra.
Il
male non è mai assoluto, anzi spesso è banale e scontato. Sconfitto Voldemort,
ognuno aveva dovuto provare sulla propria pelle che, sparito il pescecane,
nello stagno limaccioso c’era ancora discutibile posto per i pesci piccoli. E
spesso essi non erano altro che quelli che avevano dato la caccia al pescecane,
uccidendolo.
Ma
quella era un’altra storia. Ed era da raccontare un’altra volta.
O non
era da raccontare mai, tanto in fondo non avrebbe interessato nessuno. E poi lei
voleva negare di aver imparato quella lezione, figuriamoci se si sarebbe messa
ad insegnarla, come faceva sempre con altre cose.
Hermione,
quella mattina, era scesa dal letto dal lato sbagliato perché era stata
svegliata bruscamente da un picchiettare continuo e martellante sul vetro della
sua finestra. Un gufo, alle otto di domenica mattina.
Sinonimo:
guai. Una grafia precisa di colore
verde. Sinonimo: guai ad Hogwarts.
Ergo, Rose.
La
lettera, firmata dalla neopreside Alista McGranitt, sorella della sua vecchia
professoressa, parlava di comportamenti indisciplinati della studentessa Rose
Weasley che, a quanto pare, assieme a due compagni di bravate, aveva messo a
repentaglio la sua vita e quella dei suoi colleghi, cercando di entrare nella
ormai chiusa Stanza delle Necessità. E dire che Rose sapeva perfettamente che
quella stanza era stata resa ormai inservibile dall’Ardemonio che era divampato
durante la Guerra di Hogwarts e che aveva ucciso Vincent Tiger.
Rose
aveva ascoltato quei racconti come fiabe della buonanotte, sin da quando era in
fasce.
E
questo ovviamente aveva mandato Hermione su tutte le furie, specie perché la
preside chiedeva immediatamente la convocazione dei genitori dei ragazzi per
concordare una punizione adeguata.
Rose
non solo aveva messo a rischio la sua vita, ma aveva anche avuto un richiamo
disciplinare. E la scuola era iniziata da esattamente trentacinque giorni.
Cosa
trascurabile dopo questi due fatti, fu sperimentare il sempre calzante detto:
“Il buongiorno si vede dal mattino”. Non solo la convocazione era per le dieci
di quella mattina, ma Ron non poteva assolutamente andarci.
“Torneo di Quidditch con Harry, Mione! E
lo rimandiamo da settimane e lo sai! Giuro che se salta anche questa settimana
mi faccio un esorcismo, miseriaccia! E poi a te piace tornare ad Hogwarts, ci
hai fatto anche un anno in più, no?”. Inutile contraddirlo con l’evidente
argomentazione che lei non aveva fatto un anno in più, era solo tornata dopo la
guerra per finire gli studi, come invece lui e quell’asino di Harry non avevano
fatto.
Ron
aveva bofonchiato qualcosa e poi aveva afferrato Hugo, uscendo di casa mentre
lei ancora parlava di voler approfittare della domenica per sbrigare delle
faccende.
Innervosita
e rassegnata all’inevitabile, si era fatta una doccia, si era vestita e aveva
trangugiato un caffè.
Macchiato,
in una tazza rossa e gialla. Pessimo segno.
Talmente
pessimo che, accorgendosene, si era così seccata da decidere di
smaterializzarsi quanto prima ad Hogsmeade in modo da risolvere celermente la
questione, probabilmente suggerendo alla preside di espellere Rose e di
mandarla a caccia di Mollicci nell’ospitale tundra bielorussa per circa una
decina di anni.
Si
era infilata il soprabito beige, sopra i jeans scuri e la camicia verde, ed
aveva afferrato la borsa, smaterializzandosi un secondo prima di rendersi conto
di aver dimenticato il cellulare che stava squillando disperato da un’ora. Poco
male, ci mancavano altre seccature.
Ma la
seccatura che Hermione aveva ignorato, si chiamava Ginny Weasley in Potter,
tendenzialmente impossibile da ignorare.
Era
appena arrivata ad Hogwarts ed era rimasta un attimo immobile in vista del
castello, un sorriso sulle labbra, mentre ammirava il luogo dove forse era
stata maggiormente felice in tutta la sua vita. Le merlature antiche, le torri
svettanti nel cielo turchese, le finestre gotiche illuminate fiocamente dalla
luce del sole, la foresta, il lago… ogni cosa era abitudine, ed ogni cosa era
consuetudine fissata per sempre nel tempo. Ingoiò il groppo in gola, che
minacciava di farla piangere di stupida commozione da quasi quarantenne
nostalgica, e fece qualche passo in direzione del portone d’ingresso.
Ad
inserirsi pienamente nel flusso di ricordi che la stava investendo, intervenne
la voce di Ginny che, trafelata, non appena la vide, si allontanò dal portone
dove Hermione aveva solo visto una sagoma muoversi nervosamente avanti ed
indietro, prima di mettere a fuoco che si trattasse di lei. Ginny si era messa
a correre verso di lei, dimostrando molto meno dei suoi trentacinque anni da
mamma di tre figli.
L’aveva
afferrata per un gomito senza una parola, spingendola nella direzione opposta a
quella del castello, brontolando qualcosa, mentre Hermione si puntellava con i
piedi, non capendo.
“Rispondessi
una santissima volta a quel benedetto telefono!” inveiva, cercando di
spingerla.
“Si
può sapere che ci fai qui?!” chiese Hermione, il pietrisco della strada
sterrata che ciottolava sotto i suoi piedi “E perché diamine mi stai
spingendo?!”. Ginny, sudata, aveva sospirato, alzando gli occhi al cielo. Poi,
come se improvvisamente si fosse vista dall’esterno, notando l’infantilità e
soprattutto l’inutilità del suo comportamento, si era improvvisamente fermata,
lasciandole il gomito e ravvivandosi i corti capelli rossi.
“Non
c’è bisogno che tu entri…” biascicò Ginny, concentrando la sua attenzione su un
acero accanto a loro e distogliendo lo sguardo da lei. Il vento le scompigliò i
capelli, li trattenne con una mano distrattamente.
“So
che hai delle cose da fare… ci penso io a Rose, tranquilla” soggiunse con un
lieve sorriso tirato, tornando a guardarla, apparentemente serena. Hermione
inarcò un sopracciglio, massaggiandosi una tempia, consuetudine acquisita negli
anni di frequentazione dell’amica e cognata.
“Ora,
se hai finito, tenti di farmi capire qualcosa, prima che inizi seriamente a
preoccuparmi” riprese con voce calma “… che ci fai qui?”.
Ginny
rise sarcasticamente: “Secondo te, Rose con chi può aver tentato l’impresa? Da
sola? O con uno che, sciaguratamente, è mio figlio?”.
“Albus?”.
“E
chi sennò?”.
“Avevo
pensato anche a James, sinceramente…” concluse Hermione rassegnata, lasciando
cadere le braccia lungo i fianchi “Chi è il terzo della triade?”. Ginny incassò
le spalle, rizzandosi improvvisamente.
“Non
lo so…” balbettò velocemente, troppo
velocemente “Ma tranquilla, ora posso sbrigarmela io per tutti e due… vai a
casa, non ti preoccupare…”.
“Gin,
grazie dell’interesse, ma ormai sono qui…” sorrise Hermione, riprendendo a
camminare lungo il sentiero “E poi stavolta Rose mi sente… lo sa da anni che la
stanza delle…”.
Ginny
la prese nuovamente per il polso, bloccandola di nuovo. Hermione la guardò
ancora senza capire, osservando la mano serrata dell’amica e chiedendosi ancora
cosa ci fosse che non andava. Era evidente che ci fosse qualcosa di storto, di
immensamente strano, ma non riusciva a collegare. Gli occhi chiari di Ginny la
guardavano sinceramente preoccupati, un dejà vu colse improvvisamente Hermione,
facendola trasalire.
Aveva
già avuto quell’espressione, gli occhi lucidi, le narici che fremevano, le
labbra serrate, le guance chiazzate di rosso. Poteva averla avuta in qualsiasi
momento, certo, e lei non lo ricordava ovviamente più.
Ma il
contegno del corpo, l’ansia di trattenerla, l’angolo superiore delle labbra
alzato in un moto quasi di… disgusto…
le sopracciglia arcuate ed aggrottate sugli occhi severi… no, l’aveva avuta
solo una volta quell’espressione. Solo una volta… e non sapeva, né voleva
ricordarsi quando.
Il
polso nella mano di Ginny divenne gelido, come se al sangue si fosse sostituito
ghiaccio liquido.
“Fai
venire Ron, Herm… torna a casa…” le ingiunse
perentoria Ginny, guardandola severamente.
“E’
con Harry… non verrà mai…” rispose instupidita Hermione, non riuscendo ancora a
capire.
Il
sole sparì, dietro una nuvola di passaggio, facendo piombare tutto in un
grigiore maggiormente consono ad una giornata d’autunno, come quella. O ad una gelida mattina di inizio estate,
che ti chiedi se davvero sia giugno oppure non sia tornato l’inverno. Pure
sfregando le mani sulle braccia, non ne aveva ricavato calore. I fiori
sbocciati sotto gli alberi sembravano un controsenso, come se la natura si
fosse sbagliata, avesse perso il conto dei giorni del calendario. Il lago nero
sembrava un buco corvino, dove annegare. Ci aveva anche pensato. Certo, che ci
aveva pensato, mentre guardava la sua schiena allontanarsi. E disgustata da
quel pensiero, si era accovacciata al suolo, in ginocchio, pregando chissà chi.
L’orgoglio le aveva raccontato che stava pregando Dio di cucire quel buco che
le aveva aperto dentro, e lei blaterava che invece era lui che stava pregando.
Era lui che stava pregando. Fermati, non ti muovere. Stai lì. Non fare un
passo. Non dire altro.
Non te ne andare.
Il
simulacro si ruppe al penetrare del ricordo. Il bozzolo che l’aveva avvolta
come una bambagia soffice e comoda, si spaccò a metà. Hermione, crisalide al
contrario, non ne uscì farfalla, ne uscì di nuovo bruco.
Ci
era entrata a diciannove anni, chiudendosi dentro nel fulgore di un colore che
non avrebbe mai più avuto.
Ne
usciva adesso, avvizzita come una larva, appesantita come se avesse vissuto
cento anni.
Il
bozzolo la proteggeva dai ricordi. Ora non c’era più.
Ricordò
il momento in cui Ginny aveva avuto quello sguardo.
Quella stessa mattina di giugno di
diciotto anni fa.
Non
avrebbe voluto ricordarlo, quel pensiero le dette la nausea, si piegò
lievemente come se stesse per vomitare. Dove era stato tutto quel carnevale di
odori, pensieri, colori, sensazioni, che ora sfilavano usando lei come
passerella, riducendola in ruggine? Dove era stato tutto quello fino a due
secondi prima?
Guardò
le dita di Ginny ancora chiuse sul suo polso, in tralice.
Le
sembrò assurdo aprire bocca, eppure lo fece lo stesso. “Il terzo ragazzo… è
Scorpius Malfoy, vero?”.
La
farfalla, anni prima, gloriandosi che nessuno le avesse ancora strappato le
ali, si era divincolata dalla stretta di Ginny ed era corsa verso il castello,
dietro di lui che, ostinato, le dava le spalle.
Il
bruco, diciotto anni dopo, goffo, dimentico del volo, ancora troppo abituato al
suo scrigno ovattato di silenzio, avrebbe voluto non sentire nulla dentro,
avrebbe voluto continuare a strisciare al suolo.
Non
ce la fece.
Hermione,
liberandosi con uno strattone dalla stretta di Ginny, prese a correre verso il
castello.
Correva
senza capire, facendosi delle domande, ma continuando a mettere un piede
davanti all’altro. Il corpo faceva quello che voleva, eppure la mente aveva
bisogno dell’illusione di comandarlo, quindi guardava ogni passo con vigile
attenzione, attento che lei non cadesse. Come se fosse la cosa peggiore che le
potesse accadere. Cadere. Magari, invece, avesse inciampato, ruzzolando lungo
il sentiero così da fermarsi.
Il
corpo non si sarebbe fermato, concluse subito, osservando il castello che si
avvicinava come un miraggio, quindi la mente poteva pensare. Doveva pensare.
L’aveva
visto. Trentacinque giorni prima.
Quindi,
persino nel suo delirio, Hermione non capiva perché stesse correndo, senza
nemmeno prendere fiato, ignorando Ginny che la chiamava a gran voce. Fosse che
non lo vedesse concretamente da diciotto anni, la cosa avrebbe quasi potuto
avere senso.
Quasi,
ovviamente.
Una donna sposata da dodici anni con un
uomo non corre in questo modo per vederne un altro.
Perché
di quello si trattava. Ora che il bozzolo l’aveva lasciata senza difese, sapeva
senza ombra di dubbio che era di quello che si trattava. Vederlo.
E, da
quello, era stato semplicissimo desumere il corollario del teorema con una
certezza così forte da sembrare nauseante.
Una donna sposata da dodici anni con un
uomo generalmente non corre in questo modo per vederne un altro.
Fuori
dal generalmente, per lei, c’era
sempre stato Draco Malfoy.
E
quando ragionava in quel modo, quando richiamava alla memoria l’eccezione alla
regola che era la sua vita, quel Draco Malfoy che era stata la sua maledizione
prima, la sua somma benedizione poi, ed infine nuovamente una dannazione
eterna, Hermione sapeva che potevano passare trentacinque giorni, diciotto anni
o quarantotto secondi, e lei si sarebbe sempre messa a correre come un’ossessa,
ignorando tutto il resto.
Cercare
spiegazioni razionali sarebbe stato controproducente, inutile e malsano.
L’aveva
accettato diciotto anni prima e nulla era mai davvero cambiato. Lei non era mai davvero cambiata.
Sperava
solo che il peggio fosse passato. Speri sempre
male, Hermione. Per questo cadi sempre in piedi.
Si
erano incontrati molte volte prima di quel momento. Non stava correndo,
Hermione, verso un momento di ricongiunzione segnato dal destino o dalle
coincidenze alla “Come eravamo”.
E
questo la faceva sentire ancora più imbecille di quanto già non si sentisse.
Erano
coetanei, avevano condiviso gli anni ad Hogwarts, erano entrambi tornati per
terminare la loro istruzione al termine della Guerra, lavoravano entrambi al
Ministero, avevano due figli della stessa età che, come se non bastasse,
sembravano aver legato, visto che il terzo ragazzo coinvolto nella bravata di
sua figlia era Scorpius Malfoy.
Lei e
Draco si erano incontrati in moltissime occasioni, ma molte di meno di quelle
che si potrebbe pensare.
Ovvio
era che frequentassero persone diverse, ma la guerra aveva decimato i loro conoscenti
così da renderli concretamente sempre abbastanza in contatto non richiesto: era
stato facilissimo incontrarlo in diciotto anni ad un matrimonio, ad un
battesimo o ad una celebrazione di qualche tipo.
Ed
era stato facilissimo passarsi accanto come se niente fosse.
Tendenzialmente
lui sollevava il capo in un frettoloso gesto di saluto, senza dire una parola,
e lei si limitava a sorridere nervosamente, anche lei senza dire una parola. Hermione
aveva dimenticato la sua voce.
O
credeva di averlo fatto.
L’aveva
solo sentita di striscio, mentre parlava con sua moglie Astoria, appunto
trentacinque giorni prima, il 1° settembre, alla stazione di Londra al binario
9 e ¾, quando avevano salutato i loro figli prima che partissero per Hogwarts.
L’aveva
ovviamente individuato tra la folla con il suo cappotto scuro a collo alto che
faceva spiccare ancora di più i capelli biondi corti. Cenno del capo. Sorriso nervoso. Nessuna parola. Ed aveva poi
sentito le chiacchiere di Harry e Ron sul fatto che anche lui stesse
invecchiando e su come potesse sopportare un’oca come Astoria come moglie.
Aveva obiettato debolmente che a lei invece era sembrato sempre uguale e che
Astoria era una validissima impiegata del Ministero. Sotto lo sguardo indagatore
di Ginny, senza troppo sforzo, alla fine aveva taciuto, pensando ad altro,
sospirando.
Draco Malfoy non è niente, Hermione. Come
sempre è stato.
Forse,
per tutta la vita, vedendo anche uno che gli somigliasse, avrebbe avuto quella
stretta allo stomaco e quella contrazione involontaria delle dita della mano,
ma era un’abitudine scomoda che non era dannosa. In fondo, lo incontrava così
di rado, anche al Ministero… se tutto fosse andato bene, lo avrebbe rivisto a
giugno, al momento di prendere i ragazzi dalla stazione. Cenno del capo.
Sorriso nervoso. Nessuna parola.
E
via, come sempre. Andava bene. Sarebbe andato bene. Ma non era andata bene. Per
nulla.
Hermione
sentiva le gambe non venirle dietro, mentre il respiro era già oltre le mura
del castello, a rincorrerlo come quel giorno di diciotto anni prima. Senza
motivo apparente, senza causa scatenante, ne sentiva il bisogno primordiale ed
inspiegabile. Il vento le sferzava il viso, quasi ricacciandola indietro, la
milza pungeva di dolore, le ginocchia tremavano e le caviglie dolevano, e lei
non riusciva a smettere di correre.
La
mente, finite quelle necessarie argomentazioni, ripicche scomode inflitte alla
sua dignità e al suo buonsenso, ovviamente adesso taceva, lasciandola in balia
di quel folle volo. Era come alzarsi da letto nel cuore della notte e sentire i
morsi della fame. Ti chiedi dove sia stato fino a quel momento quel bisogno, se
puoi metterlo a tacere in qualche modo, o devi per forza assecondarlo. C’è chi
si rintana sotto le coperte, cercando di ignorarlo e di riaddormentarsi.
Hermione stava invece prendendo a morsi quel bisogno per estirparlo da sé. Era
la sola scelta che si era concessa.
Non
lo sopportava. Non sopportava che esistesse, ancora. Non sopportava che
esistesse, allora.
La
rabbia e la frustrazione le fecero salire gelide lacrime agli occhi, cosciente
dello sguardo disgustato che Ginny, alle sue spalle, le stava riservando,
arrancando sul sentiero. Era lontana, distante, eppure la sentiva lo stesso. Il
suo cervello, rantolando, le fece notare che non aveva mai fatto nulla di
sciocco in quegli anni, vedendolo, anche perché c’era sempre stata Ginny con
lei.
Le
era grata.
Le era stata grata, perché ora,
nonostante Ginny, non riusciva a fermarsi.
Finalmente,
slanciandosi in avanti in un ultimo affannoso scatto, si ritrovò nell’enorme ingresso
di Hogwarts. Si fermò, riempiendo di ossigeno i polmoni che reclamavano
attenzione, mentre si poggiava con un braccio piegato ad una colonna, cercando
di calmarsi. Un gruppo di studentesse la squadrò con ben poco ritegno, cercando
di capire chi fosse e che le fosse preso. Sembravano tante Lavanda Brown in
miniatura, cosa che le fece già venire un travaso di bile. Roteò gli occhi
nervosamente, allontanandosi, prima che Ginny la raggiungesse, infilandosi nel
primo corridoio che vide, anche se per arrivare all’ufficio della Preside
avrebbe dovuto fare un giro molto più lungo.
Camminando
a passo molto più svelto di quello che avrebbe voluto, Hermione annotava
mentalmente tutto quello che vedeva, comparandolo ai suoi ricordi. Arazzi,
quadri, pietre del muro, aule, tutto per lei era fonte di curiosità e di
diletto visivo. Tutto era un modo per mettere a tacere la fame del suo cuore, metteva
un’ancora ai suoi piedi, impedendosi di correre ancora, cercando di riprendere
fiato. Giocava a trovare ogni volta un particolare diverso tra quello che
ricordava e quello che c’era in quel momento.
Inevitabilmente
qualcosa era sparito, o era stato aggiunto, o era stato cambiato di posto.
Tutto
di lei reclamava di riprendere a correre, tutto avvertiva la presenza di Draco
in quel castello e si tendeva verso di lui, come un giunco piegato dal vento,
eppure lei faceva forza per resistere, inebriandosi di innocue memorie.
Lì ho sbattuto il libro di Antiche Rune sulla
testa di Ron, perché aveva versato la mia boccetta d’inchiostro preferito.
C’era un quadro della campagna inglese, ora non c’è più.
Un
sorriso triste e rassegnato, accarezzò lo spazio vuoto quasi con affetto
tangibile.
Lì ho abbracciato Harry prima che si
andasse a consegnare a Voldemort, la parete era bruciata da un incantesimo e la
pietra si era annerita. Ora è di nuovo bianca.
Una
lacrima scese a quel ricordo, piegato adesso da un dolce senso di pienezza.
E poi
un punto qualunque.
Un’armatura
vuota, appoggiata al muro, che era rimasta esattamente allo stesso posto.
Nessun segno di polvere, nessun pezzo mancante, non era stata spostata di
nemmeno un centimetro.
Il mio viso tra le sue mani sembrava
quello di una bambina. Le sue dita erano calde, si erano appropriate della mia
nuca, le sentivo accarezzarmi piano la pelle e i capelli in un moto ondoso che,
allo stesso modo di un oceano voluttuoso e caldo, mi dava l’impressione
alternativa di affogare senza fiato, o di galleggiare saldamente. Gli occhi
chiusi erano così vicini ai miei, da distinguere le pieghe delle palpebre una
ad una, poterle contare persino se avessi voluto. Piangere, piangere di nuovo,
piangere ancora, e non vedere bene, non vedere niente, tranne il fulgore di
un’armatura abbandonata sullo sfondo, come un cavaliere chiamato a fare la
guardia alla tregua armata, ordita nel bel mezzo della guerra da due soldati
disertori.
“Sei una Grifondoro, Granger…” sussurrava
senza nemmeno riaprire gli occhi “So che avresti il coraggio di negare per
tutta la vita… di negare me e te per tutta la vita…”.
Singhiozzavo e, senza fiato, chiusi gli
occhi anche io.
“Forse allora non sono mai stata quella
che credi, Malfoy… questo… coraggio… non ce l’avrò mai…”.
Era,
invece, sempre stata quella che lui credeva.
Non
aveva mai smesso di negare.
Fino
a quel momento.
Le
gambe ripresero a correre, senza darle il tempo di prendere fiato. Prendevano
energia, sottraendola alla mente narcotizzata e al cuore impazzito. Eppure, la
lampadina si accese.
L’aveva
visto. L’aveva già visto.
Trentacinque giorni prima.
E
decine di volte in diciotto anni.
Ma
mai lì. Ad Hogwarts. Il luogo del delitto.
Voleva
guardare il complice negli occhi, lì, nel labirinto delle memorie, ed
affrontare i suoi occhi ghiacciati, leggendo le stesse parole che aveva detto
quella mattina di giugno di diciotto anni prima.
Voleva
la prova principe, Hermione.
Dimmelo di nuovo qui, diciotto anni dopo, ripetimi
le stesse parole di quel giorno.
Riempiti gli occhi di ricordi e dimmelo di
nuovo.
Dimmi di nuovo perché mi hai lasciato,
Draco Malfoy.
Parte
seconda: Mezzo di prova. Ovvero come acquisire un elemento che serve per la
decisione finale.
Invidiava sua figlia. Si ritrovava ad
invidiare sua figlia come un’inacidita madre che ha provato a vivere attraverso
di lei e, non riuscendosi, ne è gelosa. A quel pensiero, il disgusto per sé
stessa crebbe a dismisura, era già enorme e soffocante prima di mettere piede
nell’ufficio della Preside, ma ora, se possibile, si era triplicato. Era come
se le avessero messo lo stomaco in lavatrice.
Si
portò senza accorgersene una mano alla bocca, quasi a trattenere un conato, e
Ginny la guardò in tralice, lo sguardo storto, mentre la Preside continuava a
parlare.
Non
aveva mai avuto motivo di invidiare sua figlia, ne era sempre stata fiera.
Dicevano che Rose avesse il suo stesso cervello e la sua intelligenza, ma non
era così. Prima di tutto, una donna intelligente, qualora lei davvero lo fosse,
non si sarebbe infilata in quella situazione senza uscita… Rose non l’avrebbe
mai fatto, ne era certa. Era molto diversa da lei. Lo era sempre stata.
Assomigliava
a suo padre molto più di quanto superficialmente potesse assomigliare a lei.
Era
leale ed idealista, come Ron, spesso troppo inquadrata, ma comunque buona e
generosa, al limite di una scomoda ingenuità che i suoi occhi da madre
guardavano già con timore, temendo che si facesse soverchiare dalla vita.
Insegnarle malizie era comunque inutile. Lei sgranava i suoi occhi castano
chiaro e la guardava come una strega, e non una strega nella nozione buona del
termine. Non replicava, ovvio, ma Hermione si sentiva ugualmente sporca,
ingiusta, spregevole, riflettendosi nel colore buono del suo sguardo, pallido
contraltare dei suoi occhi. Potevano anche avere lo stesso tono, i suoi occhi e
quelli di Rose, ma Hermione era certa che i suoi non fossero mai stati così,
nemmeno ad undici anni.
Rose
aveva la fortuna di una mente limpida e chiara e non c’entrava nulla la sua età.
Hermione,
invece, forse anche da neonata, aveva avuto l’impalcatura di quel cervello
contorto e lambiccato a pesarle le iridi di pensieri, così da essere sempre
poco limpida.
Forse
un giorno sarebbe cambiata, la sua Rosie, forse con il tempo e la sfortuna di
eventi che non si potevano evitare, sarebbe cresciuta e sarebbe diventata più
dura e forte, più come lei che come Ron. Non glielo augurava, si augurava di
fungerle per sempre da scudo e da spada.
Ma
non era quello che le stava invidiando, non era quell’ingenuità infantile a
trovare mancante in lei e a provocarle quello spasmo alla bocca dello stomaco.
I
suoi capelli, rossi come un fuoco d’autunno, e quelli di Scorpius Malfoy,
biondi come solo suo padre li aveva, creavano un contrasto urticante per i suoi
occhi. Seduti davanti a lei, di fronte alla cattedra della Preside, sembravano
un segno di fuoco fiammeggiante in un cielo scuro. Erano vicini, molto più
vicini di quanto non fossero Albus e Rose stessa. E loro due si potevano dire
fratelli, più che cugini.
L’appoggio
che Rose e Scorpius sembravano trasmettersi in quella vicinanza, lo sentiva
anche lei.
La
invidiava. Invidiava quel tempo di pace che era davvero pace. Invidiava quell’amicizia
facile, senza che inutili colori sulle sciarpe si frapponessero, senza che una
maschera argentata fosse un inevitabile discrimine, senza che la limpidezza di
un sangue passato di generazione in generazione non fosse un prerequisito di
affetto, stima o comprensione. Invidiava la riconciliazione che la sua
generazione aveva cucito pezzo per pezzo, morte dopo morte, per consentire ai
loro figli di indossarla come fosse il più scontato ed economico dei vestiti.
Invidiava una cosa facile… che per lei, per lui, per loro tutti… non era mai
stata così difficile.
Ancora
oggi, a trentasei anni suonati, non si poteva nemmeno usare la parola difficile.
Difficile era stato
sconfiggere Voldemort. Impossibile
era solo pensare di alzare lo sguardo.
Lei,
Hermione Granger, non avrebbe mai potuto guardare Draco Malfoy con anche solo
un barlume di quell’innocenza con cui Rose guardava Scorpius. Eppure, in poco
più di un mese di scuola, cosa potevano aver condiviso i loro figli? Poco o
nulla. Forse solo quell’avventura scellerata, per cui erano stati tutti
convocati dalla Preside.
E fu
la prima volta, che concretamente lo pensò dopo diciotto anni, provocandosi una
nuova ondata di disgusto… per tutto
quello che io e lui abbiamo convissuto, oggi non ci doveva essere nessuna Rose
Weasley.
Forse una bambina bionda dagli occhi
castani, che tutto sarebbe stata tranne che ingenua.
Si
morse freneticamente l’interno della guancia, muovendosi a disagio, impaziente
solo di uscire. Ginny, accanto a lei, la squadrò ancora, scintille nei suoi
occhi. Cercò di concentrarsi sulle parole della Preside.
Alista
McGranitt aveva molto della sua defunta sorella, lo stesso contegno, lo stesso
tipo di abbigliamento, gli stessi occhiali rettangolari sul naso, la stessa
voce autoritaria, anche quando faceva un complimento, come se ti volesse dire:
“Ci mancherebbe, avevi anche il coraggio di essere meno che eccellente?!”.
Seduta dietro quella scrivania, spalleggiata da tutti i ritratti dei Presidi di
Hogwarts alle sue spalle, tra cui un corrucciato Piton e un bonario Silente,
sembrava di essere di fronte ad un’implacabile giudice, giuria e boia. Gli
imputati, Albus Severus Potter, Scorpius Malfoy e Rose Weasley, sopportavano, lividi in volto ma con abbastanza luce nello
sguardo da non distogliere gli occhi da quelli della Preside, la sequela di
parole che lei continuava a vomitare, graduando da comportamento irresponsabile e idiozia
senza paragoni.
Alle
loro spalle, le mani poggiate sugli schienali delle sedie, gli avvocati di
un’inutile difesa, pronti a trasformarsi nei peggiori degli aguzzini, non
appena la Preside avesse finito di parlare. Genitori.
Hermione,
nonostante si fosse imposta attenzione, non riusciva ad ascoltare le parole
della Preside, esse fluttuavano via, lontane, come meduse in acqua stagnante.
Cercando di non pensare a Rose e a Scorpius, aveva ottenuto un effetto
peggiore.
Gli
occhi, che, da quando era entrata correndo, dando l’impressione di una madre
preoccupata ed ansiosa, erano rimasti bassi, si mossero senza che se ne
rendesse conto.
Se il
collo di Rose avesse vinto il terrore reverenziale della McGranitt, per
voltarsi e guardare la madre in viso, non avrebbe visto gli occhi di agata
puntati nei suoi in procinto di fulminarla per la delusione e l’irritazione. Li
avrebbe trovati altrove, completamente scevri di ogni preoccupazione rabbiosa.
Avrebbe visto che cosa fissasse, ma non avrebbe capito. Avrebbe pensato solo
che si fosse incantata, perché sarebbe stata sempre troppo ingenua per vedere
oltre quello che lei correttamente sapeva e conosceva. E quindi se sua madre
fissava la mano di Draco Malfoy, poggiata sul legno della sedia scura di
Scorpius, poteva essersi solo incantata. Non altro.
Hermione
aveva sempre adorato le sue mani, sin dal momento in cui si era data pena di
osservarle.
La
mano di Draco, in quel momento, era distesa, non contratta, le dita stringevano
senza apparente esigenza lo schienale. Aveva sempre adorato la stasi pensosa
con cui lui usava le sue mani, contrariamente a lei che invece gesticolava
sempre, sfruttandole come un’invasata. Aveva sempre adorato che, nonostante lui
comunicasse l’esatto opposto, fossero sempre calde, anche in pieno inverno.
Ed
infine aveva adorato poterle guardare, quando i suoi occhi la mettevano troppo
a disagio.
Erano
come la misericordia concessale per salvare il suo orgoglio, le fissava e si
sentiva tranquilla al punto tale da guardarlo in viso, indipendentemente
dall’espressione che avrebbe avuto.
Stavolta,
i suoi occhi non aveva dovuto affrontarli e, se fissava la sua mano senza
ascoltare una singola parola della McGranitt, era per una abitudine
indisciplinata, come se fosse anche lei, di nuovo, una studentessa nell’ufficio
della Preside che stava ricevendo una ramanzina.
Le
aveva negato i suoi occhi, non appena era entrata.
Era
rimasto di spalle, ritto, inerme, non accennando nemmeno al solito gesto
enigmatico di saluto. In piedi, davanti alla scrivania della Preside, sembrava
schiacciare tutto con la sua altezza. La luce della stanza, fioca, proveniente
da una finestra posta sul lato destro appesantita da una tenda di broccato, era
completamente catturata da lui, come se fosse un buco nero dove ogni raggio
annegasse. Lo aveva guardato, la mano sul petto, cercando di riprendere fiato,
aspettandosi da un momento all’altro che si voltasse, che si girasse, che
facesse qualcosa. Non aveva accennato ad alcunché, parlava duramente con il
figlio ed annuiva alle domande della McGranitt.
Si
era sentita idiota, Hermione, come mai prima di quel momento.
All’inizio,
era stata quasi contenta del suo comportamento. Sembrava che qualcosa si fosse
incrinato nell’autocontrollo di lui, i ricordi, le memorie, di cui era pieno
quel posto avevano fatto breccia anche in lui, al punto che non riusciva
nemmeno a guardarla. Poi, con il passare dei minuti, si era resa conto che non
c’era tensione in Draco, non la stessa ansia malcelata che non riusciva a farla
stare nemmeno ferma con i piedi.
C’era
solo irritazione, nervosismo, preoccupazione per suo figlio. Come era normale
che fosse.
Solo
quello.
E
quello aveva vinto anche l’educazione autoimposta nei suoi confronti.
Era
un padre normale, che pensava a suo figlio. Ginny, che l’aveva superata senza
guardarla, a parte qualche momento in cui la guardava con avversione, era
anch’essa una madre normale, che pensava a suo figlio.
Lei
sola, Hermione Granger in Weasley, quella coscienziosa, la strega più brillante
della sua generazione, aveva notato sua figlia solo quel tanto che bastava per
rendersi conto di quanto avesse tutto quello che lei aveva sempre voluto. Era
lei sola, quella anormale.
Per
tutto il tempo del colloquio, mentre la professoressa spiegava che avrebbero
preso una decisione sui ragazzi in serata, dopo aver riunito i docenti, e che
intanto erano liberi di girovagare per Hogwarts, Hermione avvertì la sensazione
irrisolta di essere sola su quel proscenio, strappato ad un tempo che lei sola
non aveva mai dimenticato. Era bloccata per sempre in quella parte ridicolmente
antiquata.
Strinse
senza forza la mano della McGranitt, rispose senza cura alle domande di
cortesia che le fece, si congedò dalla figlia dicendo che avrebbero parlato
dopo, salutò senza forze Ginny che aveva ben deciso di passare il resto della
giornata, con Albus, rimproverandolo duramente.
In un
ultimo anelito di forza, nascondendosi dietro la parola carezza, toccò per la prima volta dopo tanti anni Draco Malfoy,
sperando in una parte non troppo remota della sua mente, che reagisse, che
facesse qualcosa, che l’accompagnasse perlomeno sul patibolo che si era
costruita pezzo per pezzo.
Lui,
ai piedi di quel patibolo, l’aveva però già lasciata diciotto anni prima.
E non
ci sarebbe rimasto dieci minuti di più, nemmeno per lei.
Non è niente.
Hermione
girò su sé stessa, perdendosi nei corridoi di Hogwarts.
Parte
terza: Elemento di prova. Ovvero le informazioni ricavate prima che intervenga
il giudice.
Crisi di mezz’età.
Se
avessero descritto ad Hermione quello che le stava succedendo, ma attribuendolo
ad un’altra persona, lei probabilmente avrebbe sciorinato con saccente
arroganza una serie di argomentazione ironiche, rotanti attorno a quelle
quattro parole. Probabilmente avrebbe anche arricciato le labbra rosse con un
moto di fastidio, commentando che certe donne alla vigilia dei quaranta,
perdevano la testa. Rivivere amori perduti, farsi domande invecchiate di anni
ed anni, trascurare marito e figli… un quadretto deplorevole per una come lei
che aveva fatto dell’obiettivo di moglie e madre perfetta il suo vessillo e la
sua bandiera.
Crisi di mezz’età: se Hermione avesse
avuto il lucido distacco di guardarsi dall’esterno, avrebbe trovato quelle
parole perfettamente calzanti, specie per una fanatica del linguaggio come lei.
La crisi c’era tutta e per la mezz’età, era sempre stata precoce, lo era stata
evidentemente anche in quello.
Hermione,
invece, la mente annullata, continuava a ripensare ad un’immagine ben precisa.
Molto
più semplice e prosaica, meno aulica e scientifica.
Pensava
ad un cerchio.
Vedeva
il tempo come l’aveva vissuto fino a quella mattina come una linea
perfettamente retta: aveva un inizio nel giorno in cui era nata, un punto netto
e preciso nello spazio, risplendente come un’icona luminosa.
Poi
si propagava come una freccia acuminata, inarcandosi in avanti apparentemente
senza soluzione di continuità, in direzione di un assoluto infinito che era
tutta l’incertezza stimolante del futuro.
Ad un
tratto, però, quel corso era stato interrotto, deviato, spostato, introducendo
un elemento apparentemente piccolo come un ritorno ad Hogwarts diciotto anni
dopo il suo diploma. Come l’acqua di un fiume che viene deviata da un argine,
il tempo si era contratto su sé stesso, diventando circolare. E così, momenti
distanti nel tempo e nello spazio si erano ritrovati coincidenti, come quando
si piega a metà un foglio di carta, facendo arrivare parole e segni a baciarsi sebbene fossero
divisi.
Il
cerchio, come il solito gatto che si morde la coda, era un vicolo cieco senza
uscita, che Hermione persino nel passo stava ripercorrendo. Erano ore che
faceva lo stesso giro, all’interno di un’Hogwarts deserta, dato che era ormai
l’ora di pranzo. Non pensava a nulla, i piedi indolenti non ammettevano
deviazioni, e i moti della mente restavano identici in ogni tappa di quella via
crucis ripetitiva come una tradizione centenaria.
Infermeria. Campo da Quidditch. Ingresso
della stanza delle Necessità. Serre di erbologia. Sotterranei di Serpeverde.
Torre di Astronomia.
Ed
infine il parco di Hogwarts. E la radura
con le felci, al limitar della Foresta Proibita.
Era
un giro lungo, che la faceva ritornare indietro parecchie volte, ma che non
pensava di fare in maniera diversa. Era un cerchio perfetto. Non si poteva fare
in maniera diversa. Lo pensava distintamente, anche se era poco cosciente di
che cosa stesse facendo, tutto sembrava disfarsi ed andare a male dentro di lei
come la polpa di un frutto giunto ad un’infausta e necrotica maturazione. Tutto
era ricordo, rimpianto e rimorso, ma stranamente Hermione, camminando, gli
occhi pesanti, le palpebre semichiuse, l’aria intorpidita di una sonnambula,
riusciva a pensare solo ad una cosa.
Non ho mai smesso di amarlo.
Non
aveva mai smesso di amare Draco Malfoy.
Non
era un pensiero colmo di panico o di rimorso o di rabbia o di angoscia. Era
solo un pensiero come tanti altri, persino scontato, persino naturale, persino
banale, come la coscienza che, se non accendi un fuoco, difficilmente l’acqua
potrà andare in ebollizione. Non aveva bisogno di Hogwarts, per saperlo. Non
aveva bisogno di lasciare sua figlia che aveva bisogno di lei e della sua
autorità, per saperlo. Non aveva bisogno di scatenare la malcelata ansia di
Ginny, per saperlo. Non aveva bisogno del senso di colpa e di inadeguatezza, o
dell’umiliazione che si era autoinflitta, uscendo dallo studio della Preside,
smaniando per toccarlo.
Non
ne aveva bisogno.
Amare
Draco Malfoy, dopo diciotto anni, era suo modo normale. Razionalizzando,
avrebbe detto che provava affetto per lui, che era più nostalgia per la sua sé
stessa del passato, per un’idea dell’amore ingenua ed immatura. L’amore era
quello per Ron, fatto di sedie accostate e di spazzolini sulla stessa mensola
del bagno, cementato da urla di fastidio e silenzi di disagio, fino ad
esplodere glorificato in due bambini meravigliosi.
Quello
era l’amore, fatto ad immagine e somiglianza di una persona realistica e poco
romantica come lei.
Quello
per Draco, era solo una striatura trascurabile, un pizzico di rimpianto e un
dolceamaro ricordo che l’avrebbe accompagnata per sempre, vista la conclusione
che avevano avuto. Avrebbe avuto sempre i contorni foschi della rabbia e del
sospetto che lui l’aveva sempre usata per i suoi scopi, ma piano, un giorno,
lontano chissà quando, si sarebbe riconciliata anche con il suo ricordo, come
si era riconciliata con sé stessa e con Ron, quando quell’assurda storia era
finita. Ecco, un’analisi perfettamente ineccepibile.
Ma
Hermione, mentre continuava a camminare all’interno di Hogwarts, non stava
razionalizzando. E quindi era sincera, come di solito non era mai.
Non
aveva mai smesso di amare Draco Malfoy, e non c’entrava niente il rimpianto, il
ricordo, la rabbia, la logica, l’ossessione, l’orgoglio, e qualsiasi altra cosa
che la mente magnanima cercava di suggerirle.
Non
c’entrava nemmeno la crisi di mezz’età,
se le fosse venuta in testa, e nemmeno il cerchio.
C’entrava
solo lei. E c’entrava solo lui. E l’idea, crudele come un teorema, che ci sono
persone che, per continuare ad amarsi, non dovevano stare assieme. Non mettere
alla prova un legame, significava farlo durare per sempre. L’amore impossibile
dura per sempre. E ci poteva convivere, Hermione, poteva farlo, poteva
continuare a vivere con questo pensiero ossessivo nella testa, che martellava,
martellava, martellava.
Poteva
restare tutto uguale a sempre, scendere
dal letto solo dal lato destro, accendere la luce in bagno prima di entrare,
bere caffè nero bollente decaffeinato dalla tazza azzurra con i decori bianchi,
dare due baci per fronte a Rosie ed Hugo, salutare Ron con un bacio a fior di
labbra.
Andava
bene convivere con una cosa che c’era sempre stata, con la differenza di
esserne adesso coscienti.
Non
andava bene il passo dopo. Sopravviveva, restava intatto, aveva un sapore che
legava i denti, non lasciava scampo. Non le lasciava scampo. E le imponeva di
muoversi, di rompere il cerchio, di agire.
Il
passo dopo… o il primo… era la prima cosa che aveva pensato, entrata ad
Hogwarts.
Dimmi di nuovo perché mi hai lasciato,
Draco Malfoy.
E con
quella domanda ancora pressante nella testa, una domanda che preludeva ad
azione e che soprattutto non aveva nulla di una quieta rassegnazione, Hermione
iniziò nuovamente il suo giro, partendo dall’infermeria.
Quando
la guerra era finita, Hermione aveva creduto di poter fare tutto. Ogni cosa le sembrava possibile.
Pensava
a che cosa si era lasciata alle spalle e si sentiva invincibile, onnipotente.
Aveva
superato tutto con dolorosa forza, era sopravvissuta in qualche modo, erano
sopravvissuti anche Ron ed Harry. Avevano battuto il più grande Mago oscuro
della storia.
Poteva fare qualsiasi cosa. Doveva fare qualsiasi cosa. Voleva fare qualsiasi cosa.
L’estate
della vittoria era stata una festa continua, nonostante i morti e i feriti. Non
era etico, magari, e certo anche loro avevano i loro defunti da seppellire, da riconoscere,
da comporre mestamente in bare di velluto.
C’era
ancora chi non tornava, chi si catalogava come disperso con pietà speranzosa
verso una madre che chiedeva ogni giorno notizie, o verso un figlio che
trascorreva le notti dietro ad una finestra.
Eppure,
in ogni fibra del corpo, Hermione sentiva di essere viva. Il cuore pompava
sangue nelle vene, la pelle vomitava nuova epidermide sulle ferite aperte, gli
occhi riprendevano a lacrimare, le orecchie si erano stancate del silenzio e
reclamavano anche la sua voce, che riprendesse a cantare, a parlare, a fare
qualsiasi cosa.
Non
aveva deciso di tornare ad Hogwarts
per completare la sua istruzione. Decidere
implicava un movimento di pensiero che non aveva avuto, uno scatto volontario a
cui non era arrivata. Era stato piuttosto un istinto, naturale, ovvio,
scontato, immediato. Normale.
A
fine agosto, come un uccello che sa da solo che è arrivato il momento di
abbandonare un paese per migrare in un altro, Hermione aveva ripreso il baule
da un angolo della sua camera, lo aveva riempito di vestiti e libri ed era
corsa a Diagon Alley a cercare ciò che le mancava. Non aveva nemmeno pensato al
contrario.
Di
non tornare.
Era
stata lodata dai suoi genitori, la Gazzetta del Profeta le aveva persino fatto
una fotografia davanti all’Espresso per Hogwarts con l’inquietante dicitura:
“l’eroina del Mondo Magico, Hermione Granger, riprende il suo percorso
scolastico con sollecitudine e solerzia.”. Le erano state anche attribuite un
paio di frasi ridondanti, ma non le aveva nemmeno lette, gettando il giornale
nella spazzatura.
Cavolo,
era una cosa normale.
Così
normale che, quando aveva saputo che Harry e Ron, invece, non avevano alcuna
intenzione di terminare gli studi, si era sentita mancare la terra sotto i
piedi. Aveva aperto la bocca come un pesce rosso, l’aveva richiusa, aveva
mormorato un: “Capisco…” e poi aveva biascicato qualcosa sul baule ancora da
preparare.
A
tutti, era parso assolutamente normale che loro non volessero tornare, insomma
Harry sarebbe dovuto tornare nel posto dove aveva scelto di morire per il bene
comune, prima di sapere che sarebbe comunque sopravvissuto. E a Ron doveva
saltare in testa all’improvviso di mettersi seriamente a studiare.
A
conti fatti, ammetteva che era stata ingenua a pensare che sarebbe accaduto il
contrario.
Voleva
che le cose tornassero come prima di quella maledetta guerra, ma, in realtà,
tutto stava cambiando in fretta ed aggrapparsi ai ricordi era quantomeno
inutile e controproducente. Certo, non vederli gironzolare accanto a lei
continuava a darle un senso di estraneità come di un vestito fattosi corto e che
si indossava a forza, ma, dopo qualche settimana di scuola, ammise che era
semplicemente finito un ciclo. Non sarebbero stati più assieme ad Hogwarts, era
finito il tempo dei loro sotterfugi e delle loro rocambolesche indagini, ma Ron
era diventato il suo ragazzo e Dio solo sapeva quanto era stato lungo il loro
percorso, per giungere a quel punto, quindi non contemplava l’idea che finisse
solo perché sarebbero stati nove mesi lontani. Harry, poi, era un fratello
ormai. Li avrebbe visti durante le vacanze, sfoderando tutto quello che aveva
imparato. E poi non era sola, c’era
sempre Ginny con lei. Con il solito pragmatismo, all’inizio di ottobre, dopo
essersi organizzata lezioni, orari, seminari e laboratori vari, Hermione aveva
anche concluso che era meglio che non fossero venuti. Con loro nei paraggi, non
avrebbe mai avuto tempo per dedicarsi a tutto quello che voleva fare. E lei voleva fare tutto.
Infermeria.
Curare
le ferite di Harry e Ron durante la guerra, le aveva fatto maturare
l’ossessione per la professione medica. Aveva diciotto anni compiuti, sentiva
di essere arrivata ad un crocevia importante della sua vita e, con la fiducia
incosciente e spavalda di quell’età, aveva deciso che voleva conoscere al
meglio il mestiere di Medimago. Ottobre fu il mese della medicina, dell’odore
di disinfettante che si mischiava a quello del vento caldo di castagna che
permeava dalle finestre. Chiese ed ottenne, premendo sull’ascendente che aveva
sui professori e sul ruolo di Eroina del mondo Magico, di poter aiutare per
qualche ora Madama Chips nel suo lavoro. Glielo concessero con il solito senso
di muta ammirazione e deferenza.
Hermione
scoprì in quelle settimane che, a sua insaputa, quella che chiamava
colloquialmente pace o più
realisticamente ritorno alla normalità, era
solo un cerone inspessito, spalmato a piene mani su volti che nascondevano
l’ennesima lacrima, l’ennesima assenza, l’ennesima cosa fuori posto. Che
Hogwarts, a parte gli inevitabili danni dell’ultima battaglia, sembrasse a
tutti normale, con le sue aule ordinate, il suo treno rosso fuoco e i suoi
banchetti, non voleva necessariamente dire che tutti fossero dello stesso
avviso. Fuori, si mentiva, si andava
avanti, si fingeva di essere grati e riconoscenti; dentro l’infermeria, imperversavano ragazzi che non dormivano di
notte, che avevano incubi, che non riuscivano a concentrarsi, che erano colti
da fulminei attacchi di panico e da crisi nervose. Ed Hermione, dopo solo poche
settimane di frustrazione di fronte al numero crescente di ragazzi che
mettevano piede a tutte le ore in infermeria e per i quali l’unica soluzione
definitiva ai loro problemi sembrava un Incantesimo di memoria, capì che non ce
l’avrebbe mai fatta ad andare avanti in una professione simile. Dio, sarebbe
impazzita per ogni persona che non avesse aiutato. Era troppo empatica per
mantenere un distacco che la rendesse lucida e razionale di fronte al dolore
altrui. Ad inizio novembre, comunicò desolata a Madama Chips che non ce la
faceva, lei capì e con condiscendenza comprensiva, le disse che poteva non
tornare l’indomani. Hermione non ci avrebbe più ripensato, era troppo sicura di
sé stessa in quei frangenti per vivere la cosa come un fallimento, avrebbe
semplicemente scalato la voce Medimago dalle opzioni carriera con espressione
pensosa.
Invece,
l’ultimo giorno del suo tirocinio improvvisato, mentre lei già smaniava per
andarsene, sentendosi soffocare dall’ansia e dal dolore altrui che le si
stavano condensando addosso, in infermeria mise piede Draco Malfoy. Solo allora
Hermione si accorse che anche lui era tornato ad Hogwarts, forse il solo dei
Serpeverde del suo anno ad averlo fatto. Non per sua volontà, chiaro. Chi non
era tornato, era perché era ad Azkaban, oppure era fuggito, o ancora aveva cambiato
vita e scuola per non essere perseguitato da Mangiamorte impenitenti. Draco
Malfoy, invece, per quel poco che ne sapesse Hermione, era stato costretto a
tornare: era una delle clausole per la libertà vigilata di cui lui e i suoi
genitori fruivano per la bugia di Narcissa Malfoy a Voldemort, quando non aveva
rivelato che Harry era ancora vivo dopo l’Avada Kedavra dell’Oscuro Signore. In virtù di quel solo gesto di
probabile pentimento, o comunque di disinteresse per la causa del loro Signore,
i Malfoy si erano visti perdonare molti dei loro reati, cavandosela con
un’ingente multa, un’interdizione perenne dai pubblici uffici e un divieto di
dimora in Inghilterra per cinque anni.
Lucius
e Narcissa erano stati anche sospesi dall’esercizio della potestà sul figlio,
minorenne ancora per qualche mese, ed erano sostanzialmente stati mandati in
esilio in America. Draco, affidato al Ministero, aveva avuto l’obbligo di
riprendere Hogwarts e di terminare la sua istruzione scolastica.
Hermione
non si era mai accorta di lui. Ora, qualcuno avrebbe potuto dire che, vista la
loro antipatia reciproca, non si era semplicemente data pena di vedere dove
fosse e che, se Draco aveva perso i suoi scagnozzi e non la insultava, era
normale che non si accorgesse di lui. Hermione, in realtà, sapeva che non era
stato per il suo negletto disinteresse che non l’aveva notato, ma semplicemente
Draco era effettivamente un fantasma nel castello. Ben presto, Hermione si
sarebbe accorta che non mangiava più in Sala Grande, che a lezione si sedeva
sempre nelle ultime file, che non faceva più parte della squadra di Quidditch;
se mai lo si incontrava nei corridoi, aveva sempre un’aria circospetta,
occhiaie pronunciate sul viso, un passo celere ma mai affannato, vestiti se non
lisi, certamente non impeccabili come sempre.
Quel
pomeriggio, quando entrò in infermeria, scoccandole uno sguardo confusamente
astioso, Hermione notò anche i capelli spettinati ed una patina pesante negli
occhi grigi, che saettavano da una parte all’altra della stanza, apparentemente
come se fosse stato braccato da qualcuno.
Hermione
non intervenne, mentre Madama Chips gli chiedeva che cosa gli fosse accaduto, e
finse con tatto di sistemare dei medicinali sulle delle mensole, ma le sue
orecchie si tesero, ascoltando che cosa stesse dicendo.
Deformazione professionale da millenario
sospetto contro Malfoy,
lo avrebbe chiamato in quel momento.
Ora,
dopo diciotto anni, sapeva che era ben altro.
“Sono
caduto per le scale…” chiosò lui inespressivo, mostrando all’infermiera la
schiena e le braccia. Nella luce pigra di quel pomeriggio, Hermione barcollò,
incontrando il riflesso della sua pelle nell’armadietto di vetro che stava
sistemando. Una costellazione di segni neri, sul suo
corpo bianco, un cielo al contrario.
Lividi.
Tanti. Troppi. Alcuni erano giallastri, sembravano vecchi di settimane,
sbiaditi, consunti. Altri erano nerastri, violacei, dai contorni poco netti.
Hermione chiuse rapidamente gli occhi, imponendosi di respirare.
“Certo,
certo… come no..” la scena non sconvolse l’infermiera, che chiese ad Hermione
di passarle un unguento specifico ed Hermione, con una punta d’ansia, si
affannò a trovare il medicamento, porgendoglielo senza sollevare lo sguardo,
nascosto dalla frangetta di capelli. Dalla flemmatica indifferenza che Madama
Chips mostrava, fu subito chiaro che non era la prima volta che Draco Malfoy cadeva dalle scale. E ad Hermione fu
subito chiaro anche che ogni volta che ciò accadeva, evidentemente Draco Malfoy
dava sempre la stessa spiegazione, non proferendo altre sillabe che potessero
articolarsi nei nomi dei responsabili.
Hermione,
però, lo sguardo sempre basso, notò che Draco, con uno scatto nervoso, proibì
con malagrazia all’infermiera di toccargli l’avambraccio destro. Il marchio nero.
Il
maglione grigio, sopra il braccio, era tinto di sangue.
Lui
chiese solo delle bende e che avrebbe fatto da solo. Se ne andò, consentendo ad
Hermione di poter finalmente risollevare gli occhi, giusto in tempo per vederlo
chiudersi la porta alle sue spalle.
Non potrei mai fare la Medimago. Fu la prima e non
ultima volta che una risposta per la sua vita sarebbe giunta da Draco Malfoy.
Lei non avrebbe mai potuto preservare il contegno di Madama Chips, quella sua
indifferenza per le condizioni del ragazzo, anche se non era esattamente in
cima alle sue classifiche di gradimento. Avrebbe fatto domande, illazioni,
supposizioni, costringendolo a rivelare che cosa davvero gli stesse accadendo.
Il segreto professionale tra medico e paziente non avrebbe saputo nemmeno dove
abitasse.
Campo da Quidditch.
Ma i
diciotto anni sono un’età estremamente volubile ed incostante, e lo erano stati
persino per una come lei. Hermione si dimenticò ben presto di Draco Malfoy,
annotando particolari solo in quelle rare occasioni in cui le capitava di
incontrarlo. Era sempre solo, non guardava mai nessuno in viso, camminava
rasente il muro. E teneva sempre il braccio destro lungo il fianco. A lezione,
sembrava aver preso anche l’abitudine di scrivere con la sinistra. Hermione
aggrottava le sopracciglia, cercava di capire qualcosa, e poi bastava che lui
si accorgesse che lo stava fissando per scrollare le spalle e dirsi di
lasciarlo perdere. Era tutto impressione, intuizione, presagio, quello che
stava pensando non aveva prove concrete. In fondo, Madama Chips, se Draco fosse
stato davvero oggetto di violenza, avrebbe fatto qualcosa… magari era davvero
caduto per le scale. E per quanto riguarda il braccio, non sapeva le dinamiche
post fine di Voldemort di un marchio nero. Magari faceva male, magari talvolta
sanguinava, chi lo sa. A metà novembre, dopo aver chiesto di fare delle
ricerche per il Professor Vitious, mentre considerava l’idea di fare la
professoressa, Hermione era così presa dai suoi studi da non ricordarsi nemmeno
come si chiamava, figuriamoci se pensasse a Draco Malfoy.
Il
destino, però, ebbe di nuovo fantasia, imprimendo alla sua vita un nuovo
percorso degno del più intricato e magniloquente dei romanzieri. Pioveva, il
cielo era nero di lampi e fulmini, Ginny era andata all’allenamento di
Quidditch ma aveva dimenticato l’impermeabile. Studiando, distogliendo gli
occhi rossi dalla pergamena, sentì la pioggia ticchettare sul vetro della
finestra. Biascicando insulti, prese l’impermeabile e decise di portarlo a
Ginny. Solo quella mattina Molly le aveva raccomandato in una lettera di tenere
sotto controllo la scapestrata figlia ed Hermione aveva preso il compito molto
seriamente.
Con
il cappuccio del mantello sugli occhi, la pioggia e il bruciore della
stanchezza che le impediva di mettere a fuoco a pochi centimetri da lei, giunta
al campo, per un po’ si guardò attorno, trattenendo l’impermeabile nelle mani,
che, per il forte vento, minacciava di volarle via. Nessuno, come era
prevedibile, stava giocando e si dette dell’idiota per non averci pensato, le
si stava squagliando il cervello. Mentre ritornava indietro, evitando
pozzanghere e meditando di smettere di studiare almeno per quel giorno, sentì
un rantolo soffocato provenire dalle gradinate degli spalti, assieme a delle
risate biascicate e a parole sconnesse.
Si
avvicinò, afferrando la bacchetta da sotto il mantello, e si sporse in
direzione dei rumori.
Non
avrebbe mai ricordato Hermione che cosa fece precisamente in quel momento, se
estrasse la bacchetta dalla falda del mantello e pronunciò qualche incantesimo
sconnesso, oppure se si mise ad urlare, o invece rimase pietrificata
dall’orrore e non mosse un passo. Seppe solo che Neville lasciò andare il
bastone che ricadde a terra con un tonfo secco, guardandola con gli occhi sbarrati;
Dean si allontanò immediatamente, indietreggiando grottescamente fino ad
incontrare con la schiena una delle pareti che sorreggevano le gradinate;
mentre Seamus, l’ultimo ad accorgersi di lei, dette un ultimo calcio preciso al
viso di Draco Malfoy, riverso bocconi per terra, coperto di fango, che si
limitò a sputare sangue.
Sparirono
tutti e tre, senza dire una parola.
Il
male non è mai quello assoluto del mostro di turno. Il male è spesso banale e
scontato, e spesso è quello degli eroi, dei buoni, dei valorosi e dei giusti. Seconda lezione appresa da Draco Malfoy.
Hermione
sentì il gelo penetrarle fino nelle ossa, e cercò di convincersi che fosse per
il freddo, per la pioggia penetrata lungo il suo collo, scivolata giù lungo la
schiena, bagnandole la camicia. Draco, senza dire ancora una parola, senza
nemmeno guardarla, si alzò in piedi, si pulì il sangue dalle labbra, scrostò il
fango dai vestiti e sibilò con veemenza: “Non dire una parola, Granger… o giuro
che ti schianto all’istante…”.
Hermione,
rimasta immobile fino a quel momento, sentì le gambe farsi di gelatina sotto
quegli occhi, erano rassegnati, mesti, convinti, e lei ebbe la cupa e sorda
sensazione che non avesse nemmeno provato a difendersi. Era più alto di lei,
sebbene malfermo nel passo, non doveva e non poteva guardarlo in viso. E per la
prima volta rifuggì i suoi occhi, cercando le sue mani. Erano sporche di fango,
sanguinanti, piene di tagli.
Il
maglione strappato le rivelò l’avambraccio destro. Non c’erano bende, nella
foga del momento si erano strappate anch’esse. Vide il marchio nero, seguì con
disgusto le linee nere che macchiavano la pelle.
E
vide i tagli, netti, distinti, marcati, scavati, che profondamente tagliavano
il teschio a metà. Tagli vecchi, coperti già da una crosta di pelle già nera
anch’essa. Draco seguì il suo sguardo e, come da Madama Chips, immediatamente
scattò e coprì il segno con l’altra mano, stringendo forte.
Erano
segni troppo netti per essere unghiate, graffi o altro. Troppo profondi per non
essere stati inferti con un coltello. Troppo vecchi e ripetuti, per poter
essere stati inflitti in quel momento. Ed era troppo pudico lui nel
nasconderli, vergognandosene, quando invece i lividi, l’ematoma sulla guancia,
il labbro spaccato, il rossore sul collo e il sangue tra i capelli, li esibiva
con il coraggio malato di un guerriero sconfitto.
“Potrebbe
sparire…” promise avventata, sollevando gli occhi ed incontrando i suoi. Draco
la guardò senza capire, sbatté le palpebre, strinse più forte la mano sul
braccio. Non disse nulla, la superò senza un’ulteriore parola. Hermione sentì
le parole risuonare nelle sue orecchie, stentoree come una condanna.
Aveva
promesso di aiutarlo a far sparire il marchio, perché sapeva Hermione che
nessun taglio lo avrebbe cancellato dalla sua pelle. Forse si sentiva in colpa,
per quello che facevano anche gli altri Grifondoro, picchiandolo ed
insultandolo, forse sentiva la mancanza di un vero scopo come quello che
l’aveva animata quando Ron ed Harry erano ancora ad Hogwarts, forse voleva sfidare
solo la sua intelligenza come sempre. O forse era tutto quello assieme,
arrotolato in un involto dal dubbio gusto etico e morale.
Senza
dubbio, era innocente e buona, in quel giorno. Senza dubbio, non sapeva che
diciotto anni dopo, l’avrebbe toccato in quello stesso punto, allora sfregiato,
sperando che fosse lei a lasciargli un segno.
Ingresso della stanza delle Necessità.
Lo
evitò, la evitò, per un mese preciso. Trenta giorni in cui Draco Malfoy, la
bestia braccata, parve diventare davvero evanescente per i suoi inseguitori.
Trenta giorni in cui Hermione Granger, la cacciatrice redenta, trascurò ogni
sua occupazione, concentrandosi per lo stretto necessario sullo studio,
tralasciando ogni attività spasmodica che aveva inseguito fino a quel momento.
L’imbarazzo
del fortuito incontro e della promessa insensata che aveva fatto, plasmarono i
passi di Hermione di cura studiata, mentre cercava di sedersi lontano dai
Serpeverde a lezione, cercava di non far saettare lo sguardo in ogni direzione
quando era in luoghi affollati, cercava di non fuggire se vedeva una testa
vagamente bionda, cercava di non temere il momento in cui Draco Malfoy le
avrebbe rinfacciato le parole sfuggite in un momento di confusione. Potrebbe sparire. Era lei adesso a voler
sparire.
Spiava
le facce dei Serpeverde, cercando un segno ilare del viso al suo cospetto ed
intanto si macerava dall’ansia, nel dubbio di dover denunciare i suoi compagni
di Casa alla preside. Magari non lo avrebbero più rifatto, ora che lei ne era a
conoscenza, o perlomeno così dicevano, cercando di parlarle in ogni momento.
Scoprì
che non erano gli unici. Scoprì che metà Hogwarts aveva soppiantato il
Quidditch come sport nazionale, eleggendo come migliore occupazione “picchiare
Draco Malfoy”. Scoprì che molti insegnanti sapevano, ma non intervenivano.
Scoprì che, se uno non reagisce, spesso gli altri si sentono giustificati a
ferire e a colpire, specie se c’è stato un solo sciocco serpente che è tornato
nella tana del leone. Pagherà lui tutte le colpe, poco importa se sono di
altri, del caso, del destino, di una fatalità imbecille o di un semplice
equivoco. Terza lezione.
Hermione
prese a parlare poco, con tutti, anche con Ginny, e a leggere troppo. Ore ed
ore sui libroni consunti che recassero direttive sui segni del male e sulla
loro cancellazione; spesso il collo si piegava facendola addormentare e, quando
si svegliava di soprassalto e non riusciva a spiegarsi quel puntiglio, trattava
il libro come un animale infetto, deponendolo con due dita sul suo comodino. Esausta,
nel letto, si rigirava e rigirava.
Era
solo una curiosità sapere come si cancellava un marchio nero, Malfoy era stata
l’occasione, mica il fine.
Occasione,
non fine, suonava così bene.
Occasione
di imparare qualcosa ed occasione di non leggere la realtà marcia e putrescente
che si nascondeva dietro la parvenza di una nuova vita. Tutto era vecchio, pur
essendo nuovo, ma Hermione non voleva ancora saperlo, non voleva ancora dirlo a
sé stessa.
Le
parole avevano sempre suonato bene, sempre, nelle sue orecchie. Le parole
nascevano perfette. Iniziavano a stridere quando avevano bisogno della voce,
sempre troppo vittima del cuore.
Potrebbe sparire. E poi c’era stata
quella frase, che invece suonava così male, così storta, così ritorta.
Avrebbe
voluto mangiarle ed inghiottirle quelle due parole. E farle sparire.
Dicembre
era iniziato da tre giorni, si era artigliato sul calendario con foga
ghiacciata, scongelando prospettive natalizie stantie e polverose, che
quell’anno non si sarebbero concretizzate. La preside aveva deciso di non
addobbare Hogwarts per Natale, in rispetto di tutti i morti di quella guerra, e
tutti, a loro modo, erano stati d’accordo. Faceva freddo, molto, all’improvviso
un intenso vento scandinavo scuoteva le torri e penetrava dalle mura. Si era
attardata in biblioteca, poi aveva dovuto parlare con la professoressa Sinister
per chiedere una proroga nella consegna del compito per Astronomia. Con
vergogna, le era stata concessa senza battito di ciglia. Camminava a testa
bassa, percorrendo il settimo piano, pensando: “Se fossi stata Pansy Parkinson,
me l’avrebbe data lo stesso la proroga?”. Si riscosse, dicendosi che quella
fiducia se le era guadagnata, non c’entrava nulla il colore della sua casata,
gli amici che aveva o le battaglie che aveva vinto.
Nel
silenzio del corridoio deserto, non si accorse di passare davanti all’ex
ingresso della Stanza delle Necessità. Non si accorse nemmeno di fermarsi e
nemmeno di aver impugnato la bacchetta per cancellare le ignominiose frasi
scritte sulla targa di commemorazione di Vincent Tiger, che aveva perso la vita
lì dentro.
Potrebbero sparire.
“Perché
dovrei accettare?” la voce di Draco Malfoy era risuonata bassa e greve, in un
punto non lontano da lei. Incassò le spalle, strinse i libri al petto, chiuse
gli occhi. Era poggiato al muro, di fronte a dove si trovava lei, lo vide con
la coda dell’occhio, mentre rimaneva fermo, con le braccia incrociate.
Sarebbe
voluta sparire.
Fissò
le sue mani prima, i suoi occhi poi, mentre sollevava lo sguardo. Il suo volto
era buio, solo una lama di luce addolciva i lineamenti severi e contratti. La
pelle sembrava guarita, non preservava dolore nello stare in piedi, ma, come un
mese prima, il braccio destro sembrava rigonfio sotto il maglione. Di nuovo, una benda.
Le
parole uscirono imperfette, parvero quasi sgrammaticate alle sue orecchie, come
costrette a forza dentro una frase dove non volevano entrare. La voce, invece,
risuonò ferma e salda.
“E
perché non dovresti farlo?”.
Fu
così disarmante il suo tono di voce, come se effettivamente Draco Malfoy non
avesse motivo alcuno di rifiutare il suo aiuto, che il ragazzo si staccò dal
muro, guardandola ad occhi spalancati. E lei stessa abbassò lo sguardo,
improvvisamente e di nuovo terrorizzata da quello che andava farneticando. I
motivi per cui Draco Malfoy non doveva accettare, erano gli stessi per cui lei
non si doveva interessare dell’intera faccenda.
Poteva
sentirne il peso nelle tasche, come delle pesanti monete bronzee, intuirne
forma e foggia. E lei poteva benissimo sfogare la sua iperattività, il suo
senso di colpa o chissà che altro in un’altra maniera più costruttiva. Fu come
una doccia gelida, abbracciò il libro e mormorò solamente: “Lascia perdere… fa
finta che non abbia detto nulla…”. Si mosse velocemente, girando su sé stessa e
riprendendo a camminare nel corridoio. Un alito di vento si insinuò sulla sua
pelle, soffiando da una vecchia finestra.
“Non
ho bisogno di un tuo tardivo ed
assolutamente inopportuno senso di
colpa, Granger…” berciò lui con voce affannata, seguendo la sua schiena che si
allontanava.
“E io
non ho bisogno di un tuo tardivo ed
assolutamente inopportuno orgoglio,
Malfoy…” rispose lei, senza nemmeno voltarsi “E’ una convenienza reciproca… ti
va bene così, senza aggiungere ulteriori spiegazioni?”.
Fu
grata, enormemente, che lui non le chiedesse che convenienza ricavasse da
questa storia.
Draco
Malfoy non disse nulla, si allontanò non proferendo parola, i passi che
riecheggiavano nel corridoio.
Gli
fu grata. Enormemente.
Perché
se le avesse chiesto che convenienza traesse da quella faccenda, lei non
avrebbe saputo che rispondere.
Serre di Erbologia.
Draco
Malfoy aveva accettato tre giorni dopo. Le era arrivato un biglietto di
finissima pergamena, consegnato da un mingherlino primino di Serpeverde. “Accetto. D.M.”. Hermione aveva tenuto il
biglietto tra le mani come se temesse che potesse prendere fuoco da un momento
all’altro. Lo aveva rigirato, voltato e scandagliato per due ore, come a
convincersi che fosse reale ed appena si erano concluse le lezioni, lo aveva
ripreso daccapo, esaminandolo nuovamente. Spettava adesso a lei la mossa
successiva, precisare luogo ed ora degli incontri, o invece dirgli che avrebbe
fatto tutto da sola per poi fargli sapere tutto, a ricerche concluse.
No. Si dette da fare per trovare un
luogo dove non li avrebbero disturbati, una vecchia stanza che fungeva da
vecchio sgabuzzino per la professoressa Sprite, all’interno delle serre.
Neville, cercando di farsi perdonare da lei che oramai non rivolgeva più la parola
a nessun Grifondoro, le aveva dato la chiave senza sapere che cosa ci volesse
fare dentro. La sistemò alla bell’e meglio, portandoci un tavolo e due sedie e
provvedendo al suo riscaldamento, continuando a chiedersi perché diamine lo
stesse facendo. Agiva come sotto spinta altrui, per inerzia, sapendo che doveva
farlo. Solo anni dopo, Hermione, in modo freddo e clinico, avrebbe riconosciuto
che, perlomeno in quel momento, a spingerla era il senso di colpa per quello
che avevano fatto a Draco i suoi compagni di casa, ma anche e soprattutto la
convinzione che nel mondo nuovo che anche lei stava costruendo, non ci doveva
essere più spazio per situazioni di quel tipo. E lei per prima, doveva dare
l’esempio, aiutando il vecchio nemico. Ma in quei giorni, Hermione non aveva
grandi spiegazioni, non conosceva ancora a sufficienza sé stessa per presagire
l’ansia che l’attanagliava al pensiero che tutto fosse rimasto disgustosamente
uguale anche senza Voldemort, che aveva sempre additato come la fonte di ogni
problema e divisione nel mondo magico. Hermione sapeva soltanto con coscienza
di aver deciso di aiutare Malfoy, perché lui mostrava segni di rigetto del suo
passato e doveva essere incoraggiato. Perché forse era davvero troppo ingenua e
buona come le dicevano. E soprattutto con quelle ricerche, lo avrebbe sempre
tenuto sott’occhio. Non poteva sopportare che fosse oggetto di violenza e
nessuno facesse niente, fosse anche che si trattava di Malfoy, che lei avrebbe
schiantato quindici volte al secondo poco tempo fa.
Intanto,
avrebbe capito bene che cosa fare. E magari avrebbe anche capito perché lui
stesse cercando in modo così dilaniante di grattarsi via il Marchio nero.
Negli
anni, avrebbe ricordato quei pomeriggi in modo sempre meno distinto; sarebbero
scivolati via nel tempo piccoli particolari come l’imbarazzo inevitabile di
trovarsi nella stessa stanza con uno che aveva sempre odiato (e che nemmeno
allora le stava del tutto simpatico), il contegno militaresco che assumeva
sedendosi sulla sedia per evitare che si sfiorassero, la puntualità assoluta
che Draco dimostrava arrivando sempre prima di lei ed andandosene sempre dopo,
il silenzio assoluto rotto solo dal gocciare di un vecchio rubinetto, la
mancanza di un saluto o di una qualsiasi parola nei primi giorni di quella
frequentazione quanto mai insolita. Poi, inevitabilmente, arrossendo e
balbettando ogni volta, Hermione avrebbe iniziato a dire qualche parola, tendenzialmente
sempre su quello che stavano leggendo, azzardando teorie, ricomponendo segnali
ed elaborando disegni. Draco ascoltava in silenzio, spesso annuiva, molto più
spesso non diceva niente di niente. Hermione con gli anni avrebbe dimenticato
come la cultura fosse stata per lei, anche in quella situazione, un mezzo e uno
strumento, perché dopo un po’ le sarebbe venuto naturale parlare di quello che
leggeva, inserendoci ogni tanto persino qualche commento personale. Avrebbe
anche dimenticato lo sguardo di lui che cambiava, che iniziava a posarsi su di
lei con maggiore frequenza e che si rispecchiava nei pochissimi monosillabi che
iniziava a pronunciare in sua presenza.
Hermione
aveva dimenticato molto di queste cose, erano una lanugine confusa di giorni
che erano durati settimane e che lei ricordava a stento, per quanto fossero
tutti uguali e tutti diversi.
Ricordava
solo una cosa, netta, distinta, associata ad un colore e ad un odore preciso. Arancia.
Draco
Malfoy aveva l’abitudine di fare merenda con una semplice arancia, rossa, dalla
buccia spessa. Ne aveva portata una con sé sin dal primo pomeriggio che si
erano incontrati, estraendola dalla borsa dei libri, sbucciandola con
delicatezza davanti ai suoi occhi e mangiandola spicchio a spicchio, senza macchiare
nemmeno una pagina dei libri che leggeva. L’odore fragrante dell’arancia
sarebbe stato per sempre il ricordo più immediato che avrebbe associato a lui,
alle mani che avrebbe scoperto averne lo stesso profumo semplice.
Era
quasi Natale, mancava poco all’inizio delle vacanze, e Draco, in un giorno
qualunque, aprì come sempre la borsa. Stavolta, però, poggiò sul tavolino su
cui studiavano, due arance. Perfette, di un colore che Hermione non aveva mai
visto. Draco spinse lievemente, senza guardarla, una delle due nella sua
direzione.
“Perché
vuoi cancellare il Marchio Nero?”. Hermione strinse l’arancia tra le mani,
unite in grembo.
“Appena
finirà la scuola, andrò in America, dai miei… e voglio scordarmi che questa
storia sia mai esistita…”.
Quel
Natale, Hermione non tornò a casa da Hogwarts.
Sotterranei di Serpeverde.
Puoi avere una cosa per volta. Sembra un
assioma semplice, ma Hermione non l’aveva ancora capito. Gli anni avrebbero
mitigato quella sua ansia perfezionista di avere qualsiasi cosa, a costo di
smaniare insoddisfatta e di bestemmiare ogni cosa che aveva. Negli anni,
avrebbe capito il senso della parola accontentarsi,
l’avrebbe quasi apprezzata e l’avrebbe associata immediatamente con una
riflessione fonetica spiccia alla parola contenta.
Dava di serenità, dava di calma e pace, e dava anche di non dibattersi
sempre come pesci rossi in una boccia sporca. Hermione, a diciotto anni, non
sapeva accontentarsi. Voleva ancora tutto.
Voleva
essere ancora la fidanzata di Ron, ma non sapeva rinunciare ad essere l’unica
pseudo amica di Draco.
Perché
alla fine a quello si era arrivati. Nei mesi, nelle settimane, a quello si era
arrivati.
Ron
la sommergeva di lettere, se prima le scriveva una volta ogni due settimane, da
quando non era voluta tornare a Natale le scriveva ogni tre giorni circa. E la
carta si ammonticchiava sul suo comodino, perché lei non sapeva che scrivere,
che dire di diverso dalle solite parole prestampate che non corrispondevano al
reale.
Ginny
forse l’aveva messo in guardia, diceva che lei spariva dal castello per ore ed
ore, ma per fortuna non aveva ancora deciso di fare indagini, sperava ancora
che lei le desse spiegazioni. Bastava parlare con Neville per sapere tutta la
questione, per sapere dove andasse.
Draco,
vedendola arrivare sempre in ritardo e sempre circospetta, intuì la questione.
“Vieni
a Serpeverde… non ti cercherà nessuno lì…” le disse un pomeriggio, come tanti
altri. Hermione guardò prima le sue mani, poi i suoi occhi ed accettò.
Erano
ad un buon punto. Scandagliando libri su libri e tracce su tracce, avevano
scoperto che per cancellare un segno del male ci volevano “lacrime opposte”. Ora bisognava solo capire che cosa fossero queste
lacrime opposte. Hermione aveva
decine di teorie a riguardo, ma nessuna le sembrava convincente.
Ma
erano a buon punto. In ogni senso.
Draco
veniva ancora picchiato, molto più spesso di qualche settimana prima, da quando
avevano capito che Hermione non avrebbe denunciato la cosa a nessuno. Era stato
lui a chiederglielo, lei smaniava sempre dall’ansia di fare qualcosa, specie
nei momenti in cui lui non riusciva nemmeno ad alzarsi e lei trascorreva il
tempo leggendo e masticando amaro, seduta ai piedi del suo letto.
Serpeverde
era un regno a parte. Lo imparò in quelle settimane. Vigeva un codice d’onore
staccato dal resto del mondo, vigeva un omertà totale che proteggeva Draco
Malfoy come l’ultimo discendente di una degna casata. E lei, la Grifondoro
convertita, ne era protetta di riflesso per una legge di natura non scritta.
Nessuno,
a Serpeverde, sembrava interrogarsi sul motivo per il quale Hermione passasse
lì molti dei suoi pomeriggi… o nessuno sembrava interrogarsi sul legame
sussistente tra i due.
Ma,
se nessuno sembrava farsi tali domande, ciò non significava che lei avesse
smesso di farsele.
Erano
diventate come una specie di sottofondo musicale costante, ma che a furia di
sentire sempre nei suoi pensieri, oramai non ascoltava più. Andava bene quel
momento, andava bene stare in quella stanza anche in silenzio, andava bene
smettere di pensare. Conosceva mille etichette dei rapporti umani: conoscenti, compagni di scuola, amici,
complici, poteva arrivare anche a simpatizzanti,
beneauguranti, contemporanei.
Ma
nessuna di quelle andava bene per lei e Draco Malfoy, nella stessa stanza, al
buio di una piccola luce verdastra, che leggevano libri. Figuriamoci se andasse
bene, poi, un’etichetta qualsiasi per Hermione Granger e Draco Malfoy che
avevano anche preso a parlare. Era
un’esagerazione dire che parlassero, spesso era lei che parlava e lui se ne
stava zitto, ma aveva preso l’abitudine di commentare le cose che diceva, di
risponderle a tono, di essere ironico in maniera non cattiva. Ed aveva preso a
sorridere, poco, raramente, con impacciata difficoltà, ma aveva preso a
sorridere. A lei.
Puoi
avere una cosa per volta. Un’altra lezione da Draco Malfoy.
Sulla
bilancia, tra scrivere una lettera a Ron ed aspettare che Draco Malfoy
sorridesse, il piatto iniziava a non essere più così bilanciato con l’altro. E
quando finalmente ottenne da lui che lo aiutasse a disinfettare le ferite che
continuava ad avere, minacciandolo che, in caso contrario, avrebbe davvero
detto tutto alla Preside, il piatto scivolò ancora più in basso. Lui sbuffava,
imprecava, diceva che era seccante ed assillante, lei replicava che lui era
immaturo ed un pavido, e poi si piegava, chiudeva gli occhi, stringeva le
labbra quando Hermione passava la garza imbevuta sulle ferite aperte. Il piatto
di Ron librò leggero nell’aria il giorno in cui finse che la garza le fosse
scivolata di mano, e sfiorò con la mano aperta la pelle del suo viso.
Draco
riaprì gli occhi, piano, erano occhi grigi, non azzurri. Non se ne era mai
accorta.
“Credo
che basti adesso…” soggiunse lui, allontanando la sua mano con gentilezza. Ma
non la lasciò, intrecciò le dita con le sue. Era calda la sua mano, odorava
d’arancia. Nel suo letto, quella sera, Hermione l’avrebbe tenuta sul cuscino,
addormentandosi con quel profumo nel naso.
Draco
guardò le loro mani intrecciate, esattamente come faceva lei, sempre. Solo che
adesso non riusciva a distinguere dove finisse la sua e dove iniziasse quella
del ragazzo. O forse stava solo piangendo.
“Perché
sei qui?” le chiese Draco in un soffio, stringendo più forte la sua mano.
“Per
aiutarti con il Marchio…”.
“E
perché vuoi aiutarmi?”.
“Non
lo so”.
“Ti
prego, Hermione… dimmi una bugia…”.
“Perché
mi sento in colpa per quello che ti hanno fatto”.
Il
giorno in cui lo assecondò, mentendo, solo perché lui l’aveva chiamata per
nome, le parve persino di sentire un clangore metallico sordo dentro la sua
testa.
Il
piatto di Ron era volato via, leggero, volatile, come se non fosse mai
esistito.
Quello
di Draco, pesante come un macigno, le aveva scavato una fossa sotto i piedi.
Torre di Astronomia.
Piano inclinato. Camminava su un
piano inclinato, a pendenza variabile a seconda dei giorni. Tendenzialmente
l’angolazione aumentava sempre, giorno per giorno, cosicché ci fosse sempre
meno tempo perché lei, non riuscendosi più ad aggrappare a nulla, scivolasse e
rovinasse al suolo.
Pendenza a 10°.
Lei e
Draco non si videro più. In silenzio, senza dirsi una parola, si accordarono
sul punto. Sarebbero andati avanti da soli con le ricerche, comunicandosi i
risultati per messaggi. Sarebbe stato più semplice, si sarebbe concentrata
meglio. E lui sarebbe uscito dai suoi sicuri sotterranei, solo se strettamente
necessario. Era meglio, certo, era la cosa che avrebbero dovuto fare fin
dall’inizio.
Pendenza a 20°.
Qualcuno
aveva scoperto qualcosa. Poco, nulla, in realtà. Solo voci, asfissianti come
nebbie sulfuree che si propagavano nei corridoi, quando lei passava. Borbottii,
mormorii, risatine. Boccette d’inchiostro che sparivano, fogli di pergamena
strappati, libri che ricomparivano nei luoghi più strani. Lei raccoglieva le sue
cose, piano, senza fretta, senza nemmeno sollevare gli occhi. Si inventò la
rassegnazione di Draco, a sua immagine e somiglianza.
Pendenza a 30°.
Le
lettere di Ron aumentarono. Aumentarono le domande di Ginny. Aumentò il suo
barricarsi dietro il silenzio, il suo prendere la piuma in mano solo per fare i
compiti. Scuse, balle, bugie, ed ogni altra cosa. Iniziò a scriverle anche
Harry, che aveva sempre aggiunto poche righe alla fine delle lettere del suo
ragazzo. “Se hai bisogno, noi siamo qui… sempre…”. Pianse sulla pagina, ore e
ore, mischiando lacrime ed inchiostro.
Non ho bisogno che ci siano loro…
Pendenza
a 60°.
Ho bisogno che ci sia Draco.
To fall in love… innamorarsi… e
lei cadde giù, lungo il piano inclinato.
Si
era innamorata di Draco Malfoy, e ci poteva mettere tutta la logica del mondo,
la compassione, la accondiscendenza per sé stessa, ma niente avrebbe cambiato
la cosa. Si era innamorata di Draco Malfoy.
E
quando ci si innamora, in quel modo, ogni cosa del mondo sta lì a ricordarti
quella persona, il colore biondo del sole di marzo, il grigio del lago
tiepidamente quieto, il calore di un paio di guanti di lana sulla pelle delle
mani che ha toccato lui. Si era innamorata di Ron, forse era innamorata di Ron,
ancora, adesso, sempre.
Ma
non così.
Lei
senza Ron, era andata avanti sempre. Lui si era messo con Lav
Lav e lei aveva pianto, tanto, troppo, e poi il
giorno dopo, aveva fatto un compito di Incantesimi ed era stata più lodata del
solito. Si erano inseguiti per sette anni, e lei era sempre andata avanti lo
stesso. Era entrata in guerra con lui come amico, ne era uscita con lui come
fidanzato. Ed era andata avanti lo stesso.
E poi
era arrivato Draco Malfoy. Ed improvvisamente non sapeva fare nemmeno un passo,
non riconosceva la ragazza dai capelli spettinati che guardava allo specchio,
quella che andava avanti a scuola solo perché, anticipandosi mezzo programma
quando era ancora sana di mente, non poteva concretamente fallire.
Lui
era sparito di nuovo. Non lo vedeva in Sala Grande, né da qualsiasi altra
parte. Persino a lezione, le sembrava diventato invisibile. Se mai avevano
delle lezioni in comune, veniva in ritardo ed, entrando, non la guardava mai.
Si era sempre erta come quella immune alle sciocchezze delle ragazze
innamorate, ed era diventata il peggiore esempio in tal senso, pronta a spiarlo
se lo vedeva spuntare, ad arrossire, a balbettare.
Lo
avrebbe accettato. Magari lo avrebbe accettato con il tempo, di non essere
nulla di speciale, di essere una ragazza normale che si innamora non
corrisposta e che passa il tempo a sentire canzoni strappacuore, meditando di
tagliarsi le vene. Era una tappa, un percorso obbligato. Ci stava.
No,
che non ci stava. Perché c’era Ron. E Ron era Ron, il suo migliore amico,
quello per cui aveva lottato per anni, per mesi, per giorni, aspettando che si
innamorasse di lei. E adesso non riusciva nemmeno a scrivergli una lettera,
perché sapeva che la carta l’avrebbe svelata e l’inchiostro l’avrebbe
smascherata.
Non
riusciva a sopportare che il viso di Ron, nella sua testa, fosse macchiato
dalla parola accontentarsi.
Aprile
si affacciò velocemente nel calendario, soffiando di scirocco sulle pietre del
castello. Pochi e radi fiori iniziavano a crescere nella Foresta Proibita, il
loro odore veniva portato dal vento attraverso le finestre.
Indossò
la divisa più leggera, arrotolando leggermente le maniche sopra il gomito,
cercando di non pensare al fatto che Draco potesse avere caldo come lei ma non
poter fare quel comunissimo gesto. Decise di tornare a casa per le vacanze di
Pasqua, giusto per un paio di giorni. Avrebbe parlato con Ron, non nominando
Draco.
Gli
avrebbe solo detto che aveva bisogno di tempo. Era vero, con il tempo tutto
sarebbe tornato a posto.
In
due mesi, Draco si sarebbe diplomato e se ne sarebbe andato in America. Non
l’avrebbe rivisto mai più.
O
forse sarebbe venuta a capo di quella dannata faccenda delle lacrime opposte in
capo a pochi giorni… ed ancora prima i loro rapporti si sarebbero troncati. E
sarebbero tornati nel solito alveo delle loro certezze.
Poteva
ancora risalire quel pendio. Sarebbe stata dura, ma poteva ancora risalire la
china, tornare in cima, guardare dall’alto il mondo e dirsi salva e al sicuro.
Quindici aprile. Dimenticava tutto,
con una facilità disarmante. Si doveva concentrare su come respirare, su come
parlare, su come camminare. E il resto le passava spesso di mente. Inoltre i
piccoli sabotaggi con lei come bersaglio, stavano aumentando. Non era sicura
che avesse dimenticato davvero delle cose, o gliele stessero nascondendo. Non
trovava più dei fogli, con degli appunti che aveva preso sul Marchio Nero.
C’era
ancora qualche frase scritta da Draco su quei fogli, li voleva
irragionevolmente più per quello.
Erano
le nove passate di sera e le rimaneva da controllare solo la Torre
d’Astronomia. Dubitava che fossero lì, ma tanto non aveva voglia di mangiare
quindi allontanarsi da cena non le era di fastidio. Salì le scale velocemente,
aprì la porta dell’aula semibuia, illuminata solo dalla luce bluastra dei globi
che rappresentavano i pianeti in un piccolo plastico. Si accucciò sotto i
banchi, guardò sulle sedie, scavò nella libreria, maledicendo di aver
dimenticato la bacchetta per farsi luce.
“La
professoressa Sinister ha riconosciuto la mia grafia… pensava che fossero
miei…”.
Sobbalzò,
trasalì, le caddero dei libri dalle mani, l’eco echeggiò per tutta la Torre.
Era lì, Draco, la conosceva la sua voce. Non l’avrebbe mai dimenticata. Era in
un angolo, accanto ad una vetrata, in piedi, le mani che stringevano i fogli.
Gli occhi erano ritagli di luna, la stessa luna assente ingiustificata dal
cielo buio di quella notte. Non trovò Hermione le sue mani, non poteva vederle,
si voltò senza fiato, spaventata, corse verso la porta, pronta a scappare come
la peggiore delle codarde. Non si mosse, non la fermò.
Non
ebbe bisogno Draco, come lei diciotto anni dopo, di afferrarlo per il suo punto
debole, per quell’avambraccio marchiato. Gli bastò aprire bocca. E dire: “Vieni
con me. In America, tra due mesi… parti con me…”.
La
mano di Hermione si fermò sulla maniglia della porta, ne saggiò con le dita il
pomello rotondo metallico. Il cuore, nel buio, era un richiamo sordo che
avrebbe sentito anche lui, se avesse voluto. Si voltò piano, le lacrime che le
affannavano la vista. Si avvicinò piano Draco, senza far rumore, superando i
bassi tavolini e le sedie, arrivando a lei che aveva preso a tremare. “Vieni
con me…” ripeté ancora, ad un passo da lei.
Dovette
sollevare lo sguardo per guardarlo in viso: “Perché?”.
La
mano calda di Draco le soffiò via le lacrime dagli occhi, mentre poggiava la
fronte sulla sua. Hermione pianse ancora, odore di sale e odore di arancia,
artigliandosi con la mano alla sua camicia.
“Tu
mi hai mai detto perché mi stai aiutando? Credo che siamo pari, no?”.
“E’
un concetto un po’ diverso, visto che mi stai chiedendo una cosa solo vagamente
diversa… ossia andarmene da qui e cambiare tutta la mia vita…”.
“E’
esattamente la stessa cosa, invece…” sussurrò lui, riaprendo gli occhi e
sorridendo lievemente “Se la motivazione è la stessa…”. Glielo disse così,
velocemente, con aria saccente, vincendola, piegandola.
Hermione
riconobbe sé stessa nei suoi tratti, riconobbe quanto di lei aveva lasciato in
lui, riconobbe quanto per osmosi si fossero trasmessi vicendevolmente. Si
riconobbe in lui. Completamente, tutta, in un modo che l’atterrì. La baciò,
piano, senza fretta, chiudendole le labbra con le proprie, stringendola in
vita, soffiando il suo respiro nel suo. La spogliò con consapevole lentezza,
facendola distendere su un divanetto abbandonato in un angolo. Hermione credeva
di impazzire, di scoppiare, di morire da un momento all’altro. Si guardava
dall’esterno e non credeva che le stesse accadendo davvero. Lo guardava dall’esterno
e non credeva che fosse davvero lì, con lei. I baci di lui accendevano di
lucciole la sua pelle, vibrava come uno strumento musicale, non sapeva
fermarsi, non sapeva fermalo. Quando lo sentì entrare in lei, quando spalancò
gli occhi graffiando la sua schiena, quando baciò il Marchio che li aveva
separati unendoli, quando sentì il sangue vergine scendere lungo la sua gamba,
pensò che le aveva purificato il sangue che aveva creduto sporco, tanti anni
fa. Piena di lui, era perfetta.
Sarebbe
partita con lui, certo. Ovvio. Non poteva pensare al contrario. Fosse anche che
la stesse usando, sfruttando, manipolando… fosse anche che avesse voluto solo
prendersi la sua verginità, fosse anche tutto… lei sarebbe partita con lui.
Quando, esausto, scivolò su di lei, coprendola con le sue braccia e
sussurrandole tra i capelli, Hermione capì che non sarebbe mai più risalita.
Non sarebbe mai più tornata indietro.
“Ti
amo…” disse lui, accarezzandole la guancia sudata.
Pendenza a 90°. Era definitivamente
cascata al suolo.
Al limitare della Foresta Proibita.
Quaranta
giorni, come una Quaresima. Ed Hermione davvero sperava che alla fine di quei
quaranta giorni, ci sarebbe stata una purificazione per tutti loro. Per lei,
prima di tutto.
Invece il serpente avrebbe solo ammazzato
l’agnello.
Quaranta
giorni fino al diploma. Quaranta. Quarantuno alla sua partenza per l’America. Preparativi,
incombenze, non riuscivano a distrarla. Splendeva radiosa, come una stella di
giugno. Valigia preparata da due settimane prima, anche se ogni volta che
metteva da parte qualcosa, qualcuno penetrava nella sua stanza e le metteva le
cose per aria. Erano arrivati anche lì, nella sua stanza. Non le importava,
stava per finire anche quella storia. Nascose il baule nella stanza accanto
alle serre e continuò ad andarsene in giro, canticchiando.
Cadde
per le scale, qualche giorno prima della fine di maggio. Si riempì di lividi,
si chiese dove avesse potuto inciampare e dedusse che l’avevano spinta. Si
sollevò, si pulì la polvere dai vestiti ed andò in infermeria.
“Sono
caduta dalle scale…” e Madama Chips le medicò le ferite.
Scrisse
una lunga lettera a Ron, lunghissima, dove le spiegava tutto. Ne scrisse una
più breve a Harry ed un’altra a Ginny. Le diede a Luna, l’unica che non avrebbe
mai spiato le sue cose, pregandole di consegnarle esattamente dieci ore dopo la
sua partenza. Si era comprata una guida turistica, anzi decine di guide su ogni
stato americano. Comprò un profumo all’arancia e alla vaniglia. Studiò per gli
esami, si informò sulle scuole di magia d’oltreoceano.
“Non
dovrei portare un regalo a tua madre quando la vedrò?” aveva chiesto a Draco,
guardandolo dal basso verso l’alto mentre se ne stavano seduti per terra, nella
piccola stanza delle serre.
“Il
regalo glielo farò già io, portando te a casa…” sorrise lui, baciandole la
tempia “Bramerà così tanto la mia morte che probabilmente manderà all’aria la
sua redenzione…”.
“Sei
sicuro di volermi con te? Davvero?”.
“Tu
sei sicura di voler venire con me?”.
“Certo
che sì”
“E
allora non chiedermelo più”.
Lo
abbracciò e chiuse gli occhi. Appena arrivati in America, avrebbero scoperto
anche che cosa erano quelle maledette lacrime opposte. C’era una biblioteca
immensa di magia, in un vicolo nascosto di Brooklyn.
Sarebbe
stato facile. Tutto sarebbe stato facile, una volta lì.
“Hai
un livido sulla schiena…” constatò Draco, asciutto, mentre la spogliava,
facendola scivolare per terra, baciandole la pelle fresca. “Sono caduta dalle
scale…” sorrise lei, tirandolo per il colletto e baciandolo.
La
piega delle sue labbra, sotto quelle di Hermione, si fece per un attimo
contratta e tesa, prima di ammorbidirsi sotto i baci di lei.
I
giorni passarono come vagoni di un treno, su un binario deserto. Rapidi,
guizzanti, feroci. Arrivarono gli esami, li passò a pieni voti.
Arrivò
la mattina del diploma.
Arrivò
un gelido mezzogiorno di giugno.
Il
cervello degli uomini funziona sempre come quello degli animali; di fronte ad
un ricordo bello, colorato, luminoso, ma che non serve all’evoluzione della
specie, la mente conserva rapidi sprazzi, come macchie di luce sulla retina
distorte da lenti sfocate. Con il tempo, i ricordi piacevoli non lasciano
tracce, perdono definizione, resta solo un calore piacevole alla bocca dello
stomaco e un retrogusto dolceamaro.
Dei
ricordi, invece, negativi, l’uomo animale deve fare tesoro, deve conservarli
per impedire che si verifichino ancora, deve lottare per trarne da essi
esperienze ed insegnamenti. Ogni particolare si staglia come ombre lunghe di un
tramonto sanguigno, dove nessun buon tempo si spera.
Hermione,
a trentasei anni, ricordava poco dei baci di Draco Malfoy, dei particolari del
suo viso, del modo buffo che aveva di inarcare un sopracciglio mentre lei
parlava, del colore dei suoi occhi, né grigi, né azzurri.
Invece,
ricordava come se le fosse stata incisa nella carne viva, ogni cosa di quella
mattina.
Il
foulard rosso che portava stretto al collo, che veleggiava nel vento freddo di
tramontana. L’aria crepitante di pioggia vicina. Le nubi incombenti
all’orizzonte. L’eccitazione confusa degli studenti da ultimo giorno di scuola.
Ricordava
l’odore del cuoio dei bauli e dei bagagli, ricordava ogni singola parola dei
saluti intercorsi con i suoi compagni di scuola, ricordava i lunghi sguardi
sulla sua nuca che ripetevano voci che giravano.
Ricordava
persino che la camicia bianca che portava, era diventata troppo stretta e che
aveva deciso di gettarla via, appena arrivata in America. Ricordava che, per la
prima volta, non si era preoccupata di non vedere Draco in giro, perché tanto
di lì a poco, sarebbero rimasti sempre assieme, senza sotterfugi.
Ricordava,
soprattutto, che lei, la ragazza abitudinaria ed inquadrata, quella che anni
dopo si sarebbe fatta prendere da piccoli riti e manie tese a cristallizzare il
reale, non aveva nessuna paura di quel salto nel vuoto. Era convinta che fosse
la soluzione giusta, ne era certa. Quando sarebbero tornati, il mondo si
sarebbe stancato di considerarli in modo strano, anche se adesso concretamente
tutti sapevano tutto e nessuno sapeva davvero niente. Sarebbe stato naturale
per tutti come era per loro.
Stava
virando sulle domande sull’estate di Ginny, quando qualcuno le mise un
biglietto nella tasca della gonna a pieghe. Si allontanò, lo estrasse ed aprì
con cura.
“Vieni alla radura al limitare della
foresta proibita. Dobbiamo parlare della partenza. DM”.
Sorrise,
piano, dolcemente, imprimendo velocità ai suoi passi che lasciavano il
castello. Piena di febbrile gioia ingenua, uscì nel parco, rabbrividendo per il
freddo. Ricordava ogni singolo passo,
l’impressione di essere sempre troppo lenta, i pensieri sciocchi che aveva
avuto, uno dopo l’altro. Pensava alla
fortuna che aveva avuto di trovare una persona così solo per lei, al destino
che l’aveva fatta proporsi per aiutarlo.
Saltellava
quasi, perché a diciotto anni, se sei innamorata, puoi concederti di non
sentirti grande, ma di tornare bambina, con le guance rosse, gli occhi lucidi e
i sogni intatti.
Lo
vide da lontano nella radura ricoperta da un tappeto morbido di felci, che
avevano scoperto un giorno per caso, tornando dalle serre. Solo il giorno
prima, attenti che non li vedesse nessuno, lui le aveva stretto la mano forte
tra le sue, lasciandole una scia aranciata sulla pelle calda. Il passo accelerò
come sempre, lui non sbatté nemmeno le palpebre, continuando a fissarla con braccia
incrociate al torace, gli occhi spade di ghiaccio. Non se ne accorse Hermione,
vide solo che sotto la camicia sembrava non avere alcuna benda sul marchio
nero, e ne fu felice. Anche se da mesi non si procurava più alcuna ferita
inutile, spesso portava una benda per impedire a sé stesso di vedere quel
segno. Avvicinatasi, sorrise ancora vedendolo, si sporse per baciarlo e lui la
tenne a distanza. “Che c’è?” chiese, non capendo, una mano nei capelli mossi
dal vento.
Dopo
quel momento, Hermione ricordava poco. O meglio ricordava la sua immagine, il
fatto che lui non sbattesse nemmeno le palpebre; ricordava il gelo progressivo
che l’attanagliava mentre lui parlava, come un’invasione di piccoli granchi
ghiacciati che le si arrampicavano su per la schiena; ricordava di sentirsi
spezzare dappertutto, non solo nel cuore; ricordava di essere caduta in ginocchio,
di aver iniziato a piangere; ricordava che l’aveva lasciata lì, tornando
indietro.
Ma
delle sue parole, ricordava poco. Spesso lo avrebbe paragonato allo strappo di
un cerotto, attaccato alla pelle. Fu un dolore acuto, fortissimo, intenso come
mille scariche elettriche. Le sue parole non le capì del tutto, le scordò
subito, entrarono dalle orecchie ed uscirono subito. Solo nei mesi successivi,
a prezzo di lacrime e di vuoti nel cuore, le avrebbe ricostruite pressappoco
come “Parto da solo”, “Tu non parti più”, “Mi sono sbagliato”, “Avevo solo
voglia di farmi l’amica di Potter e di vendicarmi di quello che mi hanno fatto
passare per anni”, “Mi servivi per il Marchio”, “Troverò da solo cosa sono le
lacrime opposte”, “Andrò in America e tu non mi vedrai mai più”, “Continua la
tua stupida vita dove l’hai lasciata”.
Ginny
l’aveva seguita, notando il biglietto che aveva ricevuto, capì qualcosa, la
guardò con disgusto mentre Draco si allontanava, lasciandola in ginocchio lì.
Si era alzata, aveva ignorato le sue parole, l’aveva afferrato per un braccio,
lui l’aveva insultata divincolandosi, era rimasta immobile mentre se ne andava.
Due
giorni dopo, tornò a casa sua, dai suoi genitori, lasciando la valigia già
preparata ad Hogwarts nella stanza accanto alle serre. Non volle vedere nessuno
per tutta l’estate, perse dieci chili, perse un anno della scuola di specializzazione
per le professioni ministeriali che voleva frequentare. A settembre, tagliò i
capelli e li tinse di biondo, raccontò tutto a Ron, lui diede tutta la colpa a
Malfoy per averla circuita, la perdonò.
Lei
si fece perdonare. Tornò al colore dei suoi capelli. Finì gli studi, iniziò a
lavorare.
Dopo
cinque anni, l’amore era diventato odio, l’odio poi divenne rancore, il rancore
poi scomparve come polvere sotto un tappeto. Lo incontrò. Saluto, cenno del
capo. Era tornato presto dall’America.
Non le
faceva effetto. Era felice. Era illusa. Era
solo una specie di amnesia autoimposta.
Sposò
Ron, ebbero due figli.
Ed
una mattina di ottobre tornò ad Hogwarts, per chiudere un cerchio.
Hermione
si chinò nella radura al limitare della Foresta Proibita, accarezzò le felci,
distinse quasi un solco dove le sue ginocchia si erano accasciate diciotto anni
prima. Sa che è impossibile, ma ci crede, ci crede disperatamente, mordendosi
le labbra per impedirsi di piangere.
Sollevò
lo sguardo verso Hogwarts, venne la risposta, si alzò da guerriera che è sempre
stata.
Nel processo non si possono usare prove
che minino la capacità di autodeterminazione dell’individuo.
Non
nel suo processo. Non alla fine di quel cerchio.
Veritaserum.
Parte
quarta: Risultato probatorio. Ossia la decisione del giudice.
Essere
stata la paladina degli elfi domestici sfruttati e vessati era stato un
discreto vantaggio. Alle cinque, ai genitori ospiti del castello, era stato
offerto un tè in Sala Grande. Trattenendo il tremito delle mani, mentre beveva
il contenuto della sua tazza, aveva seguito attentamente le mosse di Draco
Malfoy che, seduto qualche tavolo in là con suo figlio, aveva sorseggiato piano
l’intera bevanda. La mente lucida, era riuscita persino a sorridere,
rassicurando Ginny, e a rimproverare Rose per la disavventura in Stanza delle
Necessità.
Suonò
convincente, placò il senso di colpa, parve normale, si liberò di ogni pensiero
prima di affrontare quello che l’attendeva. Finito il tè, Gazza, ancora
miracolosamente in vita anche se sempre più decrepito ed incattivito, fece
sapere che i professori avrebbe comunicato la loro decisione tra un’oretta.
Aveva
un’ora.
Il
sole stava tramontando nel Lago Nero, un dolce vento caldo si stava sollevando dalle
montagne, quando Hermione si alzò dalla sedia, annunciando alla figlia e alla
cognata che aveva delle commissioni da fare ad Hogsmeade e che sarebbe tornata
in un’ora. Invece, si fermò nella radura di felci, al limitare della Foresta
Proibita, la schiena poggiata contro la corteccia di un albero, aspettando che
un altro elfo consegnasse a Draco il biglietto non firmato per farlo venire lì.
Forse, dalla scelta del posto, avrebbe capito che si trattava di lei, ma al
momento non aveva tempo, né voglia di preoccuparsene.
Chiudere,
chiudere, chiudere.
Aveva
lasciato Hogwarts diciotto anni prima, descrivendo un arco tra quelle mura,
un’ellissi incompleta con un enorme buco al centro, lasciato a deposito nelle
pareti. Rendersene conto, adesso, non era un controsenso.
Lo
sarebbe stato non accorgersene mai. Poco c’entrava capire che lo amava ancora,
come ieri, come domani, come sempre, come qualsiasi momento di un qualsiasi
Universo. Quello aveva a che fare solo con lei.
Ora,
tutto aveva a che fare con loro due. Draco Malfoy poteva restare una splendida
eccezione bionda ai suoi assiomi, incarnarsi in una scatola ricoperta di
polvere in soffitta. Restare un libro dalle pagine strappate, un braccialetto
d’argento con la chiusura rotta, un pezzo di carta scarabocchiato. Oppure
essere assorbito nella sua vita, entrarci da una porta secondaria, non più
ignorato con paura, ma guardato con coraggio. Spettava a lei decidere. Ed aveva
deciso. Era una deviazione sulla sua strada, un giro un po’ più lungo, ma era
necessaria.
Chi
aveva il gusto macabro dell’irrisolto, Hermione non l’aveva mai capito.
Gli
occhi fissi sul Lago Nero si accorse appena dei passi lunghi, misurati, che in
orario perfetto la raggiunsero. Le spalle le si contrassero, chiuse le dita
della mano sulla bacchetta. Si girò in tempo per vedere Draco Malfoy fermarsi a
pochi passi da lei, metterla a fuoco, storcere le labbra e dire caustico: “E’
uno scherzo?!”.
Hermione,
per la prima volta, lo fissò dritto negli occhi, staccandosi dall’albero su era
appoggiata. Sollevò il mento e non emesse fiato, convinta, certa, che anche lui
sapesse, immaginasse, perché fossero lì, di nuovo.
Draco
la guardò con autentico disgusto, una vena che gli pulsava incontrollabilmente
sul collo, visibile nonostante il cappotto nero chiuso fin sotto il mento. Si
spettinò i capelli biondi ad arte, in un atto di trascurata noia elegante, e si
voltò su sé stesso, pronto a ritornare al castello.
“Giuro
che se fai un altro passo…” si mosse Hermione, minacciandolo, estraendo la
bacchetta.
“Cosa
fai? Mi fai sanguinare il naso? Credimi, posso sopravvivere…” commentò lui
malevolo, non accennando nemmeno a girarsi, continuando a darle le spalle e
riprendendo a camminare. Fu rapida, lesta, come in guerra. Era in guerra, perché fare ancora finta che quella fosse pace? Un raggio di luce bianca scoppiò
dalla sua bacchetta, l’odore della stoffa bruciata le fece arricciare il naso.
Un profondo taglio si era aperto sul cappotto di Malfoy, strappando il tessuto
fino alla camicia bianca. La pelle del braccio era parzialmente evidente. Draco
si portò la mano chiusa sul braccio, girandosi a guardarla tra il sorpreso e lo
sconvolto.
Sapeva
che lei non gli avrebbe fatto male. Lo sapeva. Eppure arrivò a temerla.
“Ti
ho detto di non fare un altro passo” ripeté lei, continuando a tenere il
braccio puntato verso di lui.
“Si
può sapere che diamine vuoi? Sei ridicola” rise nervosamente Draco,
guardandola. Teneva sempre la mano premuta sul braccio, Hermione registrò
sommariamente che lo aveva colpito di nuovo all’avambraccio destro.
Stavolta,
però, non se ne era accorta.
“Sono
al patetica” commentò lei
ironicamente, non muovendosi nemmeno “L’essere ridicola è un stato abbondantemente superato… mi dispiace non
raccogliere l’insulto gratuito…”.
“Lieto
che tu ne sia consapevole… meno lieto di essere costretto ad una conversazione
non richiesta…” riprese Draco senza scomporsi, dandole di nuovo le spalle.
“Ti
ho fatto dare il Veritaserum…” sputò fuori lei, Draco si fermò sul sentiero
“Convengo che siano metodi da Serpeverde… ma sai com’è? Chi va con lo zoppo…”.
Dubitò
di quell’intenzione, di quella decisione, per un attimo. Draco si voltò ancora
e, per un attimo, per un solo attimo, la guardò come se gli avesse aperto uno
squarcio dentro, come se quella minuscola ferita che gli aveva inferto al
braccio fosse mortale. Hermione sbatté le palpebre e l’espressione era
scomparsa, era già pronto alla mossa successiva. Velocemente, lieve e
flessuoso, cercò di estrarre la bacchetta dalla tasca, ma Hermione fu più
pronta di lui. Lo disarmò velocemente, la bacchetta schizzò lontana.
Draco
guardò Hermione senza riconoscerla.
“Non
sarai tu quello patetico adesso?”
soffiò lei fuori con odio, continuando a puntargli la bacchetta contro “Un paio
di domande e torniamo alla vita solita…”, si incrinò senza volerlo il tono
delle sue parole: “… me lo devi, dannazione, me lo devi… me lo devi da diciotto
anni, diciamo che mi ero solo scordata di esigerlo…”.
Draco
capì subito dove voleva andare a parare, si guardò attorno cercando un modo per
andarsene, divenne più livido in viso, ma Hermione non attese oltre. Era
obbligato a rispondere alle sue domande e, prima l’avesse fatto, meglio sarebbe
stato. Lo sentì dirle: “Non farlo…” e non sembrava minaccioso, non sembrava
volerle mettere paura. La sua voce alle sue orecchie parve una contraddizione,
sembrava al contempo pregarla di fargli quelle domande e terrorizzato che
davvero gliele facesse.
Hermione
chiuse gli occhi, si concentrò sulla prima cosa che involontariamente adesso
aveva notato..
“Quando
è scomparso il Marchio Nero?” chiese perentoria, senza nemmeno riaprire gli
occhi.
Draco,
dopo che l’ultimo barlume di coscienza spaventata si spense nei suoi occhi,
rispose docilmente, vistosamente sotto incantesimo: “Il giorno del diploma…”.
Hermione
sussultò, riaprì gli occhi, gli restituì lo sguardo che lui con gli occhi
perfetti di una statua gli rimandava. “Il giorno del diploma?” balbettò, la
mano che tremava “Come? Non avevamo scoperto che fossero le lacrime opposte…”.
“Mi
accorsi che era scomparso quella sera stessa… non capì il perché…” proseguì
lui, sempre incolore ed inespressivo “Quando andai in America, feci delle
ricerche. Scoprii che cosa erano le lacrime opposte, e capii tutto.”. “Cosa?”
lo incalzò Hermione, mordendosi il labbro inferiore.
“L’opposizione
era a Voldemort.” continuò lui, sempre gelido, sempre reso inespressivo dalla
pozione “Era il modo per rompere il legame di fedeltà giurata a lui. Piangere lacrime
opposte ai suoi ideali, lacrime che lui non avrebbe mai pianto, ammesso che
Voldemort piangesse. Lacrime opposte anche a me stesso, a quello che ero, a
quello che avrei sempre creduto e pensato. Se l’avessi letto prima di conoscere
te, probabilmente mi sarei rassegnato che non si cancellasse mai.”.
Hermione
iniziò a capire, seppe perché come sempre il Marchio Nero era stata la prima
cosa che le era venuto in mente di chiedergli. Era la cartina al tornasole di
Draco Malfoy. Chiuse gli occhi, le guance bagnate, lasciò cadere la bacchetta
al suolo. Aprì gli occhi di nuovo, con voce rotta chiese: “Quali erano le tue
lacrime opposte?”. Fu certa di distinguere un bagliore diverso in lui, prima
che annegasse di nuovo nell’oblio della volontà del Veritaserum.
“Sacrificio”
scandì lui, senza fiato, come se avesse corso per chilometri “Sacrificio
d’amore…”.
Non
doveva mai chiederlo, non doveva mai saperlo. Certe cose era giusto che
restassero nell’ombra. Era giusto. Pianse, chiuse il viso tra le mani, non ebbe
più la forza di chiedere nulla. Si riscosse, si ridiede coraggio, guardò il suo
volto spento. Lo doveva a lui, adesso. Adesso era lei che non c’entrava più
niente.
“Perché?”
sussurrò, sperando che la sentisse. Non riusciva ad alzare la voce più di così.
“Vidi
il tuo livido quel giorno, quando facemmo l’amore nelle serre. Capii che
avevano iniziato a prendersela anche con te. Mi illusi, ti illusi che in
America sarebbe cambiato tutto. Era una balla. Scrissi ai miei genitori tre
giorni prima del diploma, non mi risposero, mi preoccupai. Li contattai da un
camino di Hogwarts. Non erano in casa, un elfo mi disse che erano in ospedale.
Aggrediti, di notte, in un vicolo deserto. Succedeva anche lì. E io che pensavo
che non sarebbe mai più successo. Mi chiesi che sarebbe successo portandomi con
me. Ero in grado di difenderti io, che avevo rinunciato a difendere me stesso?
Certo che ne ero in grado, certo che lo sarei stato. Ma era già successo, ti
avevano già colpito, non doveva essere la prima volta, non me ne ero accorto.
Quel che è peggio è che tu avevi rinunciato a difenderti a tua volta, l’avevi
considerato normale, l’avevi considerato il prezzo per stare con me. Era troppo
alto, troppo alto, per una come te. Saresti cambiata. Con gli anni saresti
cambiata. Saresti diventata rassegnata, cinica, spenta… da idealista, combattente,
fiera, spavalda che sei. Temevo più quello che altro. Non potevo sopportarlo.
Non potevo sopportarmi. Weasley non ti aveva cambiato in sette anni, io sì e in
solo nove mesi. Mi odiai. Ti lasciai. Mentii, tu mi credesti facilmente, mi
dissi che era stato troppo facile. Tu non ti fidavi di me, ti odiai. E poi mi
dissi che era giusto, disgustosamente giusto. Piansi, il tatuaggio sparì.
Restai in America un anno scarso. Avevo bisogno di sapere che stessi bene.
Tornai. Non me ne andai più. Bastava incontrarti e sapere che oramai non ti
associavano più a me. Feci quello che si aspettavano da me, sposai Astoria,
ebbi Scorpius. Non sono stato felice un solo giorno della mia vita da quando ho
lasciato questo posto. Non me ne sono mai dato l’opportunità, perché non eri
tu, non era tuo figlio, e tu stavi con Weasley, e se era stato giusto, dopo
quel momento, dopo averti rivista, non lo è stato più, non lo è stato mai. Ma
tu sei te stessa. Lo sei ancora. Sei sempre tu. Nessuno ti ha fatto del male.
Sei sempre tu, la solita odiosa Granger che conosco. Ed allora forse ne è valsa
la pena.”.
Dopo
quelle parole, Draco sbatté le palpebre, si guardò inorridito, cadde in
ginocchio, forse esattamente nello stesso punto dove era caduta lei diciotto
anni prima. Si chiuse il volto con le mani, non seppe Hermione se piangeva,
preferì non capirlo, preferì sentire le sue di lacrime, concentrarsi
egoisticamente solo su di esse.
Egoista…
come sempre era stata.
Non sono stato felice un solo giorno della
mia vita. Non
poteva mentire Draco, non poteva, era stato sincero.
Lei
era stata felice? Certo. Ovvio che sì. Protetta dalla negazione, lo era stata a
suo modo.
Era
andata avanti come lui si era augurato. Come le aveva augurato. Ed invece
adesso lei avrebbe voluto essere rimasta ferma in quella radura, da quel giorno
in avanti, dormire mille anni sepolta dalle felci, sapere che per sempre non
aveva mosso un passo. Non essersi sposata, non aver avuto figli, non aver
nemmeno mangiato, respirato, riso, pianto, una sola singola volta, senza di
lui. L’aveva fatto, invece, ed era colpa, rimorso, dolore. Le lacrime non
bastavano, non sarebbero mai bastate. Aveva aperto Draco, a metà, come una
maledetta arancia, ancora, come se fosse un assassino crudele. Tutto per vedere
se c’era un cuore là dentro, per sincerarsi che anche lui avesse sofferto quel
giorno, come lei. Mai come lei, lei
sola aveva sofferto.
Ed
invece, la Regina del Bene non sapeva nemmeno che cosa significasse soffrire.
Per un solo minuscolo capriccio da crisi
di mezz’età, sindrome del cerchio
e quant’altro, l’aveva spezzato del tutto.
Draco
Malfoy, il suo unico amore.
Figuriamoci
se davvero l’avesse odiato.
Pianse,
piangeva.
Lui
in ginocchio ripeteva: “Perché mi hai costretto a dirtelo? Perché mi hai
costretto a ricordarlo?”.
E lei
non sapeva che rispondere, non sapeva che dire. O meglio sapeva che dire: che
era stata crudele, che era nata solo per fargli del male, che chissà perché non
l’aveva lasciato andare, che tutto doveva venire a galla, che era giusto che
lei soffrisse con lui, che era giusto soffrire assieme per una volta.
Era
giusto. Giusto… cos’era giusto?
Andare avanti per almeno diciotto anni.
Fingere di essere felice per almeno diciotto anni.
Il
suo corpo si ribellò, la fece tremare, le gambe non ne volevano sapere. Le
forzò, si forzò, la mente più forte, il cuore più implacabile. Si chinò alla
sua altezza, lo abbracciò, lui la strinse forte, si baciarono.
Puntò
la bacchetta alla sua schiena. Lui se ne accorse, cercò di ritrarsi, non ce la
fece.
“Oblivion” proferì lei, la voce piatta. E
in tre sillabe, l’ultimo anno di Hogwarts di Draco Malfoy, pomeriggi
all’arancia, odore di disinfettante, mani fredde sul viso, baci di stelle,
tappeti di felci, sciarpe rosse, lividi uguali, libri sfogliati, lacrime
opposte, evaporarono come rugiada al mattino.
Vai avanti. Sii felice. E non solo per
diciotto anni… fin quando puoi.
“Che
diamine ci faccio, qua, Granger? Sai se hanno deciso qualcosa su Scorpius e
Rose?”.
“Non
lo so… ma credo di sì… insomma un’ora è passata…”.
“Spero
che si muovano… odio questo posto...”.
“A
chi lo dici”.
Cenno del capo. Sorriso nervoso. Nessuna
altra parola.
L’imputato è giudicato non colpevole per
non aver commesso il fatto.