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Autore: secretdiary    01/02/2012    1 recensioni
Racconto vincitore del contest Vita segreta indetto dal forum My royal family.
Cosa accade nella mente di un'adolescente quando muore sua sorella gemella, quando vede la vita abbandonarla?
Thriller psicologico, spero che vi piaccia!
Genere: Introspettivo, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Piccola annotazione prima di iniziare:
Cari lettori, innanzitutto vi ringrazio per aver aperto questa storia e per aver scelto di spendere un po' del vostro tempo per leggerla.
Vi rubo solo un paio di righe prima di lasciarvi al racconto: è finalmente uscito il mio primo romanzo.
Ora, finalmente, sono un'autrice pubblicata.
Se amate le storie fantasy, nel campo destinato al mio profilo, trovate tutte le informazioni relative al romanzo.

Grazie per l'attenzione ;)
Buona lettura!!
Bisous *-*

Specchio, specchio delle mie brame

 

Alcuni segreti esistono per essere rivelati, per donare un sorriso sulle labbra di colui che doveva tacere e per aumentare l'intimità tra il confidente e l'interlocutore.

Altri segreti invece sono destinati a non essere mai violati.

Sono destinati a rimanere sepolti sotto tonnellate di sensi di colpa, sotto litri di rimpianti.

A quest'ultima categoria apparteneva il segreto di Selene Adams.

Ella era convinta che quell'orribile mostro che la perseguitava, credendosi la sua ombra dall'autunno del 2009 non l'avrebbe mai abbandonata fino al giorno della sua morte.

Probabilmente in procinto di esalare il suo ultimo respiro, Selene avrebbe confessato a qualcuno, solamente per riprovare la magica sensazione di sentirsi sollevata, ma fino a quel momento, Selene doveva tacere.

Doveva convivere con il suo segreto.

Tenerlo per sé, proteggerlo dagli estranei.

Era vitale che nessuno sapesse, altrimenti la sua vita sarebbe finita.

Nemmeno i suoi genitori erano al corrente di ciò che stava distruggendo la vita di Selene.

Il signor Adams era un militare, in missione in Afghanistan.

Quando tornava a casa da quell'inferno, credeva di essere in paradiso e non si accorgeva delle lingue di fuoco che avviluppavano la sua adorata figliola.

La signora Adams era invece un giudice, sempre occupata a trattare casi astrusi, dalla soluzione ambigua.

Troppo importanti per archiviarli prima delle 22 di sera per tornare a casa dalla figlia a parlarle.

A Selene comunque non dispiaceva stare da sola e, quando proprio avvertiva l'esigenza di parlare con qualcuno, si rivolgeva alla sua immagine riflessa sull'enorme specchio che costeggiava quasi tutta la parete di camera sua.

Quell'oggetto era troppo grande rispetto alla stanza alla quale era destinato.

Uno specchio immenso, dalla superficie perfettamente linda, in grado quindi di catturare ogni dettaglio della camera da letto, così da ribaltarlo e portarlo nell'universo celato dietro il vetro.

La superficie era abbracciata da una pesante cornice di bronzo, i cui spigoli furono lavorati a mano da un fabbro probabilmente mezzo secolo prima.

Quell'immenso oggetto datato era il confidente di Selene.

Sebbene la ragazza avesse degli amici, e molti a dire la verità, ella sapeva perfettamente che il suo segreto non poteva essere sopportato da altre spalle al di fuori delle sue, perciò, quando proprio non ce la faceva più a tacere, quando proprio doveva sfogarsi, ecco che arrivava in suo soccorso la sua immagine specchiata.

Quella mattina Selene non era andata a scuola, anche se aveva fatto credere a sua madre tutt'altro.

Si era svegliata, aveva fatto colazione con lei, l'aveva salutata con il consueto bacio sulla guancia, ma invece di andare in camera per prendere la borsa con i libri, si era sdraiata sul letto, tamburellando con le dita il ventre.

Allargando i grandi occhi marroni ('da cerbiatta', come diceva la sua romanticissima e sognante amica Rosaleen), Selene fissò il soffitto, scovando una macchia da infiltrazione nell'angolo a destra.

Selene provò ad ignorare quell'imperfezione, ma la sua personalità era troppo pignola per lasciar correre e quella macchia era veramente gigantesca.

Era impossibile ignorarla.

Sospirando e armandosi di torcia Selene salì in soffitta, seguita dal suo gatto siamese, Argo, sperando di riuscire ad aggiustare il danno.

 

Selene sospirò tamburellando con le dita sul ventre.

Aggrottando le sopracciglia si mise a sedere sul letto e si voltò verso la chiazza d'umidità.

Era sparita.

Sorrise soddisfatta.

Il suono distintivo di una chiave che gira nella toppa annunciò alla ragazza l'arrivo di sua madre.

Sistemandosi i fluenti capelli castani, Selene scese al piano di sotto per accoglierla.

«Tesoro, puzzi come un caprone... E che mani sporche hai!» esclamò il giudice prima ancora di salutarla.

«Sì, ora vado a farmi una doccia».

«Va bene. Io devo tornare subito in ufficio. Sono passata solo per prendere dei documenti.

Ti lascio i soldi per la pizza e mi raccomando, non esagerare come tuo solito con la mancia» concluse la donna mimando due baci al vento e chiudendosi la porta d'ingresso alle spalle.

Selene si annusò le ascelle, storcendo le labbra.

Non le sembrava di aver sudato tanto mentre riparava il tubo che perdeva condensa.

 

Selene aveva appena terminato un delizioso bagno caldo, quando il suo BlackBerry rosa intonò le prime note del requiem di Chopin.

Era il giudice.

«Pronto?».

«Tesoro, vai nel mio studio, sulla scrivania c'è una cartelletta verde.

Portamela al più presto!».

Clic.

Conversazione terminata.

«Prego» mormorò Selene stringendosi nell'accappatoio color pesca e raggiungendo lo studio.

 

La ragazza si fermò al semaforo rosso.

I suoi occhi si riflessero nello specchio retrovisore.

Non era grande quanto quello in camera sua, ma bastava.

«Non so se dovrei guidare... Non dopo quanto accaduto due anni fa» si confessò.

Il clacson dell'automobile in coda dietro di lei la riscosse dai suoi pensieri e Selene ripartì con il suo Picup grigio lasciatole da suo padre.

Per raggiungere lo studio di sua madre, ella doveva passare accanto ad un parco giochi.

I suoi occhi indugiarono sui bambini che giocavano.

 

Il cellulare squillava senza sosta all'interno della borsetta nera.

Selene accettò la chiamata.

«Dove sei finita?» la aggredì il giudice.

Selene non sapeva cosa rispondere, aveva la voce impastata.

«Io... Sto arrivando».

L'ultimo ricordo era riferito al parco... Perché ora si trovava al cimitero?

Il cuore di Selene prese a pulsare con maggiore rapidità.

Sentì le gambe venirle meno, così si sedette a terra, accanto ad una lapide.

Freneticamente frugò all'interno della big bag, estraendo uno specchietto porta-cipria.

Non era grande quanto il suo confidente, ma bastava.

Quando riconobbe il suo volto riflesso, Selene trovò conforto.

Trasse due respiri lenti, così da calmarsi.

«Eccoti qui» si disse con la dolcezza di una vecchia amica.

«Va tutto bene» aggiunse.

Spostò il volto così da vedere nello specchietto l'immagine delle sue labbra che formulavano quelle parole.

Dal 25 Ottobre 2009 le capitava di trovarsi in posti che non ricordava di aver raggiunto.

Trovava il segnalibro pagine più avanti rispetto a dove si ricordava di essere arrivata.

Trovava nell'armadio vestiti che non aveva comprato.

Soffriva di vuoti di memoria.

«Non sei pazza» disse lo specchio.

Selene annuì sorridendo convinta.

“Non sono pazza, sono solo distratta”.

Accennando una risata, Selene uscì dal cimitero e tornò in macchina.

Non aveva degnato di uno sguardo la tomba sulla quale si era appoggiata.

Se l'avesse fatto, vi avrebbe letto:

Selene Adams

17 Febbraio 1992 – 25 Ottobre 2009

Figlia e Sorella adorata

 

Selene parcheggiò nell'ampio spazio davanti all'immenso grattacielo dove lavorava il giudice.

Con pochi passi raggiunse il concierge dove ad attenderla si trovava un portiere diverso dal solito Frank, che la fermò.

«Signorina, posso aiutarla?» chiese scrutandola attentamente.

La ragazza era circondata da una folta criniera leonina castana, ribelle e selvaggia.

Gli occhi erano marroni, come cioccolato, circondati da lunghe ciglia rese nere dal mascara.

La visitatrice non era molto alta, ed aveva un fisico asciutto, minuto, come se dovesse infrangersi in mille pezzi come un vaso di vetro smerigliato.

La sua pelle era stranamente abbronzata per quella stagione dell'anno e l'uomo, calcandosi il berretto sul capo, si disse che probabilmente ella era la figlia di qualche riccone del grattacielo che le aveva pagato o una vacanza a Sydney o una seduta su un lettino abbronzante.

«Sono la figlia del giudice Sasha Adams.

Devo consegnarle dei documenti che ha lasciato a casa».

L'uomo la fissò ancora per qualche istante.

Poteva crederle o meno?

Oggigiorno anche i giovani sapevano mentire egregiamente.

«Devo avvisare. Come ti chiami?».

«Selene Adams».

Il portiere aggrottò le sopracciglia ed usò il telefono interno del grattacielo per comunicare con il diciannovesimo piano.

La segretaria del giudice rispose alla chiamata.

«Selene? È sicuramente uno scherzo.

La figlia del giudice è morta in un incidente stradale mesi fa» replicò la donna agitata.

Chi aveva osato giocare un tiro mancino simile ad una donna che aveva perso un figlio?

Nemmeno la concorrenza avrebbe potuto tanto.

“Glielo devo riferire” si disse la segretaria tornando alle sue mansioni.

Il portiere fissò Selene.

«Non puoi salire. E farai bene ad andartene se non vuoi che chiami la polizia!» tuonò indicando la grande porta a vetri con un braccio disteso.

Selene sgranò gli occhi.

Cosa stava vaneggiando?

Lei era la figlia di Sasha Adams.

Avvertì il cuore martellarle nel petto, sbattere forsennatamente contro le costole mentre la mente vagava nel passato, intaccato dalla fantasia di una personalità turbata.

«T-tenete comunque il documento» balbettò lasciando la cartelletta sul bancone ed uscendo di corsa dal grattacielo.

Con mano tremante infilò la chiave dell'automobile e uscì dal parcheggio.

Guidava senza nemmeno sapere dove stava andando, pregava affinché quella terribile emicrania che l'aveva colta quando aveva sentito le parole della segretaria di sua madre amplificate dall'interfono si placasse.

Immagini offuscate di un passato dimenticato si sovrapponevano alla percezione della realtà dei suoi occhi.

Improvvisamente un grosso cervo le tagliò la strada.

Selene sterzò a destra, andando fuori dalla carreggiata.

Il paraurti sbatté violentemente contro il tronco di un grosso larice.

La ragazza si voltò verso la strada, ma il cervo era sparito.

Piangendo posò entrambe le mani sul volante e vi adagiò sopra la testa.

La sua mente continuava a riproporle l'immagine di un incidente stradale e di una ragazza identica a lei con il corpo coperto di sangue.

Sangue, sangue che colava sulla camicetta bianca, sui jeans neri.

Selene scosse il capo, violentemente, come a voler cancellare quei ricordi.

«No! Basta!» urlò al vento.

Uno stormo di cornacchie volò via dalla quercia sulla quale era appollaiato, spaventato da quel grido disperato.

Il cellulare iniziò a squillare.

«Smettila!» gli intimò la ragazza, scossa dai tremiti, dai singhiozzi del pianto e dagli spasmi della paura.

La suoneria non si fermò, tuttavia.

Nonostante l'intimazione di Selene il telefonino continuava a squillare.

Esasperatamente Selene rispose alla chiamata.

Era il giudice.

«Cassandra, tesoro, Angelina mi ha detto... Eri tu, vero?».

Improvvisamente, come riscossa dal tono esitante e preoccupato della donna, Selene ritrovò la lucidità.

Si asciugò gli occhi e con voce ferma rispose: «Sì».

Dall'altro capo del telefono giunse un sospiro malinconico.

«La tua segretaria ha detto che sono morta».

Silenzio.

«Mamma?».

«Tesoro mio, vieni a casa: dobbiamo parlare. Ci... Ci vediamo dopo, va bene?».

Selene riagganciò.

Il suo sguardo era fisso sul tronco gigantesco che troneggiava davanti al parabrezza.

L'incidente di Ottobre...

Lei e sua sorella gemella, Selene, tornavano da un concerto.

Erano entrambe ubriache, ma Cassandra aveva ripetuto di sentirsi bene, che avrebbe potuto guidare fino a casa.

Era stata abbagliata dalle luci di un'auto del senso opposto ed erano andate fuori strada.

La macchina era rotolata giù fino a raggiungere una piccola depressione tra le colline della periferia di San Francisco.

Selene, seduta al lato del passeggero, era stata schiacciata da quella trappola di metallo che era la scatola della vettura.

Era morta.

Cassandra non era riuscita a sopportare il dolore, non poteva credere di aver ucciso la sua adorata gemella.

Lei era sopravvissuta, mentre Selene era morta.

Quale giustizia c'era nella vita?

Inconsciamente la sua mente aveva riportato l'equità, aveva ricostituito le cose come sarebbero dovute essere.

La sua mente aveva ucciso Cassandra, per far rivivere Selene.

All'insaputa di sua madre, che non si era accorta di nulla, Cassandra aveva vissuto una vita segreta.

Un'esistenza parallela alla vita della sua famiglia.

«IO SONO SELENE!» gridò picchiando i pugni sul volante, facendo suonare il clacson.

Il rumore echeggiò per la strada statale che costeggiava San Francisco.

Era la stessa strada dove erano morte.

Dove il corpo di Selene aveva cessato di vivere, dove l'anima di Cassandra era spirata.

Dove era stata partorita una nuova vita.

Cassandra ora ricordava ogni cosa.

Scosse il capo.

«Non ti lascerò morire ancora» mormorò.

Cercò il suo viso nello specchio retrovisore del Picup.

Il viso di Selene.

«Te lo prometto» aggiunse.

Ora che rammentava, non ci sarebbero stati più vuoti di memoria perché l'omicidio inconscio di Cassandra ora stava per divenire una scelta definitiva.

Cassandra avrebbe annientato la sua anima per far rivivere Selene, così come era successo nei mesi successivi all'incidente, fino a quel giorno.

Innanzi a sua madre avrebbe finto di essere Cassandra, ma in cuor suo avrebbe continuato a sentirsi Selene.

Avrebbe vissuto una doppia vita.

Avrebbe dedicato a Selene una vita segreta.

   
 
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