Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |       
Autore: Shomer    18/03/2012    18 recensioni
Demetrio e Nadia sono amici da tanto tempo e hanno ingenuamente pensato che niente e nessuno potesse dividerli. Allora cos’è successo? Perché sono arrivati a questo punto? Dove hanno sbagliato?
A tre anni da allora posso affermare con certezza che se fossi stata meno egoista e più coraggiosa probabilmente avremmo sofferto di meno, ma posso dire con altrettanta sicurezza che se ti avessi ascoltato e se avessi aperto gli occhi, se non avessi infranto le regole e se neanche tu le avessi infrante, sicuramente sarebbe finita allo stesso modo.
Questa storia si è classificata prima e ha vinto i premi giuria, miglior personaggio femminile, pairing e stile al contest "Love (never) fails - quando anche Cupido sbaglia" di Flaren97.
Seconda classificata al contest "Le sfumature del dolore" di phoenix_esmeralda.
[REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
   >>
Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A



 

Ogni singolo istante

Per Adrienne.


 





Quella pallida imitazione di una cittadina che era stata il mio rifugio durante gli anni successivi al liceo si impossessò di me tanto da diventare una prigione. Quell’aria umida e consumata si insinuava nei miei polmoni prepotentemente, facendomi tossire e nauseare, la puzza di salsedine e di mare si poteva percepire in tutte le strade, in tutte le piazze e in tutte le case non appena si apriva lievemente la finestra. C’era sempre un vento freddo umidiccio che penetrava nelle ossa, scavava da dentro in fuori quasi come se volesse uscire da te e non entrare in te e io tutto questo lo odiavo. Odiavo quella città, così tossica, ma non ne potevo fare a meno, perché fu proprio in quella città che ti vidi. Era quella la città in cui tu c’eri, e allora dovevo esserci anch’io.




Capitolo Uno


 

Poi scrissi il nome tuo versando piano sulla neve
la strana cosa che sembrava vino,
mi aveva affascinato il suo colore di rubino…
perché lo cancellasti con il piede?
Canzone delle situazioni differenti – Francesco Guccini


Avevo già passato tanti anni a guardarti e il giorno in cui ti ho fatto entrare nella mia vita non lo ricordo, ricordo invece la prima volta in cui ti ho visto per davvero. 
Mi presentai a casa tua, che era anche la mia, con due zaini e una valigia, dopo tre mesi che non ti vedevo, dopo tre mesi che non ti sentivo, per scelta e per necessità. La porta era aperta e io appoggiai gli zaini e la valigia sull’uscio senza farmi sentire, perché volevo vedere com’eri mentre pensavi che nessuno ti stesse guardando. La pioggia batteva furiosamente sui vetri e il rumore che faceva era assodante, ma nonostante questo cercai di muovermi il più silenziosamente possibile, gli occhi che guardavano il mondo in cui non mi avresti mai fatta entrare. Ti trovai con lo sguardo fisso fuori dalla finestra, i gomiti appoggiati sul davanzale e i capelli lasciati cadere disordinatamente sul volto. I tuoi occhi azzurri, liquidi, quasi grigi, non erano rivolti a me, non sorridevano per me e con me come li ricordavo, ma si dirigevano distrattamente verso i tetti delle case tempestate dalla pioggia. Pensai che avrei voluto essere a conoscenza dei pensieri che ti passavano per la testa e mi chiesi se qualcuno di quelli fosse rivolto a me.
In quel momento pensai che tu sembrassi un angelo. Mi venne la vaga idea che, magari, fuori da quella finestra stessi cercando il Paradiso dal quale eri stato cacciato. Non volevo rompere quell’istante magico con inutili saluti, sapevo già che nel momento in cui ti fossi accorto che ero lì, in casa tua, in casa nostra, mi avresti trattato con freddezza e disprezzo, perciò mi persi nel contemplare ogni tuo movimento: ti guardai accendere una sigaretta, ti seguii mentre con un gesto meccanico te la portavi alla bocca ed espiravi il fumo, rimasi incollata alla tua mano che ogni tanto si teneva la testa e ogni tanto si massaggiava la fronte. Dopo un tempo che non riuscii a calcolare ti girasti e io mi accorsi che i tuoi occhi erano esattamente come li ricordavo, con ogni sfumatura più chiara e più scura nel punto esatto e le lunghe ciglia folte a contornarli.
Lo sguardo che mi lanciasti forse me l’avevi rivolto solo in un’altra occasione, occasione che avrei tanto voluto dimenticare. Ancora non sapevo che quello, seppur brillante, inquietante e indecifrabile, sarebbe stato l’unico sguardo che mi avresti rivolto per i mesi successivi.
«Ciao» mormorai, rompendo quel silenzio a fatica, tanto era leggero e familiare, tanto mi metteva a mio agio.
«Che cosa ci fai qui?» dicesti, e la tua voce era bassa e roca, però io riuscivo a scorgervi un qualcosa di melodioso e desiderai che tu continuassi a parlarmi ancora e ancora. Fu in quel momento che ti vidi: fu in quel momento che capii quanto la tua figura, i tuoi occhi, i tuoi gesti meccanici, la tua voce fossero parte di me. Ripensando a quel momento, tempo dopo, capii che forse una delle cose che stavo cercando era una di quelle che con la mia partenza avevo lasciato.
«Sono a casa» risposi, forse un po’ balbettante per il freddo, o forse era solo soggezione.
«Pensavo che non saresti più tornata» dicesti, col tono di voce più dignitoso possibile per nascondere la sorpresa. «Mi sono sbagliato. D’altro canto, pensavo anche che non te ne saresti mai andata.»
«Credevo di non avere nessun motivo per restare.»
Il tuo sguardo era come una lama gelida che veniva strofinata sulla mia pelle, tanto che credetti davvero che se fossi andato un po’ più a fondo mi avresti tagliata. L’enigma che si nascondeva dietro i tuoi occhi ancora non lo capivo. L’avrei capito molto tempo dopo.
«La tua stanza è esattamente come l’hai lasciata tre mesi fa» dicesti, gelido, passandomi affianco e sfiorandomi un gomito con la mano. «Non ho toccato niente.»
«Sono innamorata di lui» dissi, forse per giustificarmi, quando tu ormai mi avevi superato, così non avrei dovuto guardarti negli occhi e non avrei sentito neanche il tuo sguardo perforarmi la schiena. «Non è stato facile.»
«Non lo è stato neanche per me.»
Il rumore di una porta mi fece capire che te ne eri andato.


Ambientarmi di nuovo in casa mia fu difficile. Ero troppo giovane, troppo ingenua e troppo debole per comportarmi come se nulla fosse come mi ero ripromessa di fare. Non ero capace di tagliar fuori i ricordi dalla mia mente perché avrebbe significato dover tagliar fuori anche te e non potevo permettermelo.
La mia stanza non era esattamente come la ricordavo, come mi avevi detto tu. Mi accorsi subito che mancava qualcosa. La sottile catenina d’argento con un ciondolo, una chiave, non c’era più. Sul mio comodino, coperti da un sottile strato di polvere, c’erano solo dei libri. Non mi interessò subito capire dove fosse la mia collana, immaginavo che probabilmente l’avessi presa tu, arrabbiato perché non l’avevo portata con me, io che quella chiave non me la toglievo mai.
Quel pomeriggio mi chiesi per quanto tempo saresti stato arrabbiato con me, se prima o poi mi avresti perdonato o se quello che avevo fatto era uno di quegli sbagli su cui non si può sorvolare, uno di quelli che fanno troppo male. In quel periodo ancora non sapevo quanto tu avessi bisogno di me. Decisi comunque che ti avrei imposto la mia presenza, che non me ne sarei andata da quella casa che volevo condividere con te, che ti avrei riammesso nella mia vita anche se tu non mi avresti fatto più entrare nella tua. Sapevo che potevo farcela, che entrambi potevamo farcela anche se la sua immagine non se ne andava dalla mia mente, anche se non se ne andava nemmeno dalla tua, anche se lo vedevamo continuamente camminare davanti a noi con quei passi scoordinati. Avrei voluto dirti che avevo fatto uno sbaglio e non me ne sarei andata mai più, ma sapevo che tu mi avresti risposto che non te ne importava niente.
«Perché sei tornata?»
Mi voltai di scatto ed eri lì, appoggiato allo stipite della porta, chissà da quanto tempo fermo a fissarmi. Avevi i capelli scompigliati e gli occhi più chiari che avessi mai visto; immaginai che fossi arrivato lì alla porta della mia camera con quel solito passo lento e irritante, quello che fa capire alle persone che stai pensando a qualcosa di importante e che non hai tempo di stare attento a come cammini.
Mi incatenai al tuo sguardo come avevo sempre fatto per quattro anni senza accorgermene, senza sapere che non sarei potuta scappare.
«Non ho trovato ciò che cercavo.»
Ti avvicinasti a me lentamente, mettendomi i brividi, l’espressione gelida di chi dentro di sé ha solo rancore e rabbia, frustrazione e nostalgia. «Forse ciò che stavi cercando non ha voluto farsi trovare» dicesti e dentro di me lo sapevo che eri soddisfatto, perché tu avevi avuto ragione e io invece avevo avuto torto.
«Forse» ammisi mentre ti avvicinavi sempre di più nonostante io indietreggiassi fino ad appoggiare la schiena al muro. Quando quando fosti talmente vicino da riuscire a contarmi le lentiggini sul naso lo capii, lo capii dalla tua faccia che era proprio lì che volevi arrivare. Costretta a te, senza scampo, a guardarti contemplare il mio fallimento.
«Hai intenzione di rimanere?» sussurrasti, il respiro era freddo come la tua voce.
«Sì» risposi io, con decisione.
«Stai dicendo che adesso sono diventato un valido motivo per restare?»
Non volevo guardarti negli occhi. Avevo troppa paura dell’espressione che avresti assunto, ma te non importò. Non t’importava mai. Mi prendesti il mento con la mano e lo tirasti su prepotentemente, per farmi capire che con te non l’avrei mai avuta vinta, che se tu volevi che io ti guardassi allora io ti dovevo guardare.
«Dem..» provai a dire mentre i tuoi occhi mi scrutavano con attenzione e risentimento.
Allora non sapevo quanto le mie parole potessero pesare, non sapevo che quella risposta tu la volevi veramente e non avevi posto la domanda così, in modo retorico.
Ti allontanasti senza dire una parola e solo quando arrivasti alla porta ti girasti a guardarmi ancora.
«Hai lasciato tutto quanto» dicesti.

 


«Non capisco perché stai ridendo. E non capisco neanche perché ti ostini a cercare di parlare con me quando è palese il fatto che tu mi stia infastidendo e basta.»
«Perché sei sempre da solo. E non ti ho mai visto ridere, a parte il giorno in cui ci siamo conosciuti, ma non conta perché lì la tua risata era cattiva.»
«”Conosciuti” è una parola grossa… e il fatto che io sia sempre da solo significa che voglio stare da solo. Sei capace di rispettare questo mio desiderio o devo cambiare spiaggia?»
«Come ti chiami?»
«Perché non mi lasci in pace, ragazzina? Per quanto ne sai potrei anche essere uno stupratore o un tossico.»
«Io mi chiamo Nadia.»
«Buon per te. Vedo che i tuoi amici stanno giocando a palla sulla riva, perché non vai con loro?»
«Non sei molto socievole.»
«Sei perspicace.»
«Hai sorriso.»
«Non è vero.»
«Ti ho visto.»
«Hai un ritardo mentale o sbaglio?»
«Posso sedermi vicino a te?»
«Fai come vuoi.»

 

   
 
Leggi le 18 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Shomer