Ombra
e
Cipria
Tra le pareti di
stoffa del tendone del
circo serpeggiava una strana tensione.
Himmel
l’Arcimago si tamponò il volto con cautela,
cercando di non rovinare il lavoro
della truccatrice.
Non
riusciva a
dare una spiegazione logica a quell’ansia lieve che gli
strisciava lungo la
spina dorsale, facendolo rabbrividire: le prove del pomeriggio erano
andate
bene, tutti gli artisti erano in buona salute e il pubblico sedeva in
trepidante attesa dell’inizio dello spettacolo.
I
suoi colleghi
stavano completando la loro vestizione con serena
frettolosità. Nessun
accessorio mancante, nessun trucco sparito, nessun bottone saltato:
trucchi,
bigiotteria e costumi erano in perfette condizioni, e mancavano ormai
pochi
tocchi perché la preparazione fosse ultimata.
Il
motivo della
sua inquietudine non si poteva quindi ricondurre ad un problema tecnico.
Passò
una mano
tra i capelli biondi, e pulì sul fazzoletto i residui di gel
che rimasero
incollati alle dita. La costumista aveva deciso di sfruttare le sue
radici
tedesche in un look da algido mago nordico, per cui gli aveva
acconciato i
capelli tirandoli all’indietro in una pettinatura seriosa,
aveva accentuato la
linea marcata degli zigomi con sapienti spennellate di fard e rimarcato
l’azzurro gelido dei suoi occhi con un trucco freddo sulle
palpebre. Il vestito
scelto per lui, ovviamente, era uno smoking rigido ed elegante, che, a
sentir
lei, gli conferiva l’aria carismatica del prestigiatore
consumato. Lui era
convinto di dare l’impressione di un tizio inciampato per
caso in un vestito
che non gli si addiceva per nulla, ma preferiva non mettere in dubbio
il duro
lavoro della donna.
«Sei
nervoso, Himmel?»
L’Arcimago
dovette abbassare lo sguardo per
individuare la fonte di quella domanda.
«Oh,
Celia. Non ti avevo sentita arrivare.»
«Sei
nervoso?»
«Perché
dovrei essere nervoso?» sviò lui con
una risata gracidante.
Celia
sbirciò da uno spiraglio dietro le
quinte la folla mormorante che ricopriva le gradinate. I riccioli scuri
le
ricaddero sul viso, così Himmel non vide quale espressione
passò sul suo volto
quando la bimba mormorò:
«Non
eseguire il numero della scatola
magica, oggi.»
Gli occhi
dell’Arcimago si spalancarono per
la sorpresa. La “scatola magica” era esattamente
l’esibizione che aveva deciso
di eseguire per quella sera: era il classico trucco in cui il mago
veniva
rinchiuso in una cassa bloccata da catene e lucchetti,
dopodiché la sua
assistente avrebbe cominciato a conficcarvi una serie di spade. Era un
numero
piuttosto vecchio, ma la gente ancora applaudiva meravigliata quando
l’illusionista riemergeva indenne.
«Non
posso, Celia. Ma non devi preoccuparti»
l’Arcimago la tranquillizzò con una carezza sulla
testa, oltre che con le
parole. «Abbiamo fatto le prove tante volte, andrà
tutto bene.»
Le spalle della
bambina si irrigidirono per
un istante, poi i suoi occhi scuri si puntarono su di lui.
«Tu
sei una brava persona, Himmel. Sei
sempre gentile con tutti» Celia prese la mano
dell’Arcimago che ancora stava
sui suoi riccioli e se la portò al viso. «Sarebbe
bello vederti fare il padre,
un giorno.»
«Celia,
parli come se stessi andando a
morire» cercò di sdrammatizzare Himmel. Il sorriso
che gli uscì, tuttavia, fu
estremamente artificioso, perché la preoccupazione di Celia
era troppo simile
alla sua per essere ignorata.
«Non
fare quel numero» lo pregò di nuovo lei.
Himmel non ebbe
il tempo di risponderle: uno
degli acrobati sbucò apparentemente dal nulla e lo
avvisò che era ora di salire
in pista.
«Aspettami
qui. Vedrai che andrà tutto bene»
fu il frettoloso saluto dell’Arcimago prima di sparire nelle
pieghe del circo.
La bimba rimase
immobile un istante, a
fissare contrita il punto in cui l’amico si era
volatilizzato. Poi girò la
testa verso destra per fissare un angolo di tenebre apparentemente
vuoto.
L’ombra
sembrò
sogghignare quando Celia vi appuntò i suoi occhi scuri.
Il
buio annidato
tra le increspature delle quinte parve contorcersi su se stesso,
dilatarsi e
allungarsi fino a raggiungere una forma umanoide.
«Riesci
a vedermi, piccola?»
La voce viscida
dell’essere le scivolò lungo
il collo come la carezza gelida di un serpente. Nonostante
ciò, Celia non
vacillò né nella postura né nella voce
quando rispose:
«So
anche che non sei bene intenzionato.»
Dall’oscurità
provenne un verso strozzato:
l’uomo, o qualunque cosa fosse, doveva aver trattenuto una
risata.
«Non
è con il tuo metro che puoi giudicare
le mie azioni, piccola» sibilò quella voce,
incorporea come se non fosse la gola
dell’individuo a produrla. Celia aveva la sensazione che le
parole venissero
formulate dalla nube cupa che lo avvolgeva e non dalle labbra esangui
che
apparivano a tratti, strappate alle tenebre da alcuni sprazzi della
luce
movimentata delle quinte.
«Farai
del male a Himmel» protestò Celia,
ergendosi in tutta la sua irrisoria statura.
«Per
evitare che lui stesso faccia del male»
si difese la creatura. Il ghigno satanico si dipinse in un bagliore di
luce,
per essere avviluppato dall’oscurità un secondo
dopo.
«Himmel
è buono e gentile con tutti» obiettò
la bimba. «Non potrebbe mai fare del male.»
«Alle
persone come lui, forse. Ma, per
quelli come me, è peggio di un cancro.» La voce
dell’uomo non veniva esalata
solo dalla caligine umbratile che lo circondava: protendeva i suoi
tentacoli
lugubri verso l’esile figura che gli stava davanti,
fasciandola con un’aura
agghiacciante.
«E chi
sarebbero quelli come te?» chiese Celia mentre sfregava le
mani tra di loro per
combattere la sensazione di gelo che si incuneava nelle fibre dei suoi
vestiti.
L’uomo
fece un passo avanti verso di lei.
Non lo sentì dal suono, poiché
quell’essere si muoveva con la silenziosità di
un fantasma, ma dall’aria intorno a lei che si fece
più fredda e più nera.
«Appartieni
alla mia stessa specie» c’era un
rallegramento perverso in quelle parole, una nota distorta che la punse
al
cuore. Qualcosa di appena più solido della nebbia
impalpabile e soffocante le
mosse i riccioli, e Celia realizzò di essere stata appena
accarezzata da
quell’individuo. «Per noi la magia non è
un gioco di abilità.»
Il vento di
ombre le scompigliò i capelli
quando l’essere si spostò alla sua sinistra.
«Noi
siamo i soli che possono farsi chiamare
“maghi” a giusta ragione.»
«Non
esiste la magia» lo contraddisse lei.
Un alito freddo
le fece rabbrividire la
guancia al sospiro dell’uomo.
«Questo
mondo banale ti sta contaminando,
povera piccola…» mormorò affranto.
«Osserva. Forse capirai.»
Dalla massa
mutevole di fumo cinereo si
delineò una mano scheletrica, le cui giunture
scricchiolarono come foglie in
autunno quando le dita si distesero. Le falangi ossute ebbero un guizzo
e, in
risposta al loro ordine muto, dal nulla giunse un crepitio. Trascorse
qualche
secondo e quello scoppiettio si tramutò in una lingua di
fuoco guizzante, che
prese a turbinare su se stessa come impazzita, ruggendo e rombando con
la
potenza di una tempesta.
Le
dita si
inabissarono di nuovo nella caligine tenebrosa e, nell’esatto
momento in cui
l’ultima di esse venne fagocitata dall’ombra, la
fiamma si arrestò, perse di
vigore ed infine si dissolse in una misera voluta di fumo grigio.
«Non
penso che i prestigiatori presenti in
questo circo saprebbero evocare il fuoco senza aver studiato un
trucco» si
compiacque l’essere.
«Saprebbero
fare cose molto più
impressionanti, dopo aver studiato un trucco»
confutò la bambina.
«Ma
sarebbe comunque un trucco!»
L’ombra
ruggì, e Celia sentì il cuore
esplodere: quell’urlo improvviso e impazzito non
rombò nelle sue orecchie ma al
centro del suo petto, frantumando tutto ciò che ostacolava
il suo cammino.
«Noi
siamo i veri maghi»
latrò l’individuo, colpendola con
un’altra ondata di
furore: le gambe della bimba quasi cedettero, e Celia si
aggrappò alla parete
di tessuto per non cadere. «Sono le persone come Himmel
l’Arcimago che umiliano
tutta la nostra specie! Per colpa loro, il mondo pensa che la magia non
esista,
e che gli unici incanti di questo mondo siano le cialtronerie di quegli
insetti!»
All’improvviso,
l’ombra smise di aggredirla:
le unghie invisibili che la laceravano si ritrassero e l’aria
si fece meno
soffocante quando l’uomo ritirò la sua offesa.
«Devono
sparire» terminò la creatura,
ritraendosi da lei.
«Sparire?»
«Non
con uno dei loro trucchetti» spiegò
l’essere. «In maniera definitiva.»
Un boato
deflagrò dalla pista: urla,
schiamazzi e rumore di gente in preda al panico si accavallarono
l’uno
sull’altro, mentre l’isteria imperversava nella
platea.
«Oh»
si deliziò l’individuo.
«L’Arcimago
deve aver scoperto che il suo doppiofondo non funziona. E la sua
assistente
deve averlo appena trafitto con la prima delle spade.»
«Sei
un mostro!» inorridì la piccola,
tappandosi le orecchie con le mani per non dover sentire la sinfonia
folle che
accompagnava la morte del suo amico.
Due occhi di
pece la fissarono. Celia era
sicura che quell’abominio la stesse guardando, e che le sue
iridi fossero scure
come un pozzo infernale.
«E’
giusto così, piccola» la indottrinò
lui,
lezioso. «Quando anche l’ultimo di questi
saltimbanchi sarà sparito, finalmente
la gente comincerà a capire che la magia vera esiste.
Hai idea di quanto sia mortificante sentirsi chiamare
“prestigiatore” quando in realtà sei uno
dei maghi più valenti della categoria?»
«Non
sei un mago!» strillò la piccola,
piangendo. «Sei un assassino!»
Uno stralcio
d’ombra si allungò verso di lei
e le sfiorò una gota: le lacrime che la rigavano si
congelarono all’istante
sull’epidermide, e si dissolsero in una brina polverosa.
«Tu
sei ancora piccola e non puoi capire»
bisbigliò l’uomo con la sua voce disanimata.
«Però anche tu sei una maga a
pieno titolo.»
La nebbia di
carbone intorno a lei si fece
più densa e più fredda, e la voce
dell’individuo echeggiò su tutto il suo corpo
quando lui le lasciò il suo ultimo ammonimento:
«Quando
sarai cresciuta, Celia, tornerò a
prenderti. Se avrai conservato i tuoi poteri, ti porterò con
me. Se invece questo
mondo banale te li avrà strappati…»
Non
terminò la frase poiché la sua
conclusione era scontata. Himmel aveva provato cosa
quell’essere fosse in grado
di fare a chi infangava il nome della vera magia.
«Celia!»
Il richiamo
accorato della domatrice di
cavalli la riscosse dal torpore artico in cui era caduta.
«Oh,
povera bambina, meno male che non hai
visto nulla!» singhiozzò la donna, stringendola
all’abbondante petto.
La bimba
lasciò che il calore di
quell’abbraccio scacciasse il gelo della stretta
dell’essere. L’affetto della
domatrice era sincero, tiepido… la creatura le aveva
trasmesso solo una crudele
determinazione.
«Questo
posto non è più sicuro per te» si
preoccupò la donna. Le accarezzò benevola i
capelli prima di decidere: «Devi
tornare da tuo padre. Lui ti proteggerà.»
La
piccola annuì
contro il suo seno e obbedì docilmente alla domatrice quando
la portò nel
proprio camerino.
Tutti
pensarono
che il suo mutismo fosse dovuto allo shock per la perdita improvvisa
dell’amico. Per buona parte avevano ragione.
Ma
il silenzio
le serviva anche per riflettere su quanto era avvenuto tra lei e
quell’essere.
Quando
sarai cresciuta, Celia, tornerò a prenderti.
Celia.
L’aveva
chiamata per nome. Ma lei non gli aveva mai detto come si chiamava.
Aveva
fatto
delle ricerche su di lei per impressionarla di più? Lo aveva
sentito dire da
uno dei tanti artisti del circo?
Oppure…
lo aveva
letto nella sua mente?
Un uomo che
evocava il fuoco con un semplice
gesto non doveva trovare molte difficoltà nello sfogliare i
pensieri altrui; un
uomo che uccideva per onorare il suo orgoglio di mago non doveva avere
molti
rimorsi nel carpire i segreti altrui.
Questo posto non è più sicuro
per te. Devi
tornare da tuo padre. Lui ti proteggerà.
Suo
padre
l’avrebbe protetta? Anche da quella creatura?
Rovesciò
all’indietro la testa, e le lampade al neon bagnarono di
riflessi spettrali il
suo viso preoccupato.
Esisteva
ancora
un posto sicuro per lei?
Quando
sarai cresciuta, Celia, tornerò a prenderti.