Con loro
presenti, riuscì soltanto a scostargli la mano in modo scherzoso, quando provò a
sfiorarla, minimizzando il senso di imbarazzo e frustrazione che l’aveva invasa.
Con loro assenti, gli avrebbe torto il polso fino a spezzarglielo.
Come osava? Come osava, lui, lui che aveva trasformato il suo corpo in un
involucro vuoto, come osava sfiorarla? Quale parte di “Non t’azzardare mai
più a toccarmi” non gli aveva sufficientemente chiarito?
Mami deglutì a vuoto, la gola secca, china sul marmo bianco del gabinetto, per
poi lasciarsi entrare in bocca per intero indice e medio, in modo che le unghie
le premessero con una certa forza sull’ugola. Le faceva male la schiena, a furia
di ripetere senza successo quell’operazione, reprimendo forsennatamente il suo
istinto di sopravvivenza. Rigettò con rabbia, a fiotti, sebbene avesse toccato
ben poco cibo. Rigettò prevalentemente bile, con una mano poggiata al muro, sul
lato, e le ginocchia ben piantate a terra, come in segno di protesta. Non si
sarebbe schiodata da là per un bel po’
Lui era abituato a sentire quei ridicoli rumori provenire dal bagno, dato
che quello spiacevole rituale si svolgeva quasi ogni giorno, da quando le aveva
detto una certa cosa. Non che le avesse dato chissà quale notiziona, in effetti:
le aveva semplicemente chiarito una clausola del contratto, né più né meno di
questo. Non c’era bisogno di fare tanta scena, per avere ottenuto una così
grande comodità; si sarebbe, anzi, aspettato un ringraziamento. Scrollò le
spalle e tornò a guardare il soffitto con indifferenza. Perché tutte le ragazze
reagivano dannatamente male, a quella notizia?
Mami aveva gli
occhi appannati dalla stanchezza e dalle lacrime. Si asciugò rozzamente le
labbra passandovi una mano, ma non si sollevò. Si limitò a fissare un punto non
precisato del muro, e un’assurda serie di pensieri le affollò la mente, in uno
di quei flussi di coscienza che la mandavano in bestia o le toglievano il sonno.
Perché Kyuubei si fosse insediato a casa sua – principalmente per infastidirla –
non lo sapeva, non sapeva neppure perché avesse accettato di non crepare tra
atroci sofferenze. Sapeva soltanto che svuotarsi lo stomaco equivaleva a
svuotarsi la mente; le dava una sensazione quasi rassicurante, come se in quel
modo stesse regredendo ad uno stadio umano. Eppure, quello stesso comportamento
sarebbe stato considerato inumano. Autodistruggersi per ritrovarsi. Le era
sembrato un meccanismo quanto mai logico, ma soprattutto liberatorio; specie da
quando aveva scoperto di essere stata trasformata in uno zombie.
Isteria?
Tendenze melodrammatiche?
Macché. Si trattava di un’ascesi grottesca, di una via di liberazione dal dolore
e dalla sofferenza attraverso il dolore stesso. Disprezzarsi in privato per
apparire perfetta ed impeccabile davanti a Madoka Kaname e compagne. Come per il
contratto, per la felicità di qualcuno doveva esserci un eguale quantitativo di
disperazione, solo che nel suo caso il concetto era applicato in toto a se
stessa. Così, ogni qual volta rimaneva sola, sentiva l’urgenza di lesionarsi. Si
feriva di proposito con gli utensili da cucina, faceva la fame apposta, o, nella
maggior parte dei casi, si induceva il vomito, stando china su un cesso con i
capelli tirati indietro per delle buone mezz’ore. Se lo facesse per attirare
l’attenzione del suo giovane ed affascinante ospite straniero o semplicemente
perché sentiva l’urgenza di suicidarsi senza davvero morire, non sapeva più
dirlo.
L’albino si alzò con movimenti lenti ed ampi dal letto profumato e pieno di cuscini della ragazza, luogo che soleva usurpare con o senza di lei presente – ma soprattutto quando era presente e smaniava per andare a letto; trovava divino tormentarla, ma non con intenzioni sadiche, o con qualsiasi sentimento umano in generale, semplicemente perché gli serviva un giocattolino con cui occupare il tempo tra un contratto e un altro. E Mami si prestava perfettamente al ruolo, con quella sua pretesa di autodistruzione come prova della sua esistenza. Kyuubei si dilettava nell’osservarla mentre cucinava e improvvisamente si procurava tagli sulle dita apposta, o quando non mangiava – lasciandogli campo libero -, o meglio ancora quando si rinchiudeva nel bagno e ne usciva stravolta chissà quanto tempo dopo, per poi accasciarsi sulle lenzuola color crema totalmente ignara di causargli ogni volta un attacco di ridarella che a stento riusciva a reprimere. Non provava emozioni, ma del sano divertimento poteva essere concesso pure ad un Incubator, no? Si diresse verso il bagno, pregustando le imprecazioni di lei.
Mami non si
rialzava. Se ne stava lì, col fiatone, neanche avesse corso una maratona, con lo
sguardo vitreo a sperare che qualcosa le desse la forza di fare leva sulle
ginocchia e cambiare quantomeno posizione. Era imbarazzante, e quanto mai
deprimente fare la fine della povera derelitta, ma che cosa le cambiava?
Umiliazione più, umiliazione meno, chi se ne frega, pensava. Tentò di
risollevarsi, quando sentì un piede piantarsi nella sua schiena, dritto in mezzo
alle scapole. Non era neppure un vero e proprio calcio, c’era soltanto quel
fastidiosissimo piede che le premeva sulla colonna vertebrale. Mami ringhiò
impercettibilmente, scivolando di lato, sul pavimento. Il piede del ragazzo le
si spostò sul viso.
«Sei patetica», le disse Kyuubei, serafico, facendo lievemente pressione.
Mami non rispose. Si limitò a cercare di evitare il contatto visivo. L’alieno si
chinò verso la ragazza, prendendole il mento tra pollice e indice.
«Lo sai che comportandoti da bambina bisognosa di attenzioni non cambierà nulla,
vero? Dimmi che almeno di questo sei consapevole»
Si trattenne a stento dallo scoppiare a piangere, quando le disse quelle parole.
La freddezza quasi metallica con cui scandì ogni singola lettera, il ghigno che
increspava di poco le labbra sottili di lui mentre la umiliava per l’ennesima
volta, la consapevolezza di essere alla sua completa mercé, erano cose che
difficilmente potevano essere sopportate tutte insieme. Lui, per tutta risposta,
continuò ad insistere affinché lo guardasse negli occhi. Affinché annegasse
nelle sue iridi color sangue. Pareva che torturarla fosse il suo passatempo
preferito, anche se ancora non si capacitava del perché fosse stata scelta per
quel ruolo. Non l’aveva mai visto dare fastidio alle altre come faceva con lei.
Era privilegiata, in un certo senso: aveva avuto l’onore di essere stata
designata come capro espiatorio di un esponente di una razza superiore. Avrebbe
dovuto gioirne?
«Lasciami in pace», riuscì soltanto a sussurrargli, cercando di apparire quanto
più minacciosa le riuscisse. Kyuubei si limitò a ricambiare quella frase con un
sorriso ed una risposta asettica delle sue.
«Allora vedi di crepare in fretta ed in silenzio. Questo è molto più divertente
di vederti tutta affannata a rischiare di farti ammazzare dalle tue simili.
Distruggiti pure da sola: a me non interessa»
Le lasciò il viso e tornò nella stanza adiacente. Mami rimase sul pavimento a
fissare il soffitto, a sperare invano che morte la cogliesse lì sul momento.