capitolo 1
Benissimo gentaglia,
innanzitutto buongiorno, o forse è meglio dire BUONASERA!
Eccomi qua con una nuova storia, non mi ricordo neanche come mi sia
venuta inmente, so solo che un pomeriggio sono corsa a casa da scuola
con le mani che fremevano perchè avevo una nuova idea e
volevo
scrivere.
Spero non sia un fiasco totale, ci sto davvero mettendo l'anima e mi
farebbe piacere ricevere dei pareri, giusto per sapere se vale la pena
continuare o no.
*faccina-con-occhi-come-quelli-del-gatto-con-gli-stivali*
Ah, e non preoccupatevi, so che è un capitolo un po' da
suicidio
perchè è piuttosto malinconico, ma vi prometto
che le
acque si smuoveranno.
Un grazie a tutti
Buona lettura
Capitolo 1
Lo scroscio degli applausi
riempì il teatro quando Kurt terminò il suo
ultimo assolo. Fu talmente forte e
pieno che ne fece tremare le pareti, gli rimbombò nelle
orecchie e arrivò
dritto al cuore, facendolo pulsare più forte.
Le guance gli si colorarono
di rosso acceso e gli occhi brillarono riempiendosi di lacrime
malcelate di
felicità e soddisfazione, di fronte a quell’ aspettato successo.
Kurt amava paragonare come
si sentiva sul palco all’ innamorarsi, il cuore che batte
più forte, la
sensazione di galleggiare nell’ aria, gli occhi lucidi e
l’emozione che rimane
intrappolata nella gola, impendendone il respiro.
Amava pensare ciò
perché
forse lo aiutava a sentirsi un po’ meno solo, un
po’ meno triste, e lo illudeva
che la sua vita fosse un successo in tutti i campi, non solo sul
palcoscenico.
Kurt era veramente
innamorato, era innamorato delle travi di legno scuro del teatro di
Broadway,
del pesante tessuto rosso del sipario, del sottile filo di luce che si
intravedeva tra i due lembi accostati, quando lo spettacolo non era
ancora
iniziato e la sala iniziava a riempirsi, amava i profumi delle donne di
alta
classe che si sedevano nei divanetti sventolando un ventaglio
ostentandone gli
intarsi di diamanti, e i minuscoli grani di polvere che intravedeva
nell’ aria
quando cercava di distrarsi per non cadere nel panico.
Ma soprattutto amava il
credersi innamorato. Perché se non si fosse creduto tale
probabilmente sarebbe
affondato, scivolato su una di quelle belle travi marroni o inciampato
nel
tessuto rosso cadendo dal palcoscenico rimanendo fermo, immobile.
Perché solo quando recitava e cantava riusciva a vivere, gli
applausi erano il
suo ossigeno, il resto, la sua vita al di fuori dei musicals, era solo
una mera
successione di eventi di poca importanza, così come le
numerose donne che aveva
avuto. Non contavano niente.
Era questo che aveva deciso
di amare tempo addietro. Aveva potuto scegliere, e aveva scelto.
Si sentì raggiungere dai
suoi colleghi che lo circondarono e, stringendosi le mani e portandole
in aria,
si inchinarono al pubblico che applaudiva.
Poi, in un rituale
consolidato di spettacolo in spettacolo, lo sospinsero in avanti,
permettendogli di raggiungere il centro del palco.
Senza vergogna fece una
piroetta su sé stesso e si inchinò più
profondamente, sentendo con
compiacimento il rimbombo degli applausi aumentare vertiginosamente.
Poteva
addirittura sentire le mani degli spettatori arrossarsi per lo forza
con cui lo
applaudivano.
Indietreggiò tornando
dagli
altri e, dopo un ultimo inchino, il sipario si chiuse.
Era
ormai da due anni che lavorava a Broadway.
Due anni pieni, si disse Kurt
mentre,
nel suo camerino, si toglieva il costume di scena.
Pose la calzamaglia sulla
sedia accanto, e passò una buona quantità di
salviettine struccanti sul viso, cercando
di togliere il pesante strato di cipria che era costretto a mettere
ogni spettacolo.
Era il momento più
difficile
della giornata, quello. Lo svestirsi segnava in modo definitivo il suo
ritorno
alla vita reale, sempre che per Kurt fosse più reale la vita
fuori che dentro
il teatro.
Ormai neanche lo sapeva
più.
Vivere era diventato
meccanico, come se dormire e magiare e camminare fossero solo una
cornice non
degna di grande attenzione.
Quando, nei momenti di
maggiore sconforto, si ritrovava a pensare alla sua vita, a quello che
aveva
passato, si portava istintivamente le mani alla bocca, chiudeva gli
occhi e
canticchiava qualcosa per cancellare le immagini che riaffioravano
dolorosamente alla memoria.
Cantare lo distraeva. Lo
aveva sempre fatto e sempre lo avrebbe continuato a fare. Ne era sicuro.
Quando finì di rimuovere
il
trucco dal viso, indossò i suoi jeans da mille dollari a
gamba e una delle sue
ormai infinite magliette: se c’era qualcosa di cui almeno non
si doveva
preoccupare erano i soldi. Lavorare a Broadway fruttava bene, e almeno
quello
contribuiva a rendergli la vita più facile: non sarebbe mai
rimasto senza soldi
per la sua mania compulsiva di comprare vestiti firmati. No, quello non
sarebbe
decisamente mai stato un problema.
I soldi erano uno dei
ragionamenti cinici che si costringeva a fare ogni giorno: lo
distraevano. E
non desiderava altro.
Non
aveva mai desiderato altro.
Almeno non da quando si
costringeva a ricordare.
Si
stava mangiando le unghie dal nervoso.
Dannazione!
Pensò quando se ne accorse,
Non le mie unghie, non le mie unghie
così
perfettamente e amorevolmente curate.
Così
si costrinse ad allontanarle dai denti che continuarono a
sbattere, non trovando però niente con il quale soddisfare
la loro
frustrazione.
E’ un’ ora che
sono seduto
qui, un’ ora! Quando si decideranno a venire a dirmi
qualcosa, è una questione
così difficile da decidere?
Poi si
diede mentalmente dello stupido perché, sì, era
una questione
difficile, difficile quanto importante, avrebbe determinato il suo
futuro, nel
bene o nel male.
Il
ragazzo al suo fianco fece un sorriso tirato, si vedeva che anche
lui era nervoso, anche se cercava di non sembrarlo,
d’altronde era lì per
sostenere il suo ragazzo, non per renderlo ancora più
spaventato.
Lentamente
lasciò scivolare lo sguardo su di Kurt. Lo vide corrugare le
sopracciglia in un’ espressione eccessivamente affranta nel
notare le unghie
ormai rovinate, lo vide cercare di rilassarsi prendendo due respiri
profondi, e
chiudere gli occhi canticchiando un motivetto per calmarsi.
Poi
vide sé stesso allungare la mano prendere quella del
compagno, e
gli sorrise, mettendo in quel sorriso tutta la fiducia ed il calore che
gli riuscì.
L’altro ragazzo aprì gli occhi, smise di cantare e
sorrise in risposta, facendogli
capire che apprezzava il tentativo, ma che neanche lui sarebbe mai
riuscito a
calmarlo in una situazione simile.
Improvvisamente
la porta di legno scuro intagliato si aprì, ed il
direttore del teatro, un uomo sulla settantina con una folta barba
bianca ed un
cipiglio fin troppo severo, ne uscì
chiamando il nome di Kurt. Quest’ultimo
saltò in piedi in una frazione
di secondo, inciampando su se stesso e rischiando di cadere a terra, se
non
fosse stato per il ragazzo a fianco che, conoscendo la sua
scoordinazione unita
all’eccitazione del momento, aveva avuto il presentimento di
ciò che stava per
accadere e l’aveva afferrato saldamente fermando la caduta.
Aveva
poi allargato le labbra nel più grande sorriso che aveva
potuto, e,
stringendo Kurt in un caloroso abbraccio, aveva poggiato
la faccia sul suo cappotto blu scuro,
inspirandone il fresco profumo di menta e vaniglia.
L’uomo,
ancora fermo vicino a loro ,si era quindi schiarito la gola con
un’ espressione scocciata picchiettando con la punta della
scarpa sul
pavimento.
“Buona
fortuna Kurt” gli sussurrò quindi dolcemente
l’altro ragazzo.
“Grazie,
Blaine”
E
staccandosi da lui si diresse velocemente verso la porta seguendo il
direttore del teatro.
Blaine.
Quel nome ancora gli
lasciava l’amaro in bocca, quelle poche volte che si
permetteva il lusso di
pensarlo. Il che non succedeva spesso. Anzi, quasi mai.
Indossò il cappotto blu
scuro, il suo preferito, e, chiudendo la porta dietro di sé,
s’incammino fuori
dal teatro.
Declinò cortesemente le
proposte dei suoi colleghi di uscire insieme a bere qualcosa e, non
appena
fuori, respirò a fondo l’aria fresca di New York.
New York che ormai era casa
sua, New York che gli ricordava che i sogni si possono avverare,
credendoci. Ma
New York che gli ricordava anche che il suo, di sogno, non si era
avverato per
davvero, non interamente, almeno. New York che stava diventando una
prigione
sicura.
“Blaine.”
Pronunciò lentamente quel nome, assaporandone il retrogusto
dolciastro.
Quando però si accorse
di
cosa aveva fatto si insultò mentalmente, non doveva
lasciarsi andare in un modo
così esagerato, non doveva permettersi di lasciare che la
sua mente vagasse così
liberamente.
Quando
Kurt attraversò la porta seguendo il direttore del teatro
sentì
il freddo invadergli le membra per aver lasciato Blaine nella sala
d’aspetto,
ma si impose di non pensarci, c’era già il
nervosismo a renderlo incapace di
ragionare razionalmente.
Il
direttore lo condusse attraverso un dedalo di porte e corridoi verso
il suo ufficio e lo fece accomodare su una sedia di fronte ad
un’ elegante
scrivania, mentre lui prendeva posto dall’ altro lato,
sedendosi su una poltrona
imponente.
“Bene”
iniziò toccandosi la barba con fare pensoso e ordinando un
plico
di fogli sull’ angolo della scrivania “Kurt Hummel,
giusto?”
Kurt
annuì in preda all’ agitazione. Le mani che si
muovevano
torturandosi a vicenda, i denti che battevano, il sangue che gli
pulsava nelle
orecchie, il respiro che saliva a fatica.
“Ha
passato le selezioni.”
Oh.
Si era
preparato talmente tanto a ricevere un rifiuto, aveva immaginato
talmente tante volte il momento in cui gli avrebbero comunicato che non
aveva
passato la selezione che non aveva minimante pianificato a come reagire
in caso
contrario.
Forse
fu per quello che non appena lo sentì gli sembrò
che il cuore si fosse
fermato per un impercettibile secondo, che il suo stomaco gli fosse
arrivato in
gola insieme ai suoi polmoni.
Non era
pronto, non era assolutamente pronto.
Una
lacrima si affacciò agli occhi ormai rossi ma Kurt si
affrettò ad
asciugarla.
Non
sapeva cosa dire, non aveva parole, boccheggiò per qualche
secondo
ma le nessun suono gli uscì di bocca.
Era il
sogno di una vita. Che si avverava.
Quando
vide che il ragazzo non accennava a parlare il direttore,
comprendendone l’emozione, aggiunse che le prove per il
musical sarebbero
iniziate il giorno successivo e che avrebbe dovuto presentarsi un
attimo prima
dell’ orario prestabilito per prendere familiarità
con i colleghi e con la
troupe.
Kurt
annuì ancora senza fiato e, dopo aver stretto la mano al
direttore
ed averlo ringraziato in tutti i modi possibili, si fiondò
fuori dalla porta,
tra le braccia di Blaine il quale capì, con una sola
occhiata, che ce l’aveva
fatta, che era andato tutto bene.
Kurt spalancò le braccia
per
attirare l’attenzione di un qualche tassista, e, con sua
enorme fortuna, uno si
fermò subito vicino al marciapiede.
Dopo esserci salito, gli
disse l’indirizzo del suo appartamento, poi si
appoggiò sul sedile e chiuse gli
occhi, massaggiandosi le tempie e cercando di non pensare a niente.
Le luci di New York
saettavano veloci fuori dai finestrini dell’ auto, spettacolo
suggestivo per un
turista, ma non di grande rilevanza per Kurt, che ormai era abituato.
Quando il tassista
annunciò
che era giunto a destinazione prese una manciata di soldi dal
portafoglio e
glieli porse, dicendo che il resto lo avrebbe potuto tenere, quindi si
affrettò
ad uscire dal taxi, non sopportando l’odore di muffa ed usato
che ne impregnava
i tessuti.
Cercò le chiavi nella
sua
borsa in ecopelle preferita e velocemente aprì la porta del
suo loft, poggiò le
chiavi sul comodino, appese il cappotto all’ appendiabiti
vicino alla porta e
si sdraiò sul divano rifugiandosi nella quiete.
Odiava quella quiete,
perché
lo faceva pensare. Aveva paura della notte, di quando si ritrovava da
solo,
perché i pensieri sarebbero inevitabilmente riaffiorati, e
così ai ricordi.
Ed era per quello che quando
poteva si circondava di persone, perché lo distraevano.
Si maledisse mentalmente per
non aver accettato l’invito dei suoi colleghi. Tanto
l’importante sarebbe stato
fare presenza, intervenire due o tre volte nella conversazione, e poi
ascoltare
i loro discorsi lunghi ed inutili. Quello sì, che sarebbe
stato utile. Avrebbe
avuto la testa troppo impegnata a chiedersi come mai esistessero ancora
stupide
persone che credevano che il leopardato andasse di moda, per pensare al
passato.
Invece si trovava sul
divano, inerme, e quel giorno la sua mente sembrava molto
più propensa del
solito a lasciarsi andare, e quello non aiutava di certo.
Improvvisamente sentì il
rumore del chiavistello girare e la porta sbattere. Non aprì
gli occhi.
Probabilmente era una ragazza. Bene. Significava distrazione.
Il tocco delicato di due
mani lo raggiunse pochi attimi dopo attraverso la stoffa sottile della
camicia,
e, tra le ciglia semichiuse, intravide un viso famigliare.
Neanche se ne ricordava il
nome, probabilmente era qualcosa di simile a Danielle o Michelle. Poco
importava.
La ragazza iniziò a
sbottonargli lentamente il colletto della camicia, i sui capelli che
gli
solleticavano il mento.
Non disse niente. Non diceva
mai niente, perché gli unici sentimenti che provava erano
disgusto e
solitudine. Infinita, profonda, amara, cara, intima solitudine.
Con un sospiro si
preparò a
mentire un’altra volta, prima alla ragazza che si stava
strofinando contro di
lui ed infine a sé stesso.
Blaine si aggiustò il
colletto della camicia guardandosi allo specchio e si
annodò, con patologica
lentezza, il suo papillon rosso.
Se c’era una cosa che
adorava nell’ insegnare alla Dalton era che finalmente poteva
vestirsi come
voleva e rinunciare a quell’ orribile cravatta che sempre
aveva odiato.
Guardò
l’orologio e si
accorse che il suo amore per il fiocco annodato con precisione
millimetrica gli
aveva fatto perdere un’ enorme quantità di tempo,
e che ormai sarebbe arrivato
inesorabilmente in ritardo alla lezione.
Poco male, i suoi studenti
lo adoravano anche per i pochi minuti che guadagnavano dopo il suono
della
campanella. Ormai conoscevano tanto bene il loro professore da sapere
che la
sua seconda malattia, oltre ai ridicoli fiocchettini con cui adorava
strozzarsi
il collo, era il ritardo.
Blaine era un ritardatario,
cronico. Senza speranza di redenzione.
Quest’ultimo si
affrettò
quindi, maledicendosi mentalmente, a prendere la sua tracolla con i
libri,
chiudere la porta del suo alloggio nella scuola e correre come un
forsennato
per raggiungere la sua aula.
Giunto davanti alla porta
prese un respiro profondo, giusto per non avere l’espressione
addormentata di
un bradipo e si passò una mano nei capelli per sistemarseli.
Quando però si accorse
che
erano privi del consueto strato di gel quasi imprecò ad alta
voce.
Se n’era scordato. Bene,
quella giornata iniziava male, molto.
Appena mise piede nella classe
gli alunni corsero ai loro posti, fingendo di esserci sempre stati, e
non di
essere appena stati beccati a chiacchierare con un compagno dalla parte
opposta
dell’ aula, ad essere appoggiati alla finestra a raccontarsi
gli ultimi
pettegolezzi o, ultimo ma non per importanza, a ballare la macarena
facendo
girare la cravatta sulla testa saltellando da un banco all’
altro. E con
saltellando da un banco all’ altro si intende sopra
il banco.
Blaine raggiunse la cattedra
con studiata lentezza e assunse il cipiglio più severo che
aveva nel suo
repertorio, anche se dentro di sé ridacchiava e ricordava
con nostalgia i
momenti in cui anche lui era stato un alunno spensierato come i ragazzi
in
quella stanza.
Gli
mancavano quei tempi. Dannazione se gli mancavano.
Costringendosi a cambiare la
direzione dei suoi pensieri e vedendo che la classe continuava a
parlare e non
accennava a smettere si schiarì la voce attirando la loro
attenzione.
“Buongiorno
ragazzi” disse
quindi.
Un mugugno indistinto si
levò tra le file. Il professor Blaine Anderson,
dall’ alto dei suoi venticinque
anni, poteva anche essere il professore più simpatico e
disponibile di tutta la
scuola, ma perdeva di sicuro mille punti per il solo fatto che
insegnasse
storia.
Già, quello decisamente
non
lo aiutava ad essere apprezzato dai suoi studenti che ogni volta che
leggevano
sui loro orari la parola storia
venivano presi dal panico.
L’ora passò in
fretta.
Almeno, per lui molto in fretta, per gli studenti scommetteva che era
stata una
vera a propria tortura. Ben sessanta minuti sulla guerra di secessione.
Da
suicidio.
Fortunatamente per loro
Blaine aveva deciso che la prossima lezione l’avrebbe
dedicata a guardare un
film sull’ argomento.
Quando la campanella
suonò
si diresse verso la caffetteria.
Ricambiò il saluto di
qualche studente che si affrettava in ritardo verso la sua classe e non
appena
entro nel piccolo locale sentì subito la fragranza di
caffè invadergli le
narici. Ah, il suo amato caffè. Non avrebbe mai resistito
senza.
Seduto da solo ad uno dei
tavolini del bar si perse a guardare i disegni del vapore che saliva
dalla
tazza di caffè fumante, divertendosi a soffiarci sopra per
dissolverli.
Il
giorno dopo l’audizione Kurt si era svegliato prestissimo. Se
lo
ricordava benissimo perché, essendo che dormivano nello
stesso letto, non
appena era balzato a sedere per il suono della sveglia il materasso si
era
alzato di colpo, infliggendo a Blaine un doloroso colpo alla spina
dorsale.
Ricordava
se stesso insultare ad alta voce il compagno e poi girarsi e
tentare di tornare a dormire.
Fatica
sprecata perché Kurt gli si era letteralmente gettato
addosso
urlandogli che era il gran giorno, che non gli avrebbe più
parlato se, citando
letteralmente, non avesse mosso quelle chiappe dal letto e non si fosse
fatto
trovare pronto per accompagnarlo a teatro, in cinque
minuti.
Temendo
le ire del suo ragazzo Blaine aveva fatto esattamente come
richiesto. Si era fiondato giù dal letto e aveva occupato il
bagno, sapendo
ormai bene che se Kurt ci fosse entrato prima di lui sarebbe stata la
fine.
Ricordava
poco di quello che era successo poi, solo sprazzi dai colori
confusi. Ricordava di aver bevuto tre caffè bollenti tutti
di fila, per cercare
di restare sveglio e di aver raggiunto il teatro con un taxi
maleodorante.
Si
ricordava che Kurt gli aveva stretto la mano talmente forte che
credeva gliel’avrebbe distrutta.
Si
ricordava stringerlo in un abbraccio soffocante prima di lasciarlo
entrare in teatro, e di avergli sussurrato che l’amava e che
era fiero di lui,
che se lo meritava e che avrebbe fatto venire i brividi a tutti.
Quella
era l’ultima volta che aveva avuto un contatto del genere con
Kurt.
E tutto
cio che successe dopo se lo ricorava bene, purtroppo.
“E’ libero,
qui?” una voce
lo risvegliò dai suoi pensieri, sollevò
velocemente lo sguardo e vide un uomo,
probabilmente della sua stessa età, rivolgergli un timido
sorriso.
Si guardò un attimo
intorno
notando che tutti i posti nella caffetteria erano occupati, quindi
rivolse lo
sguardo al suo interlocutore e, sorridendo a sua volta, ripose
affermativamente.
L’uomo prese posto nella
sedia davanti a lui e gli porse la mano.
“Steve Dover, sono un
nuovo
insegnante” si presentò.
“Blaine Anderson,
confinato
in questo posto sin dal liceo” sorrise in tutta risposta il
moro stringendogli
la mano mentre per un secondo si concedeva il lusso di osservare il
nuovo
arrivato: alto, muscoloso, capelli castani e due grandi occhi verdi.
Poteva non aver avuto una
relazione con un altro uomo da tanto ma Blaine sapeva riconoscere
quando una
persona era bella. E lui era bello. Dannatamente bello, e con un fare
leggermente impacciato che lo rendeva ancora più
interessante.
Rendendosi conto di dove
erano andati a finire i suoi pensieri arrossì
improvvisamente e si aggrappò al
primo argomento che gli veniva in mente per fare un po’ di
conversazione.
“Allora, ehm,
Steve” si
schiarì la voce in imbarazzo “Come mai qui alla
Dalton?”
Cretino
si
insultò tra sé e sé,
se è un
insegnante sarà qui per insegnare, no?
Quello non sembrò
accorgersi
dell’ ingenuità della domanda “Insegno
letteratura, sono qui in sostituzione al
professor Phillips,
che è appena stato
trasferito. Tu, Blaine, che cosa insegni?”
Blaine.
Era bello il suo nome
pronunciato da lui, così consapevole.
Non si sentiva così da
tanto. Non sentiva quel leggero battere del cuore nel petto da due anni
ormai.
Forse non era esattamente la
stessa cosa di quando stava con Kurt, con lui il cuore martellava quasi
volesse
uscire dal petto, ma quel battito leggermente velocizzato era comunque
un buon
inizio.
“Kurt.”
Sussultò quando si
accorse
di quello che la sua mente aveva appena formulato, di quello che si era
imposto
come termine tabù, e che invece aveva appena pronunciato, a
bassa voce, senza
neanche rendersene conto.
Steve sembrò
accorgersene
perché chiese se andasse tutto bene, e Blaine, riacquistando
il sorriso di
sempre, disse che si era semplicemente distratto un momento e si
affrettò a
rispondere alla domanda.
“Mi hanno affibbiato
storia,
perché evidentemente direttore del coro della scuola non
è valido come lavoro”
“Direttore del
coro?” chiese
Steve stupito “Avete un coro, in una scuola di soli
ragazzi?”
Blaine annuì compiaciuto
“Sì, e sono anche bravi. Questa Domenica si
esibiscono per gareggiare alle
Provinciali contro latri licei della zona, puoi venire a vederli se
vuoi”
StupidoStupidoStupidoStupidoTroppoAvventatoTroppoAvventanto.
“Volentieri”
disse invece
Steve, sorprendendolo.
Oh. Questo cambiava le cose.
“Perfetto”
disse allora
Blaine cercando di darsi un po’ di contegno e di non mostrare
quanto la sua
risposta lo avesse sorpreso e destabilizzato.
Non era più abituato a
parlare con un bel ragazzo. No davvero.
“Ora devo
andare” disse il
moro ricordandosi che aveva un appuntamento per pranzo “Mi
raccomando. Ti
aspettiamo Domenica alle nove di sera all’ auditorium del
McKinley.”
“Non mancherò
per nulla al
mondo”
Blaine era pronto a giurare
che gli avesse appena fatto l’occhiolino.
Entrò nel ristorante
italiano in ritardo di venti minuti, tanto per cambiare.
Non appena adocchiò
Rachel
Finn Brittany e Santana si affrettò a raggiungerli.
“Ehi” li
salutò appena
arrivato.
“Ti stavamo dando per
disperso, gnomo” lo salutò amorevolmente Santana,
ricevendosi una gomitata da
Brittany che la guardò con fare ammonitrice, obbligandola a
chiedere scusa,
cosa che le sembrò costare un enorme sforzo.
Rachel e Finn si limitarono
a sorridergli teneramente.
Grazie al cielo aveva ancora
loro ad aiutarlo ed a fargli dimenticare qualsiasi motivo per essere
triste.
“Allora Blaine, come va
la
vita alla Dalton?” Chiese Rachel mentre il moro prendeva
posto al tavolo con
loro.
“Come al solito, studenti
che saltano dalla gioia quando annuncio che non interrogherò
e che si mettono
a recitare il padre nostro quando invece c’è una
verifica, l’unica cosa che
rende felici tutti rimangono ancora le lezioni con gli Warblers, quelle
vanno
decisamente bene.” Guardò Rachel con un sorriso di
sfida e aggiunse:
“Quest’anno il tuo Glee Club non
riuscirà a battermi, Rachel, te lo puoi
sognare.”
La ragazza non sembrò
minimamente toccata. “Abbassa
la cresta
Blaine, non sarà così facile sconfiggermi, un
altro anno le Nuove Direzioni
passeranno le selezioni. Non so se te lo ricordi ma stai parlando con
la più
richiesta allenatrice di Glee Clubs di tutto l’Ohio”
Blaine sorrise al tono
combattivo della ragazza ed alzò le mani in segno di resa.
Il pranzo passò
velocemente,
tra chiacchiere sulla squadra di Cheerleaders che Santana e Brittany
allenavano, i racconti delle numerose vittorie di Finn nella nazionale
di
football, e gli infiniti sproloqui di Rachel su quanto sia difficile
girare per
tutto l’Ohio essendo enormemente richiesta da tutti i
maggiori cori di canto
coreografato.
Blaine adorava quei momenti,
quando tutti si riunivano e parlavano delle loro vite. Certo, non
accadeva
spesso. Erano rari i momenti in cui si trovavano tutti a Lima, ma
quando
capitava non potevano di certo mancare i loro ritrovi.
La porta del ristorante
sbatté di colpo facendo voltare i cinque amici
contemporaneamente.
“Mercedes!” un
urlo di
sorpresa si levò da loro alla vista della ragazza che era
appena entrata.
“Sorpresa”
disse in tutta
risposta quella prendendo una sedia e sedendosi vicino a loro.
Blaine fu il primo a
risvegliarsi dallo shock in cui tutti erano caduti dopo il suo arrivo,
dopo averla guardata con la bocca spalancata per una
quantità di tempo infinita.
“Ma.. Ma.. Che ci fai
qui?
Non ti aspettavamo! Credevo- Credevo fossi a New York!”
Mercedes sorrise agli amici
e mandò uno sguardo complice a Rachel, con la quale aveva
segretamente
organizzato il suo arrivo.
“Diciamo che avevo
bisogno
di una pausa” sorrise “e poi” aggiunse
con una faccia esageratamente affranta
“essere una cantante famosa è stancante, davvero,
non ve lo augurerei mai!”
Tutti risero e iniziarono a
tempestarla di domande su come fosse la vita a New York, su dove avesse
trovato
casa, su come fosse essere la cantante blues più richiesta
in tutti i locali
più in, quelli
frequentati da VIP del
calibro di Brad Pitt, per intenderci.
“…E poi
dovreste vedere
Starbucks, ogni volta che ci entro è una gioia per i miei
occhi e per il mio
palato,e ah la statua della
libertà!
Ogni volta che la vedo mi emoziono, è così..
così.. così grande!”
Tutti risero, gli occhi
spalancati per l’invidia e luccicanti per il desiderio di
essere nei panni
della fortunata Mercedes.
“Ma la cosa
più bella”
aggiunse poi con gli occhi spalancati per l’emozione
“e’ Broadway. Davvero
ragazzi, ho appena visto una replica del Moulin Rouge che mi ha fatto piangere! Sul serio!”
Tutti la ascoltarono rapita
raccontare di quanto fosse bello l’attore principale, di come
la ragazza che
cantava avesse la faccia da spocchiosa, di come le scenografie fossero
grandiose, e, soprattutto, di come fossero comode le poltroncine in
prima fila
Forse fu per quello che
quando Brittany, molto ingenuamente, pose la domanda, il suo effetto fu
così
accentuato.
Perché non ci stavano
proprio pensando, a quello. E, Dio,
ci stavano riuscendo, per una volta ci stavano riuscendo.
“Ma Kurt non lavora a
Broadway?”
Quella
mattina Blaine aveva deciso di andare a fare una passeggiata in
giro per negozi, gli serviva assolutamente un papillon verde da
abbinare ai
pantaloni che aveva appena comprato, e decise quindi di sfruttare il
tempo
durante il quale Kurt faceva le prove a teatro.
Passeggiò
dunque nel centro di New York entrando in ogni negozio strano
che adocchiava per cercare quel maledetto papillon che nessuno sembrava
avere.
Ma
insomma come si poteva vendere un papillon verde pino, verde
sottobosco umido, verde limone, verde acqua di lago, verde acqua di
mare, verde
acqua di stagno, verde vomito, verde erba in primavera, verde erba in
estate,
verde erba quando un gatto ci ha urinato sopra e mille altre
tonalità
improponibili di verde e non un semplice e dannatissimo verde?
Blaine
era così uscito distrutto da una sessione di shopping che
non
gli aveva fruttato niente ed era tornato al teatro per aspettare Kurt,
sapendo
che il solo vederlo gli avrebbe illuminato la giornata.
Non si
aspettava sicuramente però di non trovarlo fuori ad
aspettarlo.
Guardando
confuso l’orologio si
era domandato perché mai non ci fosse, illudendosi poi che
le prove si fossero
protratte più a lungo del dovuto. Quindi si era seduto su un
panchina ad
aspettare tranquillamente. Quando però un’ ora era
ormai passata si era deciso
a farsi coraggio, alzarsi ed entrare a cercarlo nel teatro.
Tutto
ciò che aveva trovato erano degli inservienti che si
occupavano
di pulire i pavimenti e che, con espressione scocciata, gli avevano
detto che
gli attori se
n’erano andati già da un
paio d’ore e che lì non avrebbe trovato nessuno.
Finn spalancò gli occhi
e
boccheggiò.
Santana guardò la sua
ragazza e le diede uno scappellotto sulla nuca guardandola con
un’ occhiata
ammonitrice.
Brittany, dal canto suo, si
guardò in giro spaesata chiedendosi che cosa avesse detto di
male.
Rachel iniziò a
ridacchiare
nervosamente.
Mercedes cercò di
rimediare
fingendo che non fosse successo niente e cercò
disperatamente un argomento,
anche il più stupido, a cui aggrapparsi per deviare il
discorso, ma la sua
mente era andata completamente in blackout.
Blaine rimase semplicemente
bloccato.
La mascella si contrasse e
le mani afferrarono convulsamente i bordi del tavolo facendo diventare
le
nocche bianche per la pressione.
Abbassò lo sguardo
cercando
di mascherare il fatto che, se lo sentiva, il colore avesse
repentinamente
abbandonato le sue guance e che gli occhi fossero diventati lucidi.
Riprenditi.
Non è successo niente. Ci stavi riuscendo così
bene,
Blaine. Non rovinare tutti i progressi che hai fatto.
Sentì una mano delicata
prendere le sue e stringerle, per comunicargli che non era solo, che ci
sarebbe
sempre stato qualcuno con lui, e si lasciò andare ad un
gemito sconsolato e liberatorio,
che gli fece tremare la colonna vertebrale.
Alzò gli occhi e
incontrò
quelli di Mercedes, che d’istinto strinse le mani ancora
più forte.
Sì
si disse non sei solo Blaine.
Evitò però di
pensare a
quando la notte si svegliava, gli occhi lucidi e le mani tremanti,
cercando
invano nel letto un corpo caldo che, puntualmente, non trovava.
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