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Autore: Kary91    07/02/2012    12 recensioni
La luce delle stelle si divise in quattro. Quattro pareti di luce dentro le quali non esistevano vampiri, fantasmi, qualsiasi tipo di creatura sovrannaturale. Quattro pareti, quattro facce: le facce di una piramide.
Mini long di 5 capitoli,ambientata durante il periodo di Jeremy a Denver
***
A Denver era riuscito a scrollarsi via un po’ di detriti appartenuti alla sua adolescenza crollata. Jeremy si era alzato in piedi sulle macerie in equilibrio precario, e aveva incominciato a ricostruire qualcosa di nuovo; un pavimento. Una base.
Eppure, un quadrato di pietra, per quanto fosse solido, non era sufficiente per metterlo al riparo dalle percosse del vento, dai detriti, dalle schegge di pensieri tormentati che continuavano a ferirlo, agitate dai sensi di colpa e dagli incubi.
Aveva creduto di essere finalmente al sicuro, ma si sbagliava; fisicamente era forse a casa, me dentro di sé era ancora intrappolato nella tormenta.
[Era caduta la notte.
Su di una stella, un pianeta, il mio, la Terra, c'era un piccolo principe da consolare. (cit. Il Piccolo Principe)]
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Jeremy Gilbert, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'It calls me home.'
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Capitolo uno. – La base –

 

‘Bisogna essere molto pazienti.

In principio tu ti siederai un po’ lontano da me, così, nell’erba.

Io ti guarderò con la coda nell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi.

 Ma ogni giorno, tu potrai sederti un po’ più vicino…

Da Il piccolo Principe.

 

Howie Goldman non era mai stato un grande amante della compagnia; gli piaceva trascorrere le giornate a spulciare il giornale sulla poltrona del soggiorno - la televisione accesa, ma con il volume al minimo – al riparo dalla confusione che dirigeva Denver fuori dal suo appartamento: non gli era mai piaciuta, quella città.

Lui e sua moglie Demetria, non avevano sempre vissuto nella metropoli; Mystic Falls era stato il luogo in cui si erano conosciuti, e quello in cui avevano cresciuto la loro unica figlia, Delia. Ma in seguito alla morte del genero, la coppia ormai anziana si era vista costretta a trasferirsi a Denver, per aiutare la figlia nella gestione della piccola libreria di cui era proprietaria.

A dieci anni di distanza, la libreria era ormai chiusa; Delia aveva deciso di lasciarsi tutto alle spalle, abbandonando Denver per trasferirsi a Washington. Demetria e Howie si erano così trovati soli; soli in una città troppo rumorosa e troppo grande, per due persone anziane come loro.

Il giorno in cui Jenna Sommers li chiamò per informarli della morte di Miranda e Grayson Gilbert, fu Demetria che prese la telefonata. La cattiva notizia fu un brutto colpo per la coppia; i due coniugi erano sempre stati molto legati ai Gilbert. Conoscevano da sempre la madre di Miranda e Jenna, e quando la maggiore delle due si sposò, finirono per affezionarsi anche al resto della sua famiglia: il marito Grayson e i due figli, Elena e Jeremy. Per Demetria, venire sapere che quei due ragazzi erano rimasti senza una famiglia fu terribile, ma non pensò mai di adottarli. Lei e Howie erano troppo anziani per gestire due ragazzi, e non le sembrava giusto costringere due adolescenti a cambiare scuola, e allontanarsi dai loro amici, dal luogo in cui erano cresciuti – dopotutto a Mystic Falls, avevano ancora una zia -.

 

Eppure, quando Elena telefonò loro a un anno di distanza dall’accaduto, Demetria non esitò nemmeno un istante nell’accettare di ospitare Jeremy per qualche tempo. L’appartamento che condivideva con il marito era piuttosto grande, disse, senz’altro non avrebbero avuto problemi a trovare un po’ di spazio anche per il ragazzo. In quanto a Howie, il vecchio si era limitato a stringersi nelle spalle, e a ritirarsi in uno dei suoi misteriosi silenzi.

 

Ora che Jeremy era con loro, l’uomo si era reso conto che la sua presenza non destava poi troppo fastidio alla sua routine da persona anziana e solitaria. Il ragazzo non si faceva vedere spesso: scendeva in cucina per i pasti, e la sera domandava a Demetria se c’era qualcosa che potesse fare – lavare i piatti, portare fuori la spazzatura – per rendersi utile in qualche modo. Howie aveva preso l’abitudine di osservarlo di sottecchi, quasi cercasse di scovare nel suo volto i segni di un cedimento, tracce di sofferenza, di tristezza, di malinconia. Spesso finiva per fissarlo con così tanta insistenza, che la moglie era costretta a farlo desistere con una gomitata, specialmente nel notare l’impaccio interdetto dell’adolescente.

 

Nonostante l’atteggiamento insolito e i silenzi imbarazzanti che si arrampicavano spesso tra lui e l’anziano compagno di appartamento, Jeremy si trovava bene con i due coniugi Goldman. Dopotutto, lui stesso non era mai stato un gran chiacchierone, e inoltre trovava quell’appartamento confortevole, così come la sua stanza. Demetria non insisteva mai, non era invadente, eppure riusciva sempre a trovare il modo di dimostrarsi attenta e premurosa. A volte si limitava a raccogliere i panni sporchi che lui aveva preso ad ammonticchiare con imbarazzo in valigia, nella speranza che lei non li avrebbe visti: non gli sembrava giusto, che arrivasse addirittura a fargli il bucato. Ma a Demetria non dava fastidio; dopotutto non aveva poi molto da fare oltre a sedere di fronte alla tv e sfogliare qualche vecchio romanzo con aria nostalgica – fin quando gli occhi tenevano - ; e poi le piaceva avere un po’ di compagnia.

Howie, d’altro canto, aveva un modo quasi buffo di comunicare con l’adolescente. Erano piccoli gesti, i suoi, che facevano spesso spuntare un sorriso interdetto a Jeremy, a metà tra il divertito e il riconoscente. C’erano delle fisse insolite che aveva, come il fatto di domandargli la sera se avesse bisogno di un bicchiere d’acqua, o il telecomando che passava immediatamente in mano al ragazzo, ogni volta che faceva ingresso in cucina.

Aveva poi l’abitudine bizzarra, di lasciargli pronta ogni mattina la ciotola del latte con dei cereali sul tavolino della cucina. Jeremy non se l’era mai sentita di rifiutare quel tipo di colazione, nonostante rimpiangesse l’abitudine di un buon caffè più di qualsiasi altra cosa. Per quello aveva iniziato a svegliarsi presto, le volte che ci riusciva, per poter fare un salto in caffetteria. Molto spesso, a quella sosta, seguiva una capatina al parco, dove il ragazzo si abbandonava pigramente su una panchina per una manciata di minuti al massimo. Giusto il tempo di terminare il suo caffè, osservando il fermento che perfino così presto, ornava le strade trafficate di Denver.

Se era fortunato, qualche volta, gli capitava di riconoscere le esclamazioni furibonde di una donna, costretta a scandagliare il parco in lungo e in largo alla ricerca di qualcosa – di qualcuno, in realtà. In quei momenti gli bastava aguzzare un po’ la vista o mettere in bella mostra il suo album da disegno, per sperare di veder spuntare presto fuori un ometto con i capelli scompigliati e le guance rosse per l’aver corso tanto.

 

“Ma non ci vai mai, a scuola?” aveva esclamato un giorno, individuando dietro un albero un faccino che lo scrutava con aria birichina.

 

“La scuola è per stupidi.” annunciò serio Alexander nascondendosi poi dietro di lui, per evitare lo sguardo della donna che lo stava cercando.

 

“Io invece sono furbo.”

 

Per qualche bizzarro scherzo del destino, Jeremy aveva scoperto che quel bambino rompiscatole abitava nel suo stesso palazzo, a qualche piano di distanza dall’appartamento dei Goldman. Shelby, la donna che almeno tre volte a settimana era costretta a rincorrerlo per tutto il parco prima di convincerlo ad andare a scuola, era probabilmente la baby sitter più sfortunata di Denver: ogni giorno Jeremy ridacchiava tra sé, domandandosi quanto avrebbe impiegato a decidere di licenziarsi.

 

“Mi stai dando dello stupido, lo sai?” dichiarò allungando una gamba sotto la panchina, per fingere di pestare la mano del bambino. Xander rise, schiaffeggiandogli la scarpa.

 

“Non è vero, neanche tu sei a scuola!” ribattè voltandosi poi di scatto, lasciandosi cadere nell’erba appena umida.

 

Ma ci andrò fra qualche minuto.” Spiegò il ragazzo passandosi la tracolla da un lato all’altro della spalla.

 

Mentre eseguiva quell’operazione, la fece ondeggiare, quasi a volersi assicurare che non fosse vuota: tastò la superficie del suo album da disegno e tornò a rifugiare le mani in tasca, sollevato. Aveva ricominciato a disegnare spesso, proprio come un tempo. Disegnava le cose che lo facevano sorridere e quelle che si limitavano a destarlo dai pensieri scomodi, catturando la sua attenzione: due vecchi appollaiati su un muretto, un bambino che giocava con il cane, le stelle. E piramidi, per la felicità del suo piccolo amico. Ormai era diventata un’abitudine: disegnava piramidi in maniera convulsa, come un tempo aveva preso l’abitudine di disegnare i volti affilati dei vampiri. Non sapeva nemmeno lui, per quale motivo lo facesse. Forse voleva solo far divertire un po’ quel bambino o forse trovava rilassante potersi dedicare a qualcosa che non fosse complicato, qualcosa che non avesse fronzoli.

Le piramidi erano facili da disegnare: avevano una base, delle facce e un vertice. Tutto lì; non bisognava aggiungere nulla.

 

Ma c’era qualcos’altro a cui aveva iniziato a lavorare nel corso dell' ultimo periodo: un ritratto. Le sue mani si erano messe a disegnare prima ancora che lui potesse rendersene conto, uno del rari pomeriggi in cui Alexander sembrava non avere la minima intenzione di venire a conversare con lui.

La verità era che la tranquillità di quell’ambiente, e il fatto che lui avesse incominciato ormai ad affezionarsi a quel ragazzino, non erano gli unici motivi che spingevano Jeremy a visitare il parco in maniera sempre più frequente. C’era anche qualcos’altro: c’era una ragazza.

 

L’aveva notata subito, nonostante inizialmente avesse faticato a individuarla fra i passanti – sempre troppi, sempre di fretta – al fondo del parco. Non veniva sempre; c’erano giorni in cui la notava spesso, appoggiata alla recinzione o appollaiata sullo schienale di una panchina, altri in cui non sarebbe riuscito a trovarla nemmeno se avesse trascorso il pomeriggio a cercare. Ogni tanto faceva comparsa la mattina presto, a volte, invece, Jeremy era costretto ad aspettare fino a tardi per vederla. Certi giorni, non veniva e basta.

 

Il motivo per cui si ostinasse a individuare la sua presenza in mezzo a tutti quegli sconosciuti, era un mistero per lui. Eppure, sin dalla prima volta che l’aveva notata in quel parco, aveva avuto l’impressione che anche lei lo stesse tenendo d’occhio. I loro sguardi si erano incrociati solo un paio di volte, ma Jeremy era convinto che non fosse successo per caso; un giorno, lei gli aveva perfino sorriso, di questo era sicuro. L’aveva colto talmente alla sprovvista, che non era nemmeno riuscito a ricambiare.

Da allora aveva cercato più volte di ristabilire quel contatto visivo: aveva voglia di guardarla di nuovo negli occhi. C’era qualcosa in quelle iridi chiare, che lo attraeva, spingendolo ad ammirare il modo in cui il suo sguardo apparisse così luminoso,così vivace: così vivo.

 

“Puoi restare qui, se vuoi. E non andare a scuola.” Propose a quel punto Alexander, distraendolo dai suoi pensieri. Il bambino si convinse finalmente a tirarsi su da terra e prese posto accanto a lui.

 

 

“Così mi aiuti a costruire la mia piramide.” specificò incominciando a frugare nella sacca di Jeremy.

 

“Giù le mani, Tutankhamon.” lo rimbeccò il ragazzo riappropriandosi dello zaino.

 

“Ancora con questa storia della tua piramide?” soggiunse poi tirando fuori quello che il bambino stava cercando.

 

“Non mi chiamò tuntancamon.” brontolò il ragazzino, tendendo poi avidamente le braccia in direzione dell’album da disegno.

 

“Sto costruendo la base.” aggiunse, infilando le braccia tra quelle di Jeremy, per cercare di fargli voltare le pagine più in fretta.

 

“Poi, quando è finita, mi metto a fare le parti. Che sono le facce in realtà; e sono quattro… Jeremy?” domandò improvvisamente lasciando perdere il blocco da disegno; balzò a terra.

 

Il ragazzo si alzò a sua volta, pronto a dirigersi verso scuola.

 

“Che cosa c’è?” si arrese comunque, concedendo un sorriso divertito al ragazzino. Alexander gli rivolse un’occhiata furbetta e incrociò le braccia sul petto.

 

“Chi è quella?” domandò senza indicare nessuno. Il ragazzo aggrottò le sopracciglia, confuso, sistemandosi la tracolla sulla spalla.

 

“Quella chi?” domandò inginocchiandosi, per essere all’altezza del bambino. Xander gli fece cenno di avvicinarsi, cosicché potesse parlargli in un orecchio.

 

“Quella la femmina che guardi sempre, no?” gli sussurrò prima di scuotere il capo con aria incredula.

 

“Oh, sei proprio tonto!” annunciò poi, battendosi una mano sulla fronte.

 

Jeremy gli rivolse un’occhiata interdetta, non sapendo se sentirsi offeso per quella constatazione o se stupirsi del fatto che un bambino così piccolo avesse notato una cosa simile.

 

“Io non guardo proprio nessuno.” decise di ribattere infine tornando ad alzarsi in piedi, lasciandosi poi sfuggire un’occhiata verso il cancello del parco; lei non c’era, ma se lo aspettava. In genere il martedì arrivava la mattina molto presto, e aveva già controllato più volte in quella direzione o altrove, ma non l’aveva individuata.

 

“Ah, si?” Xander lo rimbeccò con espressione da discolo, prima di sfilargli in fretta l’album dalle mani.

 

“E allora, questa femmina qui, chi è?” domandò indicandogli con dito l’ultima immagine del blocco.

 

Era, in effetti, un abbozzo di viso femminile.

 

Ma tu…” sorpreso, il ragazzo si riappropriò dell’album, cacciandoselo poi in fretta nello zaino.

 

Ma che impiccione che sei.” concluse infine scoppiando a ridere, sotto lo sguardo divertito del bambino. Il visetto di Alexander si illuminò.

 

“Mi stai più simpatico quando ridi e non mi chiami tuntancamon.” commentò aggrappandosi a una manica del ragazzo.

 

“Allora chi è?” insistette poi tornando a riferirsi alla ragazza del ritratto. Jeremy sospirò.

 

“Questa “femmina” non esiste, così come non esiste la piramide che stai costruendo tu.” lo rimbeccò con un sorriso, dandogli poi le spalle per avviarsi verso l’uscita del parco.

 

Alexander si posò le manine sui fianchi e squadrò la schiena del ragazzo con aria di sfida, prima di esclamare:

 

“Si che esiste! E io so anche chi è, sta nel palazzo vicino a noi!”

 

Jeremy si fermò all’istante, stupito, incredulo. Diffidente.

Eppure, si voltò lentamente verso il bambino, scrutandolo con aria attenta.

 

“Sentiamo.” commentò infine, allargando le braccia in un cenno di resa. Era convinto che il piccolo stesse semplicemente cercando di giocargli un tiro mancino, eppure la curiosità nei confronti di quella ragazza era troppo forte, perché riuscisse ad ignorare le parole di Xander.

 

“Che altro sapresti dirmi su di lei?”

 

Il bambino si avvicinò a Jeremy a grandi falcate, sempre con le mani sui fianchi. Gonfiò le guance in una smorfia e infine si decise a parlare.

 

“Si chiama….” Incominciò scoccandogli un’occhiata malandrina, prima di voltarsi di scatto e di tornare indietro sui suoi passi.

 

…Non te lo dico!” annunciò in tono di voce serio, allontanandosi a passi decisi in direzione della sua baby sitter – che poverina, tirò un sospiro di sollievo nell’individuarlo -.

 

Jeremy avvertì la delusione punzecchiarlo con insistenza.

 

“Sei un piccolo bugiardo.” costatò, pur continuando ad avvertire con fastidio il dubbio farsi strada dentro di lui.

 

 “Dai, Xander, sputa il rospo!” si trovò a supplicare infine, affrettando il passo per raggiungerlo e mandando a stendere l’orario quasi impeccabile con cui nell’ultimo periodo era riuscito a presentarsi a lezione. Xander scosse il capo cocciutamente, continuando a marciare in direzione della donna.

 

“Te lo devi scoprire da solo. Chiediglielo, no?” propose, sollevando le mani per aria con fare spazientito.

 

“Xander, torna indietro, dai! Dimmi solo il nome!”

 

Alla fine ci rinunciò; probabilmente, in fondo, era tutta una messa in scena del bambino. E Jeremy non poté fare a meno di sentirsi uno stupido, rimuginando su quanto spesso, nell’ultimo periodo, avesse incominciato a dare corda alle farneticazioni di un ragazzino. Scoccò un’occhiata rapida al cellulare, e si decise finalmente a tornare sui suoi passi, dirigendosi verso l’uscita.

 

Analizzando con sguardo assente la staccionata, i suoi pensieri si spostarono nuovamente in direzione di quella ragazza. Si domandò se un giorno o l’altro sarebbe mai riuscito ad avvicinarla, a parlarle. Voleva sapere il suo nome. Voleva domandarle se l’avesse sul serio sorpresa a fissarlo o se fosse stato tutto un bizzarro gioco della sua immaginazione.

 

E decise che sì, un giorno si sarebbe fatto coraggio e gliel’avrebbe chiesto. Poteva farcela, si disse. In fondo, da quando era arrivato a Denver, qualcosa lo spingeva a considerare che in quella metropoli, avrebbe potuto finalmente trovato spazio per realizzare tutto ciò che voleva.

 

Che fosse semplicemente accoccolarsi sui gradini del suo palazzo con una birra in mano o frequentare un corso d’arte. Tutto.

Non sapeva spiegarsi quella sensazione; ma sapeva che era reale.

Reale quanto il sole, timido, ma luminoso che stava incominciando a infastidirgli gli occhi. Reale come lo scricchiolio della ghiaia sotto le sue scarpe.

 

“Si chiama Hazel.” un sussurro lo colse di sorpresa, costringendolo a voltarsi. Xander gli sorrideva malandrino, le mani allacciate alle bretelle del suo zainetto.

 

“Quando ci parli, le chiedi se vuole aiutarmi a costruire la mia piramide?”

 

Il sorriso si arrampicò con facilità anche sulle labbra di Jeremy.

 

Hazel.

 

Ripetè quel nome nella sua testa, quasi a volerne assaporare la pronuncia.

 

Si chiamava Hazel.

 

 

“Grazie, Tutankhamon.” esclamò, mentre la sua mano correva ad arruffare i capelli del bimbetto. Gli diede le spalle e prese a incamminarsi verso la scuola, il sorriso ancora evidente sul suo volto.

 

Alexander sbuffò, infastidito.

 

“Non mi chiamo Tuntancamon!” gli gridò dietro ancora una volta, osservandolo mescolarsi alla massa di persone che accoglieva i passanti sui marciapiedi. Lo rincorse per una decina di metri, ma alla fine si arrese, fece una smorfia e tornò indietro.

 

Jeremy, nemmeno se ne accorse.

 

***

 

 

Una settimana più tardi, il ragazzo era seduto alla solita panchina, la sacca abbandonata a terra e il blocco da disegno sulle gambe: la matita in pugno. Il parco era ormai diventato la sua meta fissa ogni pomeriggio, escluse le rare volte in cui si convinceva a partecipare agli incontri del club di disegno della scuola.

 

Jeremy allungò le gambe e posò la matita sul foglio, per concedersi cinque minuti di pausa. Era uno di quei pomeriggi in cui le urla dei bambini risultavano alle sue orecchie meno voluminose, e la calca di persone meno folta: in quei momenti, l’atmosfera del parco appariva ancora più rilassante, per lui.

 

Istintivamente, il suo sguardo saettò in direzione del cancelletto d’ingresso, spostandosi poi di qualche metro lungo la staccionata; aspettava qualcuno.

 

Dopo tutto quel tempo trascorso a ritrarre una ragazza che non conosceva, pensava di saper ormai riconoscere i momenti della giornata in cui avrebbe potuto trovarsi a incrociare il proprio sguardo con quello della giovane sconosciuta. Sapeva che a volte lei veniva lì sin dalla mattina presto, mentre altre non si faceva vedere se non la sera. Il mercoledì continuava a essere un mistero, per lui. La ragazza passava solo a volte, e sempre a orari diversi: in quei giorni, Jeremy si guardava attorno con apprensione, abbandonando amareggiato la schiena contro la panchina quando lei non si presentava o sorridendo, quando all’improvviso la scorgeva accoccolata sotto un albero.

 

Quel particolare pomeriggio non era un mercoledì. Jeremy si era aspettato di individuare in fretta la ragazza, ma aveva dovuto smentirsi: lei non c’era.

 

Era deluso. Non si erano mai nemmeno rivolti la parola, eppure Jeremy aveva il sospetto che la giovane fosse ben più che consapevole dell’interesse che nutriva nei suoi confronti. Più volte i loro sguardi si erano scontrati; più volte, lei gli aveva sorriso e lui aveva finalmente avuto modo di ricambiare, prima che la sconosciuta tornasse a ignorarlo, rivolgendo la sua attenzione altrove.

 

Ad aggiungersi a questo, Jeremy era convinto che la ragazza stesse incominciando a sedere un po’ più vicino, rispetto a lui. Giorno dopo giorno, il suo sguardo lo attirava da una distanza sempre meno accentuata. Per quel motivo, Jeremy si ostinava a sostare sempre sulla stessa panchina. Per quello, in quel particolare pomeriggio, era rimasto deluso dell’assenza della sconosciuta: per quanto gli costasse imbarazzo ammetterlo, in parte si sentiva tradito.

 

Impensierito e corrucciato com’era, quasi non si accorse dell’ombra che aveva improvvisamente oscurato il ritratto su cui ormai lavorava da settimane. Una voce lo raggiunse alle sue spalle, cogliendolo di sorpresa.

 

“Mi stai disegnando, ragazzino?”

 

Prima che avesse anche solo il tempo di reagire a quell’esclamazione, il suo cuore lo avvertì; accelerò i battiti, impreparato, e Jeremy ci mise un po’ a realizzare quale potesse esserne il motivo; alla fine, però, ci arrivò: era lei.

 

Lo seppe prima ancora di voltarsi, e di individuare il suo sguardo, gli stessi occhi tratteggiati sulla carta, intento a scrutarlo con aria attenta.

 

Era lei; i dieci metri di alberi e panchine che solevano dividerli, erano improvvisamente scomparsi.

 

La osservò inarcare un sopracciglio e non riuscì a non sorriderle, pur rendendosi conto che forse avrebbe fatto meglio a risponderle, invece che perdere tempo a fissarla.

 

“Non credevo avrebbe dato fastidio.” riuscì fine ad affermare, mentre la ragazza appoggiava i gomiti sullo schienale della panchina, per osservare meglio il suo ritratto. Non sembrava irritata, in fondo.

 

“Chiedere il permesso prima, sarebbe stato carino.” commentò, tendendo schiettamente una mano in direzione dell’album da disegno: Jeremy glielo porse senza obiettare.

 

Per un attimo si trovò a considerare il fatto che i suoi incontri al parco girassero continuamente attorno a quel blocco di fogli. Bizzarro, ma non più di tanto, se paragonato a ciò con cui aveva imparato a convivere nel corso dell’ultimo anno.

 

“Non male.” la ragazza giudicò infine, restituendogli l’album senza guardarlo. 

 

“Hai visto di meglio?” le domandò a bruciapelo Jeremy, ormai abituato alle esclamazioni poco colpite di Alexander, ogni volta che terminava un nuovo disegno.

 

La ragazza mantenne un cipiglio critico ancora per qualche secondo, ma quando il suo sguardo si spostò a coincidere con quello del giovane, accennò a un sorrisetto.

 

“Mio padre era un artista.” ammise dandogli le spalle, appoggiandosi con i gomiti alla panchina. “Disegnava molto bene.”

 “E tu, invece?” continuò a domandare Jeremy, voltandosi verso di lei.

 “Io?” la ragazza tornò a scrutarlo con aria divertita.

Fai tante domande.” esclamò infine, focalizzando la sua attenzione verso un gruppetto di bambini che giocava poco distante. Jeremy non riuscì a capire se lo stesse rimproverando, o se la sua fosse una semplice connotazione.

 “Perché voglio conoscerti.” ammise, osservandola con insistenza. “E forse anche tu.” azzardò infine con un pizzico di esitazione in più, decidendosi a vuotare il sacco.

 In seguito alla sua dichiarazione, la ragazza si convinse a incrociare nuovamente il suo sguardo. Dapprima a Jeremy sembrò quasi sorpresa, ma il guizzo divertito che fece capolino tra i suoi occhi poco dopo, lo mise a disagio.

 “Ti credi così interessante?” domandò la giovane, estendendo il suo sorriso. Jeremy si accorse di essere sul punto di arrossire, ma non si arrese.

 “So che mi osservi quando sono qui al parco. Ti ho vista.” aggiunse, innervosendosi appena: prima di pronunciarla, quella frase gli era sembrata a posto, eppure, adesso che aveva aperto bocca, risuonava quasi ridicola.

 Si convinse che la ragazza stesse pensando lo stesso, perché il suo sorriso si trasformò in una risata. La sua reazione, tuttavia, non lo infastidì; c’era qualcosa di contraddittorio nel modo in cui lo guardava, rispetto al suo atteggiamento; c’era un brillio particolare nel suo sguardo che suggeriva interesse, ed era certo che non lo stesse solo immaginando.

“Ti osservo, perché mi fai ridere.” rivelò infine la ragazza,convincendosi finalmente a sfilarsi l’auricolare delle cuffie che  ancora pendeva dal suo orecchio

 “Specialmente i primi giorni: sembravi un animaletto sperduto.”

 Jeremy incassò le sue parole con aria sorpresa, ma decise di stare al gioco.

 “In questo caso, avresti potuto darmi una mano.” ribattè, accennando a un sorrisetto. Adesso che la ragazza si era finalmente decisa a mantenere il contatto visivo con lui, sembrava che nessuno dei due avesse intenzione di distogliere lo sguardo.

La giovane inarcò un sopracciglio.

“E per quale motivo?” domandò. “Non ti eri perso.” aggiunse poi, marcando la nota di divertimento nel suo sguardo.

Rivolse la sua attenzione all’album da disegno del ragazzo, e incuriosito, Jeremy fece altrettanto: l’ultimo foglio, quello in cui aveva tratteggiato il ritratto, aveva un lembo spiegazzato – non faticò ad intravederci lo zampino di Xander – e parte del disegno nella pagina precedente era individuabile assieme alla prima. Jeremy sapeva che là sotto doveva trovarsi l’ennesimo abbozzo di una piramide, ma l’orecchio a bordo del foglio, ne rendeva visibile solo la base.

 “Però adesso sei qui.” Commentò infine, tornando ad osservare la ragazza; lei non lo imitò. Gli diede le spalle, sbirciando in direzione del cielo, che stava incominciando ad annerirsi.

 “…Hazel.” Aggiunse il giovane, decidendo di rischiare. Il suo nome, il nome di una persona che aveva tenuto d’occhio per giorni senza mai avvicinarla, finì per dargli i brividi, nel momento in cui lei sollevò il capo. Gli occhi azzurri della ragazza puntarono diritti a lui, scavando nel suo sguardo: Xander non aveva mentito; era lei. Era Hazel.

 “Per caso mi spii, ragazzino?” la sua espressione si era fatta sospettosa, ma Jeremy non se ne curò.

 “Non penso di essere molto più giovane di te.” ribattè, osservandola con un accenno di sorriso.

 “Quelragazzino’ inizia a starmi un po’ stretto.”

 Hazel si limitò a sorridere a sua volta, tornando a scrutarlo con un cipiglio divertito.

 “Te lo dovrai tenere ancora per un po’.” rispose osservandolo a lungo, prima di decidersi a sollevare i gomiti dalla panchina. “A me sembri proprio un ragazzino.”

 “Non sono un ragazzino, ho un lavoro.” si trovò a ribattere il ragazzo, senza aver tempo di accorgersi del suo strafalcione. Lei, invece, sembrò notare subito l’espressione perplessa del ragazzo, e inarcò un sopracciglio nella sua direzione.

 “Avevo.” si sorprese ad ammettere Jeremy, arrossendo appena. Tuttavia sorrise, quando si accorse che l’espressione di Hazel era tornata a farsi divertita.

 “Visto?” commentò la ragazza ricambiando il sorriso, infilandosi poi le mani nella tasca della felpa.

 Si allontanò di qualche passo dalla panchina, e Jeremy si alzò in fretta, turbato.

 “Aspetta!”

 Hazel allargò le braccia, come ad invitarlo a proseguire, ma lui non continuò:Jeremy era bloccato.

 C’erano diverse cose che avrebbe voluto chiederle. Interrogativi rimasti senza risposta si rincorrevano, nella speranza di farsi notare da lui. C’erano minuti che avvertiva il bisogno di riempire con lei al suo fianco, ancora quella sera. Che lo prendesse in giro, o gli sorridesse, poco importava.

C’erano frasi, diverse frasi, che avrebbe potuto pronunciare per convincerla a restare ancora un po’. Giusto il tempo di conoscerla; di convincersi che sarebbero tornati a parlarsi a quel modo anche il giorno successivo. E quello seguente. Ogni pomeriggio un po’ più a lungo, senza nemmeno rendersene conto.

Avvicinandosi, piano piano.

 

 

“Tu, fino a ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini.

Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro.

Tu sarai per me unico al mondo, e io sarà per te unica al mondo.”

 

da Il Piccolo Principe

 

 

Eppure in quel momento, tutto quello che gli passava per la testa finì per sembrargli incredibilmente ridicolo, e decise di spazzare via il tutto.

 Lasciò perdere, tranne che per un’unica domanda.

 “Non vuoi sapere nemmeno il mio nome?” chiese, arrischiandosi a fissarla con insistenza. Ancora una volta, Hazel lo osservò a lungo, e Jeremy si sforzò di restare impassibile, nonostante avesse incominciato a domandarsi se lei lo trovasse divertente, anche quando faceva la figura del perfetto idiota.

 “Come ho detto prima…” incominciò la ragazza, tornando a sorridergli. “Fai decisamente troppe domande.”

 Analizzò l’espressione perplessa del giovane e si mise a ridere, prima di incominciare a dirigersi verso l’uscita del parco, questa volta per davvero.

 “Ci vediamo, Jeremy.” Esclamò, dandogli le spalle.

 Il ragazzo aprì la bocca per ribattere, ma non ci riuscì. Sorrise, infilandosi le mani in tasca e recuperando poi l’album da disegno che aveva abbandonato sulla panchina.

 Durante il tragitto verso casa, si sorprese più volte a ridere fra sé, ripensando all’incontro appena avuto. Rideva, e pensava a lei. Al modo in cui alla fine si erano conosciuti; rideva, e pensava a cosa gli avrebbe detto l’indomani, o il giorno in cui si sarebbero incontrati di nuovo. Si domandava in quale modo le avrebbe chiesto come mai conoscesse il suo nome.

 Il viso da monello di Alexander si frappose fra i suoi pensieri, invitandolo a ridere di nuovo:non faticava ad immaginare che anche in quel dettaglio, dovesse esserci il suo zampino.

 Allungando il braccio per suonare il citofono, la sua mano si fermò all’altezza del suo blocco da disegno. Jeremy osservò il ritratto di Hazel e sorrise, ma quasi subito tornò indietro di una pagina; quella piramide che aveva disegnato per Xander – l’ennesima – era forse la più precisa fra quelle che aveva tratteggiato fino a quel momento. Nell’osservarla, si ricordò di ciò che gli aveva detto il bambino qualche giorno prima: per costruire la sua piramide, era partito dalla base.

 Per un attimo, il pensiero di Jeremy si mosse in direzione dei Goldman. Passò poi in rassegna i luoghi che nell’ultimo periodo avevano costituito per lui la quotidianità; l’ appartamento all’ultimo piano, la scuola, il parco.

 ensò al corso d’arte, a Hazel, e alle corse di Alexander che intravedeva la mattina presto, dopo essersi recato in caffetteria.

 Con un sorriso e un’insolita sensazione di appagamento agli angoli del suo stomaco, Jeremy si trovò a pensare che anche lui, in fondo, aveva incominciato a costruire la sua base.

 

 

 

Nota dell’autrice.

 

Capitolo uno! *yay*

In realtà questo mi convince meno del prologo. Sarà che ci sono un mucchio di descrizioni e poco dialogo, non so. Anyway ci ho tribolato troppo, e avevo bisogno fisico di lasciarmelo alle spalle in questi giorni, e così eccolo qui. E poi, la Mary mi sta dicendo in questo momento che devo fidarmi del suo giudizio, quindi non posso che fare altrimenti e condividere questa nuova parte. *spupazzola la beta*

Dunque, due notine veloci:

Nota uno! I tre capitoli, come potete notare da questo primo, fregheranno il nome alle tre parti della piramide tanto importanti per Xander: la base, le facce e il vertice. C’è un motivo, ovviamente, lo si vedrà man mano che andiamo avanti.

Nota due: sparsi qua e là per il racconto, ho cercato di mettere in risalto dei dettagli che alludono al soggiogamento di Damon e il relativo discorso che fa a Jeremy: dettagli come la birra, il corso d’arte, e gli occhi di Hazel che gli paiono “vivi” (riferimento alle “living girls” XD), così come il fatto che lui senta di poter fare “quello che vuole”. Il continuo appellarsi di Haze a Jeremy con “ragazzino”, fa  riferimento al Piccolo Principe, e in particolare alla citazione che ho inserito nel racconto. E poi gna, niente, lei è fatta così <3

Che altro aggiungere? I Goldman al principio. Mi sembrava giusto presentare le persone che hanno accolto Jeremy, e soprattutto, ho provato a dare una mia interpretazione circa l’esclamazione che il mondo borbotta di continuo da quando Jer è partito “ Se avevano degli amici di famiglia, perché non si sono presi cura loro di Jeremy e Elena?” E via dicendo, ecco, io ho provato a immaginare il tutto così.

Penso di aver detto tutto. Mal che vada, appiccicherò qualche p.s., tanto lo sapete che sono fatta così.

Grazie per aver letto il prologo. Pyramid mi sta a cuore forse anche più di HR, quindi vi ringrazio infinitamente.

Un abbraccio

Laura

 

   
 
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