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Autore: claws    09/03/2012    2 recensioni
Non era paura, nè dubbio. Era un'angoscia che le raspava la gola, che le mordeva il sorriso, che le corrodeva le labbra. Era una furia che l'allegria aveva sempre scacciato, che il buonumore aveva schiacciato e sbattuto in uno scantinato profondo, dove essa s'era alimentata di buio e di silenzio.
[AU, linguaggio volgare; Danimarca e Macao][≈6700 parole]
[Prima classificata al Contest "[Hetalia] La Fiera del Crack" indetto da _Ayame_ e reilin]
Genere: Azione, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Danimarca
Note: AU | Avvertimenti: Gender Bender
Capitoli:
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Titolo: L'appartenenza
Personaggi:
Principali: Fem!Danimarca/Ester Nexø (agente Ørsted); compare, nei flashback, anche Male!Danimarca/Jørgen Nexø (agente Andersen); Fem!Macao/Amàlia Liu (agente Aviz).
Comparse: Vietnam/Pham Lan, Hong Kong/Li Xiao Chun, Norvegia/Lars Nesbø, Svezia/Berwald Oxenstierna, OC!Scozia/Walter Doyle.
Pairing: Danimarca & Macao.
Rating: Giallo.
Avvertimenti: Linguaggio volgare, Genderbender, AU.
Genere: Azione, Introspettivo, Malinconico.
Note: La canzone cantata da Ester è «007 is also gonna die», dei Nephew.
Degli stessi autori, ma della canzone «Danish way to rock», sono le citazioni che ho utilizzato per dividere i flashback dal resto del racconto e sono, in questo capitolo:
«Og hvis de sparker os ned» --- «E se loro ci buttano a terra a calci»,
«Så si’r vi / Op igen – den sved» --- «Diremo - in piedi di nuovo, fa male».
[1] «Drømte mig en drøm i nat» significa «Ho fatto un sogno, stanotte.»
Vi auguro buon lettura! C:









L'appartenenza


Capitolo I

«What is black, and what is brown.»
Uno, due, tre giri di bende lungo il braccio.
«What is field, and what is town.»
In un lasso di tempo pari a poco più di un minuto lo straccio bianco ripiegato sul polso era già screziato di sangue.
«What is silence, what is shout.»
Con un sorriso sofferto, che si rifletteva sulla mano libera, strinse quella medicazione affrettata. Le sembra di avere un laccio emostatico al braccio.
«What is fear, and what is doubt.»
Non era paura, nè dubbio. Era un'angoscia che le raspava la gola, che le mordeva il sorriso, che le corrodeva le labbra. Era una furia che l'allegria aveva sempre scacciato, che il buonumore aveva schiacciato e sbattuto in uno scantinato profondo, dove essa s'era alimentata di buio e di silenzio.
Era un dolore esploso come una bomba a orologeria. Il ticchettare nervoso era solo un sussurro che Ester aveva preferito accantonare, come si dimenticano le raccomandazioni preoccupate delle madri in una notte di follia e frammenti di pelle misti a sangue.
Edimburgo era penosa e offensiva, nel suo grigio nebbia, quella notte.
«Double-oh-seven is also gonna die.»


«Jørgen! Dov'è Jørgen!»
«Nell'infermeria del QG. Agente Ørsted, datti una calmata.»
«No che non mi calmo, capo! È mio fratello, accidenti!»
L'altra figura si sedette sulla sedia al di là della scrivania, con un profondo respiro.
«Agente Ørsted. Non voglio capricci da marmocchi, nella mia agenzia.»
«Capricci? Capricci?!» Mi prende in giro, capo?!, pensò. Ma per evitare un licenziamento in tronco, tacque. Sarebbe stato il colmo.
«Il taccuino degli appunti.» Ordinò, con un cenno della mano. Ester gli porse il quaderno con la trascrizione in danese delle informazioni fornite loro dalla macaense. «E poi mi hai parlato di una prova lasciata dal killer.»
«Dalla killer, capo.» Precisò Ester, adagiando sulla scrivania un fiore di loto chiuso in uno di quei sacchetti di rito dei suoi colleghi poliziotti.
L'uomo sembrò soddisfatto del materiale, ma non altrettanto della propria agente - in evidente stato di shock. «Bene. Ora va' all'infermeria anche tu, e fatti dare una tisana. Sei sollevata dal tuo incarico di agente speciale a tempo indeterminato.»
La danese non rispose immediatamente; e quando parlò, si limitò ad un «Ja» fermo. Deciso, sì, ma per un altro motivo: era determinata a ritrovare quella bastarda che aveva ridotto in fin di vita il fratello.
Lei aveva ricavato solo una ferita al braccio, benché profonda, in quella missione ad Edimburgo; suo fratello vi aveva trovato la Morte, seduta a qualche tavolo più in là rispetto al suo, in uno di quei pub scozzesi. E grazie al cielo Ella non s'era accomodata al suo fianco, perché Ester non avrebbe mai più potuto riabbracciare il suo amato fratello - tre volte avrebbe tentato di cingergli il collo, e tre volte le sue mani avrebbero smosso soltanto aria, e non capelli.
«Non lasciare la Danimarca.» Ordinò l'altra figura. «La pena la conosci perfettamente.»
Dopo aver varcato la soglia dell'ufficio del proprio capo, l'agente Ørsted sbattè la porta. Che l'allegria gliela strappassero pure! Che le proibissero di partire per l'estero! Nessuno avrebbe mai vinto contro di lei in grinta e forza di volontà. Soprattutto nel caso in cui avesse a disposizione un indizio in più rispetto alla propria agenzia.
Il foglietto spiegazzato nella tasca del suo cappotto s'era appisolato tra la carta di una caramella per il mal di gola e il mozzicone di un carboncino, ma rimaneva leggibile.
Era un biglietto di sola andata per Macao. Ed era un regalo di quella bastarda, lasciato accanto al suo corpo, quando era ancora incosciente, in quella notte scozzese. Come poter resistere a quel dono tanto invitante?
Similmente a una barca a vela incagliata nella bonaccia, dove i marinai s'apprestano a remare pur di perseguire la loro meta, Ester si armò di pazienza, perizia, e di un computer portatile.
Avrebbe raggiunto quell'assassina nella sua tana, e lì l'avrebbe colta di sorpresa. La rabbia per non essere stata in grado di proteggere un affetto le maciullava spirito e nervi. Sapeva perfettamente che il dolore non può essere disperso da altro dolore; sapeva che due azioni cattive non ne fanno una buona. Tuttavia, voleva vedere in viso quella bastarda.
Voleva guardarla dall'alto in basso, con il disprezzo di chi è combattuto tra l'odio e la più sporca compassione; avvicinarsi fino a trafiggere il suo sguardo con i propri occhi di ghiaccio; e sì, anche darle una sonora gomitata tra le costole, all'altezza del diaframma.




[Og hvis de sparker os ned]

«Jørgen!»
«Oh, agente Ørsted!» Disse il ragazzo, dandole un pizzicotto su una guancia. «Ora sono l'agente Andersen, non Jørgen!»
«Tu sei il mio fratellone. Non posso chiamarti agente Andersen!»
Chi era ad avergli detto che sarebbe stato meglio non lavorare con dei familiari? Oh, non lo ricordava. In ogni caso, non si sarebbe mai ricreduto: lavorare con la propria sorella minore era uno spasso!
«Andersen è un cognome importante! Ricordi Hans Christian Andersen, no?»
«Certo che lo ricordo! Ma non lo trovo giusto.»
Le stropicciò i capelli. «Non fare come la principessa sul pisello! Muoviamoci, piuttosto!»
L'aria di Edimburgo era satura di rumori, fumo e cenere, quella sera. E lo era quel pub, stretto in una morsa di sigarette e bicchieri di alcol, dove avrebbero dovuto incontrare il loro informatore.
Jørgen ed Ester non erano stupidi. Certo, potevano sembrarlo, ma erano tutt'altro che poco svegli. Uno dei loro talenti era illudere i nemici di trovarsi davanti a una coppia di idioti ubriachi dal sorriso grande e dal prurito forte alle mani.
Tuttavia, se loro erano i proiettili infiammabili di un caricatore, se erano il re e tre in una partita di briscola, Amàlia era un asso nascosto dall'uniforme di una regina inglese. Alta, dall'aria attenta e raffinata, come un'orchidea all'apice della fioritura, quando i petali intrappolano con un caleidoscopio di colori i piccoli insetti impollinatori, si era seduta al loro tavolo; e con lei s'era accomodato il sentore di un ricordo, quello degli amici che si incontrano solo al bar, raccontandosi quelle vecchie avventure tra un crostino intinto nella zuppa e una pinta di birra. Un profumo rilassante, senza dubbio: che ebbe tuttavia l'effetto opposto, dal momento che non avevano mai frequentato una donna asiatica tanto affascinante - in realtà, il tempo non era sufficiente perché potessero costruirsi una vita sociale al di fuori dell'agenzia.
«Agente Aviz?»
«In persona.»

[Så si’r vi
Op igen – den sved]




Aveva programmato tutto.
Copenaghen-Hong Kong, Hong Kong-Macao. Con l'aiuto e la connivenza di Berwald, uno degli agenti in sonno dell'agenzia, che aveva attraversato il ponte di Øresund per aiutarla a lasciare il Paese, era sicura di poter compiere il primo passo di quella missione. Inizialmente controvoglia, poi coinvolto dalla situazione in cui versava il fratello di Ester, lo svedese le fornì un nome, un cognome, una vita nuova.
I giorni erano scanditi con esasperante lentezza dalla macchina che monitorava le condizioni di Jørgen, incosciente ormai da più di settantacinque ore. Ore che scivolavano come delle lacrime mai espresse sulle guance e sul collo.
«Drømte mig en drøm i nat [1].»
Non si considerava più un agente segreto. Tutto ciò che aveva scelto di conservare della propria carriera nel settore erano le tecniche insegnate nella palestra e al poligono di tiro.
Il suo nuovo cellulare vibrò - era una sveglia che aveva inserito giorni prima. Aveva già chiuso nel cassettone del proprio studio il telefono che le avevano dato appena entrata nell'agenzia, e la chiave di esso era stata fusa e buttata sul fondo del Mar Baltico.
Si alzò dalla poltrona della propria casa, con un sospiro. Mentre attraversava il salone, il suo sguardo accarezzò una fotografia sbiadita di quando Jørgen e lei erano due marmocchi. Chiusasi alle spalle la porta, scrollò la testa, riacquistando lucidità e ottimismo.
Avrebbe stravolto le strategie a cui erano abituati tutti i suoi colleghi. Si sarebbe mossa al di fuori delle previsioni del proprio capo, e ne avrebbe pagato le conseguenze con un sorriso strafottente e felice. Al diavolo il mondo intero.
Una risata divertita sbatté sulle sue labbra dalla gola. Tino e gli altri agenti in sonno erano rimasti interdetti dai soldi che aveva chiesto loro in prestito, ma anche loro, come Berwald, apprese le condizioni del danese, si dissero che non avrebbero mai potuto persuadere Ester a non partire per quella follia extracontinentale.
L'automobile cinerea di Berwald l'aspettava all'uscita del condominio - lo svedese aveva la solita espressione impassibile, come se non avesse mai imparato dai sorrisi dei due fratelli danesi.
Gli occhi color lapislazzulo di Ester adocchiarono una nuvola bianca, morbida come la panna montata su una crêpe - da bambini, ricordò, un giorno Jørgen e lei ne avevano fatto indigestione.


Amàlia si tolse l'asciugamano dai capelli, adagiandolo sul tavolo del proprio bagno.
Prese un pettine di legno, e inforcò la prima ciocca di capelli scuri - guardandosi allo specchio, sospirò per quei tagli sulla gamba e sul collo. Adagio, si vestì e lasciò la camera per recarsi nella cucina - un dim sum l'attendeva, bollente.
Finalmente le avevano concesso la possibilità di recuperare dei giorni lavorativi, così avrebbe potuto dedicarsi a una delle proprie passioni con la razionalità necessaria. In fondo, abitava vicino a uno dei vecchi casinò, e da tempo non vi aveva messo piede: era la buona occasione per distrarsi dalla frenesia della vita che conduceva, e dall'offesa che il suo orgoglio aveva subito qualche giorno prima.
Similmente a un operaio che solo la notte può trovare la pace, tra le lenzuola della propria camera o tra l'aria intrisa di frammenti di grano e fumo di un locale, Amàlia lasciò, qualche manciata di minuti dopo, il proprio quartiere, alzando lo sguardo verso il cielo cobalto, illuminato a giorno dalle lampade degli alberghi e dalle luci al neon dei locali, sparsi per la città come lucciole metalliche in un bosco di slarghi e grattacieli.
Le strade erano affollate, e vomitavano gente come tanti affluenti in piena. Amàlia non era né particolarmente alta, né facilmente riconoscibile, tra quei volti tutti pressoché identici; però da quando mise piede fuori dal proprio appartamento sotterraneo non abbassò mai la guardia.
Quell'uomo di Hong Kong poteva nascondersi dovunque. Nel giovane che l'aveva sorpassata dandole uno spintone al braccio, nel gruppo di ragazzi là, all'angolo di un vicolo, che gridavano e sghignazzavano per chissà quale motivo. Non poteva permettersi un passo se non ben misurato, non aveva il diritto di fermarsi a pensare, né tantomeno quello di parlare con persone all'esterno del casinò.
Nel palazzo dov'era diretta, dopotutto, c'erano persone a cui interessava l'incolumità della macaense; per quello che sapeva, certamente, ma anche per la rapidità delle sue pistole e del suo intuito. Per questo, una volta entrata, poteva ritenersi al sicuro.
Tanti turisti ruggivano a voce bassa seduti ai vari tavoli da gioco - pochi i visi a lei noti. Quasi le parve di aver vissuto assorbita dal proprio lavoro, fino a quel momento, e fu difficile raggiungere le scale che portavano ai piani superiori, dove avrebbe potuto osservare la situazione più agevolmente.
«Signorina Liu.» Una voce finalmente riconoscibile raggiunse la macaense, che stava salendo proprio gli ultimi gradini.
Amàlia alzò lo sguardo. «Signorina Lan.» Rispose, con un inchino e un sorriso serafico.
«Per stasera non potrò farvi compagnia. Sono attesa altrove.»
«Macao sarà sempre sveglia per voi, signorina Lan. Ma non fatela aspettare troppo.»
«Voi state attenta. Chi colpisce per primo deve mantenere gli occhi aperti come una civetta, signorina Liu.»
L'altra donna le lanciò un cenno di cortesia, infine scomparve alle sue spalle.
Non si stupì delle parole di Pham Lan. Era una donna che conosceva bene il mondo, e i suoi parassiti: qualcuno di quei vermi era strisciato fino alle gambe della vietnamita e le aveva raccontato di quella notte a Edinburgo. Poco male. Non avrebbe sprecato tempo a spiegarlo ai suoi superiori.
Prese posto al suo tavolo preferito - blackjack - con l'aria composta e rilassata di chi ha previsto tutto, e si sistemò gli occhiali.
Era abituata a sfidare la sorte - ogni singolo giorno; giocare una partita con la sfortuna era pericoloso, vero, ma divertente allo stesso modo.
Chiuse gli occhi, per concentrarsi. Nel buio della gabbia delle palpebre, però, lampeggiarono dei cerchi luminosi di vari colori, il cui raggio aumentava e diminuiva mentre si spostavano disordinatamente nella sua visuale, per poi formare un vortice di colori indefinibili perché fusi insieme.
Appena le ciglia inferiori e superiori si divisero, il sogno scomparve, e la luce soffusa abbracciò i suoi occhi scuri. Erano trascorsi forse dieci secondi, e i giocatori stavano aspettando la sua puntata, con degli sguardi che avrebbero messo in soggezione uno di quei turisti novellini.
Ma Amàlia sorrise, indecifrabile, mentre le sue mani spostarono vicino al banco le fiches.
Non aveva mai lasciato perdere un sogno, che sembrasse premonitore o meno. D'accordo, forse lei non avrebbe mai comunque abbassato la guardia, ma quella breve visione la rese ancora più vigile, come un cane da guardia che, quando scende la notte, appoggia il muso sulle zampe e gli occhi sulle orecchie, pronto ad avvertire qualsiasi pericolo e rumore che fosse anormale.
Tuttavia, nonostante un udito sensibilissimo, non avrebbe mai potuto udire il suono di un battello al largo dell'isola di Macao.


Era abituata alle capitali europee, vecchie, inebrianti per quel loro profumo antico, che sa di vecchio, ma un vecchio buono, come un vino d'annata o un liquore maturato nell'inerzia di una bottiglia.
Invece, Macao era frenetica. Era tutto un fervore, un tremito continuo e improvviso, che rendeva le persone nervose; era un gioco di lampi fluorescenti, di grattacieli che non tendevano più verso il cielo, perché credevano di averlo raggiunto.
Non che le dispiacesse. Amava il divertimento, le uscite e le bevute con gli amici, le follie raccontate nelle storie da ubriachi; ma in quel momento aveva solo voglia di raggiungere l'albergo, di stendersi sul letto per concentrarsi e ripartire dopo un breve momento di riposo.
Arrivare a Macao non era stato un viaggio comodo, specie nell'ultimo tratto, che aveva dovuto percorrere su un battello partito da Hong Kong: ma tutto, tutto, pur di trovare l'agente Aviz.
«What is less in less is more», canticchiò, buttandosi sul letto della propria stanza, «What if God won't bless the whore. What if words like boy and girl did not rhyme with joy and whirl.»
Che cosa succederebbe se, quelle parole la tormentavano, che cosa sarebbe successo se, che cosa, che cosa. Ester aveva capito che la propria anima s'era agitata fino a scatenare una tempesta, in cui era sbattuta in lungo e in largo, senza trovare riposo, né pace. E anche quando la sua piccola barca sarebbe affondata, quel maledetto disastro non l'avrebbe mai lasciata andare, fino all'arrivo di quella nera compagna che Jørgen aveva appena scorto.
A volte le sembrava che le acque si calmassero. Però era solo una minuscola consapevolezza, che ancora non sapeva ben definire; allora, perché Ester non potesse esaminarla, le tempeste riprendevano con più vigore, turbinando come il vento che s'era spostato nella deflagrazione di quei tre maledetti proiettili.





Note Autrice:
Bien, eccomi qui con una piccola fanfiction - tre capitoli - tutta dedicata, ancora una volta, a un ambiente di spie e agenti segreti.
L'idea di questa storia è nata per il contest a cui alla fine ho partecipato, indetto da _Ayame_ e reilin sul forum di EFP, [Hetalia] La Fiera del Crack.
Inutile dire che prima di realizzare il risultato sono partita di testa per la gioia, ecco! xD
Oltre al giudizio - che mi ha fatto notare che, nonostante le millemila riletture, gli orrori mi scappano lo stesso -, le due giudici hanno preparato dei banner adorabili sia per le storie che per i premi speciali.
Il titolo della storia è anche il titolo di una canzone di Giorgio Gaber a cui sono molto legata: è speciale. Ecco, si spiegherà alla fine il motivo per cui è stato scelto questo titolo; tutto (o quasi) verrà al pettine, parola di Jo! C:
Questa storia ha anche ricevuto i premi Best Plot e Best Couple Award, rispettivamente:
       

E questo penso sia tutto. C:
Vi ringrazio per esser giunti fin qui, che abbiate solo dato un'occhiata alla pagina o meno.
Infine, al prossimo venerdì! E ricordate: Thank God It's Friday! xD
See you soon! :D
claws_Jo





  
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