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Autore: _Arthur_    14/02/2012    2 recensioni
Cosa sentivano quei bambini, ascoltando le melodie del pifferaio magico?
One-shot che tenta di spiegare una favola intramontabile dal punto di vista di un bambino.
Genere: Avventura, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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n.d.a. Questa storia non è del tutto mia; prende spunto dalla famosa fiaba omonima, quindi non è molto corretta in questa sezione, ma davvero non avrei saputo dove metterla! Mi sono limitato a cambiare il punto di vista (e ad inventare il finale, poichè vi sono moltissime versioni diverse). Concludo dicendo che, se volete una colonna sonora per questo racconto, andate QUI  (vedendo il video e ascoltando il testo capirete da cosa ho tratto spunto)
Buona lettura, (e fatemi sapere che ne pensate)!! 

 
  Il Pifferaio di Hamelin



 - Aaron, rientra subito in casa! –
Questa era la melodia che accompagnava le mie giornate: Aaron fai questo, Aaron fai quest’altro… Quelle poche volte che a noi bambini era concesso giocare per strada, non potevo rimanere per più di un paio di ore. Poi subito a casa, sommerso dalle cose da fare: prendi la legna, accendi il fuoco, vai a prendere l’acqua al pozzo, stendi la pasta del pane, fai il bucato con la cenere. Con papà nel campo, mamma che teneva sempre Lucia, la mia piccola sorella, e tutti gli altri fratelloni che erano a lavorare, solo io rimanevo per fare i lavori casalinghi.
Alle volte avrei voluto scappare via, essere lasciato libero, girovagare per la città e raggiungere la collina, e più oltre, il campo di grano; avrei voluto tanto rotolarmi tra le spighe d’oro insieme ai miei amici. Avrei voluto con loro cavalcare sulle ali del vento, come un uccello nel cielo… Lasciare Hamelin, questa città da schifo. A dieci anni desideravo essere libero, lasciare la mia vita di obblighi, fatiche, strade sporche e… topi; tanti, troppi topi.
Non ricordo quando fosse iniziato il problema dei topi, ad Hamelin… fin da quando ho memoria posso ricordarmi ogni luogo, casa, camera, strada, mercato, tutti brulicanti di grassi topi grigi. In casa ne avevamo dieci per stanza, venti in cucina. Era inutile cacciarli, un minuto e ritornavano più di prima; come era inutile ucciderli, anche se era un passatempo perfetto per quelle poche ore di gioco, quando, armati di una fionda, facevamo a gara a chi ne uccideva di più.

C’erano i giorni in cui, invece, fingevamo di dare la caccia a dei ladri. Era sempre un bambino, magro come una canna, che faceva il capo, e fingeva di comandare i suoi piccoli aiutanti: i topi. E lui che intanto si nascondeva, e noi che lo inseguivamo… e quando lo avevamo trovato, via… scappava di nuovo. E tutti a rincorrerlo; era un po’ troppo mingherlino il nostro amico ladro, ma correva veloce, e sapeva nascondersi benissimo!
Alle volte ci veniva la voglia di sentire il vento. Così, arrivati sulla collina, scendevamo correndo veloci; io ero sempre il primo della fila, e quando arrivavo al campo di grano, li mi nascondevo. Allora i miei amici sapevano di dovermi cercare e io, intanto, facevo ghirlande con i fiori, che poi infilavo velocemente sulla testa di un topolino. Quando, alla fine, mi trovavano, erano tutti troppo stanchi per proseguire; così finivamo sempre stesi, ad immaginare forme da dare alle nuvole.
Solo a noi bambini non dispiaceva così tanto la presenza dei topi; certo, non potevamo che odiarli, quando venivano con i loro musetti a rubarci il cibo dai piatti o, con il loro squittio, a svegliarci. Però quelli che proprio non riuscivano a sopportarli erano gli adulti. Non passava giorno senza che ci fossero uomini infuriati sotto la finestra del borgomastro, a reclamare una pulizia delle strade.
Per quello che ottenevano, sarebbe stato più efficace parlare con un mulo. Il borgomastro, infatti, era una personcina bassa e molto grassa che raramente riusciva a trovare una soluzione ai problemi della città. I topi, poi, gli piacevano particolarmente, forse c’era una certa affinità, e per ciò non ci metteva neanche l’impegno necessario. Tutto quello che si era limitato a fare consisteva nell’appendere dei cartelli. Allora non sapevo leggere quindi non seppi subito cosa vi era scritto. Dovetti aspettare la domenica, e con essa il banditore che leggeva tutti gli avvisi.
“A colui che saprà aborrire l’enorme calamità data dall’infestazione dei ratti nella città di Hamelin, spetteranno ricompense come non sono mai state elargite prima. Il Borgomastro”
Certo era che nessuno poteva riuscirci.
Nessuno, tranne il Pifferaio.
Il giorno in cui arrivò al municipio era grigio e minacciava pioggia. Probabilmente per questo i colori del suo vestito colpirono noi bambini, che giocavamo in piazza. Non era un menestrello, le loro vesti, infatti, sono di tutti i colori dell’arcobaleno, non era un mangiafuoco, portano i colori della fiamma, rossa e gialla, ne un giocoliere. Aveva una lunga veste a bande, azzurre come il cielo più limpido e bianche come le nuvole. Lo vedemmo entrare a passo spedito nel municipio.
Noi, timidi e un poco intimoriti, ci avvicinammo al grande portone, in attesa di vederlo uscire. Speravamo che ci potesse fare uno spettacolo, di cosa ancora non lo sapevamo. Le nostre speranze non furono deluse. Uscì, questa volta più lentamente e raggiunse il centro della piazza. Mi ricordo molto bene il suo passo, leggero, come se camminasse su un filo. Passandoci davanti posò i suoi occhi su di noi, al che mi scappò da dire “Signore, cosa sapete fare?”
Fissò il suo sguardo nel mio.

Dopo di lui non ci fu più nessuno che mi abbia guardato con degli occhi così: esprimevano molte cose, tante quante sono le spighe di un campo di grano, o le stelle nel cielo notturno. Nessuna che mi riuscisse di comprendere in quel momento; ma presto le avrei capite. Disse semplicemente “Venite e vedrete”.
Insieme raggiungemmo il centro della piazza e lui fece cenno di stare in silenzio e guardare.
Prese un piffero, di quelli fatti in legno. Lo sfilò dal vestito e lo avvicinò alle labbra.
Infine iniziò a suonare.
Era una melodia allegra e vivace. Non sembrava neanche provenire da quell’uomo davanti a noi, ma era dappertutto. Ancora, però, non capivo bene cosa stesse facendo perché mentre suonava, iniziò a girare per la piazza e ad avvicinarsi alle porte e ai vicoli.
E poi arrivarono i topi.
A frotte, forsennati come non si erano mai visti, raggiungevano la fonte della musica. Il pifferaio li guardava arrivare e la sua musica diventava sempre più allegra. Saltavano, i topi, sembravano ballare attorno alla figura vestita d’azzurro. Richiamati dalla melodia arrivarono, poi, gli adulti, curiosi di sapere cosa stava richiamando i topi.
Lo spettacolo era il più strano che avessi mai visto.
Poi, il Pifferaio si mosse. Iniziò a camminare per le vie e dove passava sbucavano musetti di topo e alcune facce di uomini. Non sapevamo dove stesse andando, ma tutti, uomini, donne e noi bambini, eravamo curiosi di sapere cosa avrebbe fatto.
Camminò così compatta, la strana processione, fino al fiume. Qui il pifferaio, che ancora non aveva staccato le labbra dallo strumento di legno, si fermò sull’argine mentre i topi, come arrivavano, si buttavano nell’acqua, per non riapparire più.
Al calare della sera giravamo per strada, cercando gli ultimo compagni di gioco rimasti: non ne trovammo. Al fiume, poco prima, erano morti tutti. Gli adulti avevano provato ad osannare colui che li aveva liberati dai ratti, ma non vi erano riusciti. Il pifferaio era scomparso non appena l’ultimo topo si era gettato nell’acqua.
Oh come fu bella la vita senza topi, per i giorni seguenti! Gli adulti erano così contenti che la settimana dopo fecero una grande festa in piazza dove ringraziarono insieme il borgomastro, per aver trovato l’uomo che li aveva liberati. Lui fu molto contento di questa attenzione; lo vedevamo pavoneggiarsi in mezzo alla gente, agitando in aria il tozzo collo. C’era anche un grande fuoco e i miei genitori, e i genitori di tutti i bambini, ballavano intorno, e ci insegnavano quelle belle danze. Non volevo più tornare a casa, quella sera, ma alla fine tutto si calmò, il fuoco si spense e dovemmo ritornare.
 
Non era una melodia, quella che ci svegliò il mattino seguente. Era libertà fatta musica. Le prime note entrarono subito nel mio sogno, svegliandomi all’istante. Sapevo perfettamente da dove proveniva quel suono. Finalmente capivo cosa avevo visto negli occhi del Pifferaio quando si erano posati su di me. Avevo visto i cieli limpidi e mi ero visto volarli, avevo visto le grandi corse sfrenate, a caccia del niente, avevo visto spazi infiniti e vi avevo trovato la libertà di percorrerli. Tutto mi diceva quella musica, le note mi vibravano nell’anima e non pensai neanche, nemmeno per un attimo, a resistervi. Balzai subito, ogni fibra del mio essere tesa: volevo ballare e scappare, scappare ballando, ballare scappando… seguivo quella promessa fatta suono tra le strade dove vedevo gli altri bambini con me. Trovammo il Pifferaio, sapevamo dov’era, e lui ci accolse con lo stesso viso, espressione di completa libertà. Solo più tardi capii perché nei suoi occhi leggevo anche rabbia: quel giorno era stato dal borgomastro, a reclamare la ricompensa, ma quegli gli aveva risposto “Chi siete voi? Non vi ho mai incontrato”. Ma in quel momento no… come potevo pensare alla rabbia quando quella musica era così bella? Come potevo trascurare la libertà infinita? Era bello più di un sogno, e noi ballavamo, saltavamo attorno al Pifferaio, e lui che continuava a suonare. Parlava attraverso i suoi suoni, e ci narrava di luoghi in cui saremmo stati per sempre liberi, stanze in cui avremmo potuto essere noi stessi senza che nessuno potesse cambiarci, saremmo stati per sempre liberi, per sempre felici. Sentii fra le note che avremmo potuto volare… Come avevo sempre sognato di farlo, innalzarmi in aria, come una di quelle rondini che a primavera fanno il nido nei sottotetti!
Non mi accorgevo di nulla, se non della necessità di camminare verso quei luoghi che mi erano promessi. Intanto saltavamo, ballavamo, giocavamo. Mai mi ero sentito più vivo, anche se ero ancora un bambino.
Poi, per qualche secondo, la melodia cambiò, per un attimo riuscii a capire dov’ero, ai piedi di una montagna, un grande portone aperto davanti a noi; Ma subito dopo ritornarono quei suoni così familiari, e fui preso di nuovo da quella voglia di libertà che mi aveva accompagnato fin li.
 
Mi svegliai, avevo dormito sopra un pavimento di marmo. Accanto a me, stesi in un immenso stanzone, c’erano gli altri bambini, tutti addormentati. E il Pifferaio in piedi, sulla soglia della porta, che mi guardava.
Parlò, e la sua voce sembrava fatta di sogni che prendono realtà.
- Come ti chiami, piccolo? -
- Aaron, signore. E voi? -
Non rispose. Si avvicinò a me, scavalcando i corpicini di qualche bambino addormentato.
- Ascoltami, Aaron. Questo luogo è tutto per voi, qui potete fare quello che volete. Potete attraversare tutte le porte che volete, esplorare questo posto come volete, vedrai sarà bello! –
Non pensai neanche di non credergli: libertà assoluta, era tutto ciò di cui avevo bisogno. Solo domandai:
- Signore, ma se avremo fame? - Il Pifferaio mi sorrise e indicò una delle tante porte
- Seguendo quel corridoio troverete sempre tutto il cibo che vorrete, quello che più vi piace, quanto ne riuscirete a mangiare. -
Poi scomparve, lasciandomi con il dubbio su come avesse fatto.
 
Non ci volle molto che tutti si svegliassero, e che iniziasse la vita nella grande montagna.
C’era tutto ciò che potevamo desiderare: chi aveva fame mangiava i cibi più buoni, chi aveva sete beveva l’acqua zampillante da una fonte, c’erano grandi campi di grano racchiusi in grandi caverne, talmente alte che si potevano vedere le nuvole, c’erano boschi dove nasconderci e prati immensi pieni di fiori con cui fare le ghirlande . E il tutto si poteva raggiungere varcando le porte e passando i corridoi. Chiamammo ogni stanza con un nome diverso, e disegnammo la mappa, anche se non riuscimmo mai a scoprire tutti i luoghi che nascondeva la montagna. La stanza che preferivo era il lago sotterraneo: l’unico posto da cui filtrasse la luce del sole, grazie ad alcune fessure sull’alta volta. Tutte le altre stanze sembravano illuminarsi per magia.
E che giochi si potevano fare! Con centotrenta bambini ci si può nascondersi per ore, aspettando che ti trovino tutti. Ma di giochi così grandi ne facevamo pochi, solo nei primo tempi. Poi abbiamo iniziato a dividerci in tanti gruppetti, più o meno numerosi. Certo, con tutti gli altri bambini giocavamo; spesso facevamo la guerra per il controllo di questa o quella stanza.
Per una di queste guerre costruimmo anche dei bastoni a forma di spada, e io usai la mia fionda per cacciare una bambina.
Purtroppo le feci male. E me ne dispiacque. Per fortuna quella sera tornò il Pifferaio e guarì la ferita con una breve melodia del suo piffero.
Il Pifferaio tornava, ogni tanto. Spesso portava con se altri bambini, a gruppetti di dieci o quindici, o veniva da solo. Tutte le volte rimaneva poco tempo, osservava come stavano andando le cose e se ne andava con un desiderio negli occhi, e una specie di rimpianto.
Si, il tempo passava, e noi ci divertivamo ogni giorno di più, sempre più felici nel nostro paradiso.
L’episodio della fionda, però, in quei giorni mi turbava non poco. Con quella bambina, di cui non sapevo nemmeno il nome, avevamo fatto subito pace, ma ancora mi dispiaceva per quel gesto. Finchè mi domandai “Perché l’ho fatto?”
Non ci pensai subito; ero troppo impegnato a cercare un mio amico che stava nascondendosi. Però la sera mi tornò in mente: “Perché l’ho fatto?”, ero stesso sul ramo dell’albero che avevo eletto a mio rifugio. Non seppi darmi la risposta; ero li che mi chiedevo che senso avesse provocare del male senza un valido motivo… in fondo era tutto un gioco, no?

La mattina dopo ci attaccarono. Ma eravamo preparati molto bene, così, tirate fuori le spade di legno, ci scontrammo con i nostri nemici. Individuai subito il loro capo, allora corsi subito a fronteggiarlo. Avevo l’occasione perfetta, lui non mi aveva ancora visto… ma quanto alzai la spada per colpirlo… non ci riuscii. Era una cosa stupida! Era tutto un gioco, non gli avrei mai fatto del male per davvero!
Più tardi mi chiesero perché avessi dubitato: gli risposi che non lo sapevo. E davvero, non ne avevo idea. Le cose stavano andando alla grande, tutti i bambini si stavano divertendo un mondo, solo io avevo dei problemi per questa storia, l’unico che non si godeva il vivere in un sogno. Più tempo passava, più il problema sembrava grande, finchè anche i miei amici iniziarono a non volere che giocassi con loro.
Camminavo molto, in questo periodo; camminavo e pensavo: “dov’è finita tutta la gioia che avevo provato prima?” Fu proprio camminando alla cieca che arrivai ad un portone. Era molto diverso dagli altri: molto più grande, ma, soprattutto, murato. l’arco d’ingresso, infatti, era solo disegnato, ma la soglia era solida roccia. Non so perché, ma mi sembrava di averlo già visto. Pensai per qualche minuto, ma proprio non ricordavo. Non potevo resistere,dovevo chiedere a qualcuno cosa ne pensasse. Corsi dai miei amici e li trascinai, all’inizio non volevano venire, davanti al portone.
Tutti ebbero la mia stessa reazione, tutti volevano saperne di più. In quei giorni ci impegnammo a portare gli altri bambini davanti a quel portone e vedere se qualcuno si ricordasse cosa si trovava oltre quella roccia. Cercai in ogni stanza, ma tutti quelli che incontravo non sapevano dirmi niente di più; la curiosità stava coinvolgendo tutti. Nella mia ricerca raggiunsi il lago.
Perché li la luce era diversa? Mi sembrava di ricordare anche questo… ma era lontano, troppo lontano. Poi sentii il vento, quello strano vento che si veniva a creare nelle grandi sale della montagna. E il vento accarezzò le canne vicino al lago, producendo una melodia: rozza, ancestrale ma pur sempre bella. Staccai una canna e presi il mio coltellino.
Sapevo cosa fare, ma non me ne rendevo conto; ora, ripensandoci, posso dire che sulle rive del lago, quel giorno, avevo capito bene che dietro alla roccia c’era il mondo reale e che la luce che illuminava l’acqua era causata dal sole. Tagliai e rifinii la canna, lavorando per quelle che parvero ore (sapevo, veramente, come trascorreva il tempo?) e costruii così un piffero.
Al che mi posi il problema di cosa suonare: c’era una sola melodia che ricordavo, quella che mi aveva portato li, quella promessa mantenuta. Non ci volle molto perché prendessi confidenza con il rozzo strumento, e riuscissi e replicare la melodia.
Il suono si perse nella grotta. Non c’erano altri bambini ad ascoltarlo e, sentendolo io, mi resi conto di quanto diverso appariva ora. Mi raccontava di promesse, facili da mantenere, ma ingannevoli. Mi raccontava della fatica della vita vera, della soddisfazione di un lavoro, di come il gioco non potesse essere l’unica realtà, di quanto sia bello volare e di come sia incredibilmente più bello tornare a terra. Suonando, poi, mi ricordai un’altra melodia. Provai a riprodurla, ma non mi disse niente. Era bella, si, ma era inanimata. Eppure il Pifferaio l’aveva suonata, tempo prima; l’aveva suonata davanti a quel portone, ed esso si era aperto!
 
Quando tutti gli altri bambini corsero fuori dalla montagna non sembravano tristi: avevano capito, come me, che non potevamo giocare per sempre e abbandonare tutto ciò che si erano dimenticati. Ogni passo nel mondo e tornavano in mente i familiari, i lavori e i giorni passati ad Hamelin. Io, però volli trattenermi un minuto di più… volevo essere sicuro che tutti se ne fossero andati.
- Come ci sei riuscito, Aaron? - Nella voce del Pifferaio non c’era risentimento, anzi. Sembrava contento che avessi aperto quell’arco e liberato tutti gli altri.
Pensai a cosa rispondere mentre lui aggiungeva:
- Non volevo tenervi qui per sempre, sai? Sapevo che prima o poi qualcuno si sarebbe accorto che questa non è la vita! voglio sapere solo come ci sei riuscito…
- Credo… sai quando la notte sogni? Tutto è confuso nei sogni… e tutto era confuso in quella montagna. Facevamo dei giochi, ma li confondevamo con la realtà; li dentro mancava tutto, eppure avevamo tutto. Non provavo vere emozioni, ma mi illudevo solo di farlo. E, soprattutto, non riuscivo più a farmi delle domande, non ne avevo bisogno! Ci hai donato un sogno, Pifferaio, ma ci hai privato della vita… e cosa sono i sogni se non abbiamo una vita dove esaudirli? –
Il pifferaio mi sorrise.
- Tieni, butta via quel pezzo di canna, e da oggi suona con questo! - E mi passò il suo piffero. Guardai quello strumento: il legno intagliato con fini decorazioni sembrava voler essere suonato. Lo portai alla bocca, ma subito il Pifferaio mi fermò:
- No, non suonarlo qui, non voglio più sentire quel suono! –
E così me ne andai, pensando: “Forse, in fondo, il Pifferaio era quello meno libero di tutti”.

_ Arthur _

 

 

  
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