Collocazione:
boh. Pre-Reichenbach, forse... ma anche post, ipotizzandola dopo il
ritorno di Sherlock e previo totale riavvicinamento dei due. Fate
vobis.
L'idea m'è
venuta un paio di giorni fa. Lo sviluppo, come al solito, se n'è
andato per i fatti suoi. Ma devo ammettere che, nonostante mi sia
venuta fuori un po' più seria del previsto, sono riuscita a
mantenermi sulla linea iniziale.
Fornitevi
queste utilissime (!) informazioni, vi lascio alla storia (e al
soundtrack: Last
Friday Night, di Katy Perry)... buona lettura!
That
Awkward Moment
Quel momento
imbarazzante in cui ti svegli nel tuo letto e cerchi di mettere a
fuoco il mondo intorno a te, ma c'è un'allucinante emicrania da
post-sbronza che te lo impedisce. E l'unica cosa che riesci a capire
è che il corpo nudo e bollente al quale sei avvinghiato è quello del
tuo migliore amico. E per un agghiacciante, lunghissimo attimo di puro
panico, non ricordi assolutamente niente.
Che cazzo è
successo ieri notte?!
Undici ore
prima.
Quel momento
imbarazzante in cui ti ritrovi a ricordare a te stesso che non sei
omofobo. Te lo dici esattamente come se lo dovessi chiarire a qualcuno:
io non sono omofobo. Proprio no.
Insomma, mia
sorella è lesbica e le ho fatto pure da testimone di nozze. Uno dei
miei commilitoni ai tempi dell'Afghanistan aveva un ragazzo che lo
aspettava a casa: lui era la mia spalla in combattimento. Ho votato
“sì” al referendum sul matrimonio tra gay.
Adulto,
sicuro e consensuale: questa è la mia idea di sesso. Entro questi
limiti, ognuno può gestire come gli pare i propri organi genitali. I
gusti sono gusti e non si discutono, giusto?
Giusto.
Bene.
Ecco, dopo
questa premessa, si sarà capito che io non sono il classico tipo
conservatore e pieno di pregiudizi. E però – però, sì, c'è un
“però”. Però, questo non significa che avrei mai potuto
immaginare che un qualsiasi venerdì sera di giugno mi
sarei ritrovato a bere un Apple Martini in un gay club con il mio
coinquilino.
– Non mi
piace il Martini. Nemmeno col succo di mela. – rivolgo una smorfia
al contenuto del bicchiere e do una mescolata con la cannuccia rosa
fluo – Perché me l'hai fatto prendere? –
Sherlock mi
risponde senza guardarmi: – Pare che sia adatto alla situazione. –
– Come i
vestiti? – ribatto scettico.
“È per un
caso, John.” mi fa lui. Sempre così: o è per un caso o si tratta
di un esperimento. E io sono talmente autolesionista da dargli sempre
corda.
– Non ho
ancora capito perché devo indossare questa
roba. –
Mi muovo
nervosamente sullo sgabello su cui sono appollaiato, tirando sui
fianchi la maglietta taglia 12-14 anni. È un orrore color canarino
che fa a pugni con i jeans skinny viola melanzana che Sherolck mi ha
costretto ad indossare. 19£ in tutto – 19£ che entro stasera
finiranno nella spazzatura. Perché lui può indossare le sue solite
cose e io devo bardarmi come il peggior caso di sassy gay di Londra?
Se qualcuno lo viene a sapere, la mia reputazione è distrutta!
– Non so
perché, ma ho l'impressione che entrare in un gay club con uno dei tuoi
maglioni, avrebbe fatto saltare la nostra copertura. – fa lui con
malcelato sarcasmo.
Sospiro
pesantemente e riprendo in mano il mio Apple Martini. Fa schifo, ma è
pur sempre alcol e mi è utile per affogarci la vergogna.
– Ripetimi
che aspetto ha il nostro uomo. – gli chiedo masticando nervosamente
la cannuccia.
Mi guardo
intorno mentre Sherlock snocciola una descrizione di chi stiamo
cercando.
– Sui
quarant'anni e di bell'aspetto? Qui è pieno di gente che corrisponde
a questa descrizione. – gli faccio notare.
Ingollo una
sorsata e mi giro sullo sgabello, le braccia conserte sul bancone e
la schiena curva, scandagliando la sala alle mie spalle attraverso il
riflesso dello specchio sullo sfondo.
Certo, è
un'esperienza interessante. Antropologicamente parlando, intendo. Mi
fornisce lo spaccato di una Londra che proprio non conoscevo. E che
avrei anche fatto a meno di conoscere, francamente, per lo meno
quando si concretizza in palestrati con la maglia traforata e le
sopracciglia ossigenate che non mi schiodano gli occhi di dosso.
Batto le palpebre e distolgo lo sguardo di colpo, arrossendo
stupidamente. Non stanno ammirando il modello del mio orologio,
noto quando mi rendo conto di come questi dannati jeans riescano a scoprirmi metà
del culo.
– John,
quando ti deciderai ad ascoltare? – sospira Sherlock.
– Oh,
bene, sentiamo. – faccio seccato – Cosa mi è sfuggito? –
– Questo
non è uno degli habitué che vengono qui ogni settimana. Non lo
troveremo a scherzare con il proprietario e a scambiarsi opinioni
sull'ultima puntata di Queer as Folks con i suoi amici. – mi spiega
annoiato, mentre passa in rassegna con lo sguardo ogni singola
persona che entra nel locale – Questo è un devoto padre di
famiglia, media borghesia, lavoro d'ufficio, a messa ogni domenica e
tessera del partito laburista nel portafoglio, accanto alla foto
della nonna decorata crocerossina nella seconda guerra mondiale. È
un omosessuale latente, un ipocrita reazionario, troppo inquadrato
nei suoi schemi sociali per accettare l'idea che sarebbe più onesto
divorziare e dedicarsi al design di giocattoli fetish, piuttosto che
continuare questa farsa. Quando non ne può più di fingere piacere
durante gli amplessi coniugali, dice alla moglie di avere un meeting
aziendale a Liverpool e sgattaiola in uno di questi locali. Rimorchia
qualcuno con evidenti doti e un occhio speciale per il suo
portafoglio, e puntualmente si fa fregare. Si può così giungere al
rituale di discolpa, grazie al quale lui, entrando nella parte del
giustiziere, può rivalersi sulla sua stessa natura repressa. E qui
entra in gioco Lestrade e la sua totale incapacità di venire a capo
della serie di omicidi di Soho a sfondo omoerotico. Dio, ma come si
può essere così stupidi da cadere in una trappola talmente
ovvia?! –
Schiocco le
labbra e lo guardo da sopra la spalla.
– Sei una
fottuta macchina. – commento scotendo la testa – Non hai la
minima empatia. –
Inarca le
sopracciglia: – Non sono pagato per avere empatia, John. –
– Touché.
– ammetto candidamente – Ma non hai ancora risposto alla mia
domanda. –
– Tecnicamente
non era una domanda, ma un'affermazione. Alla quale ho replicato con
argomentazioni a mio parere lapalissiane. Ma, se ancora non ti fosse
chiaro, quello che dobbiamo cercare è un uomo sui quarant'anni e di
bell'aspetto, come già ti ho informato. Un uomo che si muove in
questo ambiente con evidente imbarazzo, cercando di soddisfare la sua
curiosità senza destare l'attenzione. Indossa abiti perfettamente
adatti alla situazione, anche troppo se vogliamo, senza tuttavia
sentirsi a suo agio in essi. E si guarda attorno con l'aria di chi
sta cercando un possibile compagno di scopate. –
La sorsata
di Martini mi va di traverso, mescolando alla risata una tosse
convulsa. Sherlock mi lancia un'occhiata di disappunto. Il fatto è
che certe terminologie, lo slang sporco, be', sulla sua bocca sono
davvero una cosa strana per me.
– Cosa? –
mi fa.
E io mi
schiarisco la voce e borbotto un “Niente”.
– Oh,
l'hai notato anche tu. –
Mi volto
appena: – Che cosa? –
– La
descrizione. – dice con noncuranza – Corrisponde in maniera
bizzarra a te. –
Ed è la
seconda volta che mi strozzo. Avrò sentore di Apple Martini su per
il naso per una settimana, accidenti!
– Come...
cosa... – annaspo – Che cosa vorresti dire? Io non sono un
omosessuale latente! –
– Oh, lo
so bene, John. Ma lasciati dire che in questo frangente non risulti
molto credibile. –
Ribatterei
volentieri con qualcosa di caustico, se non fosse che ho notato un
cambiamento in lui. Il cambiamento, ad esser precisi. La
parlata si è fatta gradualmente più lenta e bassa, gli occhi si
sono dilatati: ha adocchiato il nostro obbiettivo. L'omicida è
entrato nel locale. Seguo la direzione del suo sguardo e torno a fare
finta di dedicarmi al Martini.
– Camicia
color menta? – sussurro tenendolo d'occhio sul riflesso.
Sherlock
annuisce lentamente. Per la miseria, è esattamente come descritto da
lui! Non smetterò mai di stupirmi della precisione delle sue
ricostruzioni.
La tensione
sale, l'adrenalina inizia a lavorare. Vorrei aver portato con me la
pistola, ma vestito come sono sarebbe stato a dir poco ridicolo
cercare di nascondermela addosso.
Passiamo la
seguente mezzora più o meno immobili, studiando l'uomo da lontano,
aspettando una sua mossa. Per quanto non dubiti delle deduzioni di
Sherlock, dobbiamo attendere con pazienza per poterlo cogliere sul
fatto.
Al terzo
Martini comincio ad essere stordito, assonnato (a me l'alcol fa
effetto sonnifero, nell'esercito perdevo sempre alle gare alcoliche)
e piuttosto scazzato. Per lo meno la musica è decente, ma piuttosto
che mettermi a ballare – qui, in mezzo a questa gente
– torno a Baskerville e mi dichiaro volontario per la
sperimentazione sull'uomo.
– Dimmi
che entro trenta secondi si alzerà da lì e abborderà qualcuno. –
mugugno, la guancia appoggiata al pugno.
– Entro
trenta secondi si alzerà da lì e abborderà qualcuno. – ripete
meccanicamente.
– Davvero?
– faccio con blanda speranza.
Scuote la
testa: – No. –
– Perché
ci mette così tanto?! – mi lamento, scrollando la testa sulla
superficie fredda del bancone.
Mi sento uno
straccio: avrei dovuto fermarmi al secondo Martini.
– La
ricerca della preda adatta è un'arte, John. – afferma altezzoso.
Lo guardo
con muta costernazione.
– Non puoi
capire. – aggiunge con uno sbuffo.
– No, io
non voglio capire cosa ne sai tu dei meccanismi psicologici
che scattano nella testa un serial killer omo-latente. – biascico,
mettendo insieme mezze parole e creando nuovi, meravigliosi termini.
– John,
bevi. – m'ingiunge con aria infastidita, e poi si rivolge al
barista – Un altro Apple Martini per il mio amico, grazie. –
No, basta!
All'ennesimo bicchiere di quello schifo che mi viene messo davanti,
emetto un mugugno disperato.
– Devo
proprio? – piagnucolo guardandolo affranto.
È allora
che Sherlock s'irrigidisce. Ruota appena la testa, saettando gli
occhi qua e là.
– In
effetti, no. – dice piano.
Oh-oh.
Quell'espressione la conosco e non promette niente di buono.
– Baciami.
–
D'improvviso
sono tornato di nuovo totalmente, perfettamente vigile.
– Scusa? –
Si sporge
verso di me, invadendo come suo solito il mio spazio vitale e
obbligandomi a piegarmi all'indietro, le mani saldamente artigliate
alla seduta dello sgabello per evitare di perdere l'equilibrio.
– John,
baciami. – ripete, gli occhi fissi nei miei.
Deglutisco a
vuoto: – No. –
Non ho idea
di cosa stia succedendo, ma ho un campanello d'allarme che mi sta
sfondando la scatola cranica.
– Siamo
fermi qui da – alza il polso e guarda l'ora –
cinquantacinque minuti e non abbiamo scambiato alcuna effusione. Non
possiamo dare nell'occhio ulteriormente. –
– Non
potremmo... solo... – balbetto pateticamente, senza sapere nemmeno
come terminare la frase.
– Ballare?
– suggerisce lui, un sopracciglio ironicamente inarcato.
– O ci
baciamo o balliamo, John. – muove le mani a mostrare le coppie (e i
gruppi promiscui) intorno a noi – Non sembra che ci siano molte
altre opzioni per passare il tempo qua dentro. –
Boccheggio
come un pesce fuor d'acqua. Se mi alzassi e barcollassi fuori, forse
riuscirei a chiamare Lestrade per farmi portare in salvo.
– Vuoi che
la nostra copertura salti? – insiste lui.
– No,
ma... –
– Allora
baciami. –
È
incalzante e io non sono abbastanza lucido per contrastarlo in
maniera decente. Non lo sono da sobrio, figuriamoci adesso! Finirò
per dire qualche minchiata, me lo sento.
– Perché
devo essere io?! Perché non lo fai tu? –
Ecco,
appunto.
– Oh. –
fa lui vagamente stupito, poi scrolla le spalle – Come preferisci.
–
Quel momento
imbarazzante in cui sei sbronzo di Apple Martini e il tuo migliore
amico ti bacia sotto le luci rifratte della palla stroboscopica di un
gay club. E ti sta piacendo.
Contare i
secondi tra un movimento di lingua e un morso. E perdere il conto
miseramente.
Le mani che
si staccano dalla seduta. Perché non serve più ancorarsi allo
sgabello: adesso sono tutto proteso in avanti, verso di lui. Le mani
che se ne vanno per conto loro – bastarde traditrici! – e gli
afferrano una coscia. E si perdono tra i capelli. E non ci posso
credere che è fatto di carne come me.
L'attimo in
cui ci separiamo. Il sospiro che rilascia a testa china, facendomi
rabbrividire le labbra umide di saliva. Le sue labbra umide e
gonfie. Il mugolio che gli vibra in gola quando lo afferro per la
nuca per riprendere da dove avevamo interrotto.
Le sue
nocche contro la mia cute e una mano all'altezza del cuore. Mi sta
esplodendo nella gabbia toracica, riecheggiando un ritmo tutto suo,
sovrastando il rombo dei bassi del locale.
– Ok,
credo che... sia sufficiente. –
CRACK.
Il ritmo s'interrompe ed è tutto come prima. Peggio di prima. Non
è una bella sensazione.
Mi mordo il
labbro. Deglutisco. Respiro. Gli occhi fissi sullo specchio. La
presenza di Sherlock a un palmo da me che appare lontanissima. Ho un
mostro, lì, dietro lo sterno, che mi scava una voragine con unghie
bestiali. Non riesco a pensare e forse è meglio così: non credo
che sarei grato di averne la capacità.
– Si
muove. –
Sherlock è
in piedi accanto a me e mi azzardo a voltarmi, l'attenzione
forzatamente concentrata sul nostro assassino, la mente felicemente
occupata da qualcos'altro che non sia la consistenza e il sapore di
Sherlock e lo stupido desiderio di avere un telecomando
spazio-temporale per poter fare rewind tutte le volte che voglio.
Rientrare in
modalità “caso in corso” non è un cazzo facile, ma quando sei
concentrato sul pedinare un sospetto serial killer e la sua
probabile prossima vittima, riesci in qualche modo a ritrovare parte di
quella sicurezza che è andata perduta in una pomiciata a tradimento.
– Per
quanto dobbiamo stare qua? – sussurro, stretto assieme a Sherlock
nell'angolo della scala antincendio che dà all'appartamento della
vittima.
I suoni che
provengono dalla finestra socchiusa sono quantomai espliciti.
– Se non
gradisci, puoi sempre tapparti le orecchie. – fa lui, l'attenzione
tutta alle voci.
Seccato,
stringo le labbra e soffio via l'aria.
– Vorrei
solo evitare di arrivare a frittata fatta. – commento tra i denti.
– Quando
sentiremo sparare... –
– Sparare?!
– sibilo atterrito – Sherlock, non possiamo... –
BANG!
Urla. Luci
che si accendono alle finestre degli appartamenti intorno. La sirena
di un allarme che parte impazzita. Lo scalpiccio dei nostri piedi
sulla superficie metallica delle scale antincendio e i nostri respiri
forzati.
Sherlock
rompe il vetro con un gomito, fa sgusciare il braccio tra i frantumi e
apre la finestra. Ci infiliamo nell'appartamento. Due figure seminude
annaspano in una lotta sul pavimento di moquette. Individuo il nostro
uomo e lo metto fuori gioco. Sherlock si muove fluido per terra e si
rialza con due pistole.
– Chiama
Lestrade. – dice ansante, le canne puntate l'una all'uomo e l'altra
al ragazzo – Digli che abbiamo un omicida seriale e un potenziale
omicida. –
Il
successivo quarto d'ora, è il peggiore che quei due poveri
disgraziati si ritrovano a dover vivere. Mentre Sherlock li interroga
a modo suo – ovvero deducendo la loro intera esistenza senza
interpellarli minimamente – intercetto sguardi supplichevoli nella
mia direzione, cui non so rispondere se non con un'espressione
compassionevole. Sono certo che saluteranno le volanti di Scotland
Yard come angeli liberatori.
Il signor
Patrick Adams confessa senza troppi giri di parole di essere il
nostro serial killer di Soho. Ma questa volta ha rischiato di essere
lui la vittima. Perché a quanto pare Steve Carter non ha digerito il
fatto che sei mesi fa, quando ancora la “carriera” di Adams era
agli esordi, la morte del suo ragazzo sia stata archiviata dalla
polizia come suicidio. E così Carter si è messo ad indagare per
conto suo ed è arrivato ad individuare l'assassino prima di Scotland
Yard e di Sherlock Holmes messi assieme.
Le sirene
delle volanti iniziano a riempire l'aria e infine si fermano sotto il
palazzo, i loro lampeggianti che rimbalzano sulle pareti.
L'espressione che mi rivolge Donovan mi fa venire voglia di
scaraventarla dalla finestra. Lestrade strabuzza gli occhi, poi
scuote la testa borbottando un “Non voglio sapere niente”, con le
mani alzate. Il loro arrivo dà modo a Sherlock di ripetere il
teatrino e mettersi in mostra come gli piace tanto. E dà modo a me
di notare, sotto le luci gialle dei lampioni, il sangue che cola
dalle sue dita.
– Sherlock!
– lo scatto fulmineo con cui mi avvicino ad afferrargli la mano fa
trasalire i presenti – Dannazione, quante volte ti devo dire di
stare attento ai vetri?! –
– Un
paramedico qui! – chiama Lestrade.
– No,
grazie. – dico deciso – Ci penso io, datemi solo l'occorrente. –
Non sanno
cosa gli sto risparmiando: curare Sherlock è come mettere piede in
una gabbia di cani idrofobi. Il mio spirito di sacrificio è immenso.
– Avanti
dillo. –
Lui non mi
guarda. Gli occhi seguono attenti i miei movimenti sulla sua mano.
– Cosa? –
Arriccio un
angolo della bocca: – Una delle tue frasi ad affetto sulla
dannosità dell'amore. –
– Sono a
corto d'immaginazione. –
Quel tono
piatto è allarmante. Di solito non va così. Di solito, a caso
chiuso, è tutto un fuoco d'artificio di autocompiacimento, un
vulcano di cazzate Sherlock-centriche. Che gli prende, adesso?
– Stai
bene? – mormoro, sinceramente preoccupato.
– Non lo
so. –
Alza gli
occhi su di me. È la prima volta che lo fa dal... da quella cosa
al gay club. Sentirsi aperto in due come una mela è un paragone
adeguato? Forse. Non so. Mai stato una cima con le metafore.
– Sei un
medico: dimmelo tu. –
Schiudo la
bocca, senza avere la benché minima idea di cosa dire. Sto
realizzando in questo momento un paio di meccanismi.
Per me il distacco temporaneo da
quel che è successo al locale è arrivato con lentezza. Sono
riuscito a passare gradualmente dal “mioddiocheccazzoèsuccesso”
alla “modalità caso in corso”, attraversando vari stadi di
shock post-traumatico e normalizzazione. Così come, quando abbiamo
chiuso il caso, ho avuto tempo e modo per far riemergere tutto con la
dovuta cautela.
Per lui no.
Non è andata così. Sherlock va a compartimenti stagni. Nonappena il
nostro serial killer si è mosso, lui ha chiuso in una cassaforte
quello che è successo e si è completamente dedicato al caso. Ma era
una cassaforte a tempo e nel momento in cui il caso è stato
risolto... CLACK ...la serratura si è aperta da sola,
riversandogli addosso tutto. Tutto. Esattamente come lo stava
provando in quel momento.
Cosa posso
leggere sul suo volto? Ho dalla mia parte un'empatia che a lui manca.
Posso dedurre più di quanto si aspetterebbe.
Paura,
incertezza, senso di colpa. Insicurezza – tanta insicurezza. Una microscopia
speranza, sepolta molto infondo, forse ignota anche a lui. Il tutto
mascherato da una fredda indifferenza che non ingannerebbe nessuno.
Ma è evidente la sua totale mancanza di bussola. Si è perso e non
lo vuole ammettere – stupido testardo!
Non so se
essere atterrito o mortalmente felice, perché questo significa solo
una cosa. L'ha fatto per la copertura, è stato orribilmente non
spontaneo e del tutto privo di sentimento. Ma qualcosa si è mosso
dentro di lui, come dentro di me. Qualcosa che non si aspettava e che
adesso lo sta tormentando.
E che cosa
dovrei dire, adesso? Niente, ecco. Meglio tacere.
Per una
volta sono io a lasciarlo con una domanda – ops, volevo dire,
un'affermazione – in sospeso. Un discorso aperto. Un interrogativo
che lampeggia sulla sua testa. E non so come si senta lui in questi
casi, non lo so davvero, ma io sono diviso tra la tronfia
soddisfazione e la lacerante tenerezza. E – lo confesso – più
che per un premeditato piano machiavellico, non gli dico niente solo
perché il mio cervello è sovraccarico della sensazioni del cuore e
non riesco a formulare una frase di senso compiuto.
Ho finito di
fare quel che devo fare, possiamo congedarci da Lestrade e tornarcene
a casa. Ancora troppo adrenalitici per lasciarci andare sui sedili di
un taxi, camminiamo fianco a fianco diretti a Baker Street. L'aria
fresca di questa notte estiva mi asciuga il sudore sulla schiena,
facendomi rabbrividire piacevolmente.
– Quello
che è successo al locale... – la sua voce morbida spezza il buio
frammentato della strada.
Ficco le
mani nelle tasche dei jeans e lo occhieggio. Devo solo dargli tempo.
Contrae le
sopracciglia, lo sguardo fisso sul marciapiede davanti a sé: – È
stato... –
Un errore?
Un stronzata? Una cosa da cancellare, dimenticare, seppellire?
– Bellissimo.
–
So di averlo
detto, ma è come se fosse accaduto al di fuori del piano materiale
in cui siamo. Come se a parlare fosse stato un altro me, qualcuno che
so di essere ma che ancora non ha avuto il modo di emergere. Sherlock
lo vede in questo stesso istante. Ondeggia tra di noi, pronto a
scappare via, tornare da dove è venuto e non farsi più vedere,
nascondersi. Prego che lo acchiappi in tempo, come io ho acchiappato
la sua frase e ci ho messo l'aggettivo giusto al momento giusto.
– Credevo
che gli uomini non ti piacessero. –
Dovrei
essere serio. Dovremmo essere seri entrambi, accidenti! Perché
questa è una cosa seria, no?
Ma sarà
l'adrenalina, la tensione, l'alcol. Sarà quella botta di endorfine
che ancora mi scorre nelle vene, obbligandomi a fissargli le labbra
tutte le volte che parla. Ma anche quando non parla. Diciamo sempre.
Sarà che
tutto questo è bello da morire. Insomma, non ce la faccio a stare
serio. Ma neanche un po'!
– Il fatto
che non mi piacciano in generale non significa che non possa
piacermene uno in particolare. – ribatto mordendomi la guancia per
non ridere apertamente (c'è un limite a tutto, dai).
Lui
intercetta la mia espressione e strozza un sorriso.
– Dunque...
–
Esilarante
il pensiero di aver ammutolito d'imbarazzo Sherlock.
– Sai
baciare bene. – gli vengo diplomaticamente incontro – Sai baciare
divinamente, per la precisione. –
Lui mi
guarda, gli occhi illuminati. Ha già capito, naturalmente.
– Sì. –
– E sei
bravo anche in altro? –
– Devo
ancora scoprirlo. –
Presente la
tenerezza di prima? Mi sta affogando.
– Hai
avuto poche relazioni, quindi? Con uomini o donne? –
– Entrambi.
–
– Un po'
di tempo che non stai con qualcuno, immagino. –
Mi fermo.
Lui mi imita. Ci guardiamo un momento, i volti tagliati dalla luce
netta dei lampioni.
– Abbastanza,
sì. – il sussurro che maschera l'adorabile imbarazzo in cui è
crollato – Anche troppo. –
Sherlock è
bravo con il cervello e le parole, io sono bravo con il cuore e le mani.
Al momento ho finito la scorta di parole: meglio tornare alle
origini.
– Ne vuoi ancora? – soffio sulle sue labbra, dopo avergliele divorate per
una frazione di secondo.
– Oh Dio,
sì. –
Sette ore
dopo.
Quel momento
imbarazzante in cui ti ritrovi a dover ammettere che sei senza dubbio
etero. Al 100%, proprio. Ma questo non ti ha impedito d'innamorarti
di un uomo.
Rettifica:
dell'uomo.
Indispensabile
precisazione: di Sherlock Holmes.
Guardarlo
dormire a fianco a me. Attorcigliato a me in un groviglio di coperte
e pelle e ossa sporgenti che mi si conficcano dappertutto.
Considerazioni
random senza senso, dettate dall'istupidimento mattutino e dal
rincoglionimento delle prime fasi d'amore. Tipo che non mi sarei mai
aspettato che fosse così caldo – non mi sarei mai aspettato di
scoprire che fosse così caldo. Tipo che credo di non averlo
mai visto dormire senza l'ausilio di droghe o altri espedienti
simili, ed è una visione troppo bella per contenerla tutta nel
petto: da un momento all'altro esploderò in un arcobaleno di
tenerezza o qualcosa di altrettanto zuccheroso. Tipo che ho di nuovo
voglia di fare l'amore con lui e che se non fosse così meraviglioso
avercelo addormentato tra le braccia l'avrei già svegliato a modo
mio. Tipo che...
– Smettila.
–
Incomprensione,
seguita da stupore e infine ilarità con un pizzico di vergogna.
– Seriamente,
John. – borbotta
stropicciandosi gli occhi – Vorrei sperare che non ti metta a farlo ogni mattina. –
Sbadiglia.
Mio Dio, è carino anche quando sbadiglia. Sono fottuto.
Poi batto le
palpebre, realizzando in quel momento che cosa ha detto.
– Vuoi
dire che ci saranno altre mattine? – dico cauto, quasi timoroso, neanche temessi di rendere concreto quel concetto solo dicendolo ad alta voce.
Sherlock
sostiene il mio sguardo indagatore.
– Promettimi
che non mi fisserai mentre dormo. –
– Promettimi
che ci saranno altre mattine. –
Stringe gli
occhi e muove la testa sul cuscino: – La facevo più acuto, dottor
Watson. –
Conosco
abbastanza bene Sherlock Holmes da capire cosa c'è dietro a questo
dialogo. Ed è difficile dire se sono più felice o spaventato o se
quello che sento è solo la totale follia che mi ha istillato
quest'uomo. Il mio uomo.
Chino la
testa su lui, sfiorandogli il naso col mio. Schiude le labbra e sospira.
Le mie dita sul suo collo, tra i capelli. Gli sento il sesso duro –
come il mio. Gli sento il cervello in black-out – come il mio. Gli
sento il cuore galoppare irregolare, come il mio – accanto
il mio.
– La
facevo meno sentimentale, signor Holmes. – mormoro sulla sua pelle,
tra di noi.
Mi sorride
sulle labbra. E il resto si perde in un qualsiasi sabato mattina di giugno.
Troppo corto. Troppo bello. Da ripetere tutta la vita.
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