Qualsiasi
cappuccio che fosse bianco, nel raggio di chilometri nelle lunghe e
luminose piazze di Roma, era di sicuro un assassino. Quindi, noi
guardie di Cesare Borgia, accerchiavamo quello che doveva essere per
forza il nostro obiettivo e poi, la donna spaventata che indossava quel
candido colore, scappava via terrorizzata chiamandoci inetti e
incompetenti. L’ennesimo fallimento, l’ennesima
sconfitta. Gli Assassini ce la facevano sotto il naso e noi poveri cani a
stargli dietro, ma mi sembrava che invece di braccarli e ucciderli,
giravamo in tondo cercando di prendere le nostre code, come animali
impazziti. Mi sembrava inoltre di lavorare da una vita nell’esercito
dell’ispanico Borgia, che risiedeva ormai nella mia
città, comandandola e riverendola, trattandola come se fosse
una donna alla quale le si doveva offrire un sacrificio. Roma non
era così. Roma è allegra, accecata dalla
lussuria e dalla bella vita. E’ calda e misteriosa, sa
donarti il cuore e sa pugnalarti a dovere, se la tradisci. Io non sapevo se
la stavo tradendo, servendo Cesare Borgia. Ma l’ispanico pagava
bene e mi dispiaceva per la mia adorata Roma, ma preferisco vestire in
divisa e portare un arma, piuttosto che vivere di stenti e vendere il
mio corpo per sopravvivere. Già, vendere il mio
corpo… All’inizio non fu
piacevole. Proprio per niente. Il culo bruciava sempre più,
anche quando lo davo più di tre volte al giorno. Il mio nome
era così tanto sussurrato tra i deviati, che arrivai a servire i signorotti alla Rosa in Fiore.
Nessun uomo era ammesso dentro quelle mura, a meno che non sapevi
portare con grazia un corpetto e avevi un igiene personale impeccabile.
Io avevo quei requisiti e anche se non indossavo più il
corpetto, li avevo ancora. Per questo mi piaceva portare la maglia della
divisa più stretta della mia misura attuale e scherzare con
i miei compagni di plotone sul sedere delle cortigiane a passeggio. In
questo modo nessuno poteva notare quanto io fossi differente da
loro. Di quanto avessi vissuto più io di Roma e di tutte le
sue bellezze rispetto a questi giovani baldi ancora senza barba. Di come
conoscevo il nome di ogni cortigiana che mi passava davanti agli occhi.
E ultimamente le loro chiacchere si facevano sempre più chiare
alle mie orecchie.
Ezio Auditore, colui che teneva unita la Fratellanza degli Assassini,
era solito frequentare le giovani e prosperose cortigiane che
affollavano la piazza durante la calura estiva. Sotto quei vessilli che con
tanto ardore portava, pulsava qualcosa che le ragazze non avevano mai visto,
nè “sentito dentro” con tanto vigore. La
curiosità cresceva, in rare occasioni avevo davvero goduto di
quelle poche unioni che avevo avuto con bellissimi uomini di Roma e non, ma non riuscivo a spiegarmi il perchè le cortigiane,
che di solito sputavano veleno e sentenze anche per il solo minimo
errore da parte di un uomo, fossero tutte indiscriminatamente
d’accordo su ogni dettaglio. Nessuna contraddiceva. Nessuna
faceva occhiatacce. Nessuna aveva mai detto “ho dovuto
fingere con quell'adone vestito di bianco.” Niente. A quel
punto la mia curiosità era arrivata al limite. Il mio
vecchio lavoro stava riportando a galla vecchi trucchi che mi avevano
fatto andare avanti in questa Roma tortuosa di viuzze poco
rassicuranti. La notte successiva riuscì a parlare con una
mia vecchia conoscenza e la invitai ad entrare alla Volpe addormentata.
Rosa si sedette con grazia sullo sgabello al bancone. Ordinai due birre
e lei cominciò a raccontare, senza altri fronzoli. Lei
sapeva su cosa volevo essere informato. Il suo charme e la sua acutezza
erano spaventose, ma al Rosa in Fiore erano utili.
“Era da tanto che non ti vedevo, mio caro
Francesco.”
“Ho avuto il mio daffare.”
Rosa bevve un sorso dal suo bicchiere. Si leccò con fare
lascivo le labbra. “Tesoro, l’unica cosa con cui
dovresti avere gran daffare è torturare e sedurre Cesare
Borgia. E’ talmente duro e arrogante che avrebbe bisogno di
un altro uomo per dominarlo. Tu saresti di sicuro quello che lo
potrebbe legare a letto.”
Per poco la birra non mi andò di traverso.
“Rosa, ti prego…”
“Ti prego proprio un bel niente, è
l’uomo più bello che io abbia mai visto.”
“Più bello di Auditore?”
Prima di rispondere, Rosa scrutò tra i tavoli del locale.
Bevve un lungo sorso e poi finalmente disse quello che volevo sentire.
“Auditore è molto più bello. E anche
molto più duraturo. In pratica… Potrebbe
continuare per ore. E’ un amante eccezionale.” La
voce di Rosa si assottigliò, diventando un suono solo di
pura lussuria. Ripensando all’Auditore si era morsa il
labbro, era arrossita. Giocava nervosamente con
l’arricciatura del suo splendido vestito oro e blu. Aveva
sospirato in modo indecente, tanto che il barista si era fermato a
guardarla e La Volpe, con uno schiaffo sul cozzetto, lo aveva fatto
tornare al lavoro. Il vecchio Volpone ci passò vicino, sorridendo come di consueto. Di solito La Volpe non badava a chi
frequentasse il locale, ma io, che ero comunque un nemico degli
Assassini, facevo eccezione. E Rosa era sempre la benvenuta. Era la
pupilla di Gilberto.
“Rosa! Mio dolce fiore…”
“Buonasera Gilberto.”
Rosa diede un bacio a fior di labbra a Gilberto e
quest’ultimo si limitò a passarle la mano su tutta
la schiena, attardandosi sull’osso sacro.
“Sei uno splendore.”
“E i tuoi occhi sono davvero luminosi stasera. Hai per caso
visto Machiavelli?”
La Volpe rise. E si allontanò ridendo. Rosa aveva ancora una
volta ragione. Come facesse, io davvero non lo avrei mai saputo.
“Torniamo a noi. Auditore. Ti piacerebbe
incontrarlo?”
Stavolta sputai la birra su tutto il banco. Il barista mi
guardò, spiazzato, montando una rabbia che non avevo mai
visto. Mi buttò uno straccio in faccia e puntò il
dito sul disastro. “PULISCI!” e cominciai a
strofinare.
“Io… Ero solo curioso. Non voglio
incontrarlo.”
“Ma certo, altrimenti Cesare potrebbe metterti alla
gogna… Non mi prendere per i fondelli.”
Arrossì, ma lei non vide il mio sguardo tormentato. Non
riuscivo più a vedere il banco di legno. “Senti
Rosa, ho sentito delle voci e volevo conferme. Non ho voglia di tornare
alla mia vecchia vita. La curiosità è stata forte
e perciò ho chiesto come stanno le cose, tutto
qui…” Non sapevo se la mia voce fosse convincente,
ma Rosa non disse più nulla. “D’accordo
piccolo… Hai ragione nel dire che la tua vecchia vita non ti
manca, ma… Se qualche dubbio comincia a raffiorare, vuol
dire che non sei riuscito ad abbandonarla del tutto.”
Rosa si alzò, si mise il cappuccio, salutò La
Volpe e il resto della combriccola presente lì dentro e se
ne andò, lasciandomi come un cretino nella pozza di birra
che il banco di legno stava lentamente assorbendo.
Non sono riuscito ad abbandonare la mia vecchia vita, mi ripetei nei
giorni seguenti. Guardo i miei compagni che si smazzano, pur di essere
tra le grazie di Cesare. Leccare il culo ad un viscido ispanico che ha
preso tra le redini il Destino di Roma. Vivere sapendo che
quest’uomo in parte non sa cosa sta facendo. Tutto
ciò è disgustoso. Mi sentì un moto dentro che mi
fece venire il voltastomaco. Realizzai che, come romano, facevo schifo.
Non ero degno di questa città, nè di far parte
dell’esercito di Cesare.
Qualche ora più tardi, mi sedetti sconfortato
all’ombra di un pilastro, nella piazzetta appena fuori dal
mio campo. Faceva ancora più caldo del giorno precedente. Forse era
il mio stato d’animo che mi faceva accaldare così. O
forse erano i cappucci bianchi che vedevo in lontananza. Ma ormai non
avrei più seguito un cappuccio bianco per imbrattarlo di sangue.
Ma solo per domandare loro in che modo avrei potuto incontrare Ezio Auditore. Il racconto
di Rosa mi aveva sconvolto dentro in qualche modo. Poggiai l’arma
sulle mie gambe per celarmi il viso con le mani, tentando di cacciare
qualsiasi sensazione che non mi facesse stare bene.
“Ma cosa sto facendo?” Mi domandai. Non ero
più sicuro di me e della vita che stavo facendo. Se potessi
ricominciare da capo, mi dissi, forse sarebbe potuto andare tutto diversamente.
-Se qualche dubbio comincia a raffiorare, vuol dire che non sei
riuscito ad abbandonarla del tutto-
Rosa aveva ragione. Maledettamente ragione. Non ero un uomo che cedeva alle
lacrime, ma se avessi potuto piangere, a quest'ora anche i miei compagni si sarebbero chiesti se fossi uscito di senno.
“Devo trovare un modo per ricominciare.”
“Che ne diresti di un bacio per iniziare?”
La voce alle mie spalle aveva un timbro rauco, profondo. Si portava dietro
una saggezza che Cesare non possedeva. Una verve che fa sciogliere
chiunque in brodo di giuggiole.
Ezio Auditore era alle mie spalle, la sua figura imponente ma
delicata facave sparire tutto ciò che era
intorno a me. La mia lancia rimase in equilibrio sulle mie gambe e non
riuscì a muovere un muscolo. Ezio aveva due meravigliosi occhi color oro e un
aspetto vigoroso e forte, ma stanco in qualche modo. L’ombra
del suo cappuccio mi impediva di guardarlo meglio.
“Come hai fatto ad entrare?”
“Qualsiasi passaggio non ha segreti per me.”
“Do-do… Dovrei gridare Assassino e farti
catturare, Cesare ti vuole vivo.”
“Cesare può desiderare ciò che vuole,
ma tu, Francesco… Cosa desideri tu?”
Mi lasciò senza fiato. L’Assassino si fece più
vicino, pericolosamente più vicino.
“Come sai il mio nome?”
“Rosa mi ha spiegato tutto. E’ davvero una ragazza
intelligente.”
I muscoli all'improvviso reagirono e cercai di afferrare la lancia, ma Ezio bloccò con prontezza i
polsi. Non potevo resistergli ormai.
“Forse dovresti ringraziarla.”
“Non credo siano affari di un Assassino.”
Ezio rise.
“Allora lascia che almeno per questa volta, mi occupi solo di
un affare, e me ne andrò…”
Con le braccia tese all’indietro e la testa piegata di lato,
Ezio prese a baciarmi. Fu un tocco leggero, ma carico
di chissà quali promesse per il futuro. Ezio mosse le sue
labbra con lentezza e sensualità. Sentì l’erezione
che pulsava nei pantaloni. Il fiato si fece corto e la maglia era
divenuta ad un tratto una fastidiosa morsa. Chiusi gli occhi, aprendo la bocca, chiedendo di
più, gemendo quanto bastava. Ma Ezio era
già sparito. Riaprì gli occhi per ritrovarmi solo, in balia
adesso di un grande vuoto e di un grande calore che mi attanagliava il
petto. Vicino a me notai un biglietto. Lo aprì con mani tremanti. Scritto in una grafia
elegante, vi era segnato un orario e un luogo
d’incontro. Con una nota.
“Ricominciare è stato facile vero?”
Sorrisi.
Mi alzai e abbandonai la lancia e il cappello sulla lastra di pietra. Con quel bacio, avevo compreso cosa dovevo fare, e a quale Fede dovevo credere.
A quale cammino dovevo seguire. Quello di Ezio Auditore e del suo corteo
di cappucci bianchi.
|