Dopo era
successo che se ne erano andati. Erano scesi al capolinea del tram, poi
avevano preso direzioni opposte. Pietro verso casa. La compagnia verso
la libertà. E’ libertà anche il poter
morire, o il cercare un figlio lontano e ricominciare a vivere nelle
finestre dei suoi occhi.
Pietro era
tornato a Monteverde appoggiando piano un passo dopo l’altro,
con le tasche piene di emozioni, che a volerle chiamare tutte per nome
non sarebbe bastata tutta la carta della foresta amazzonica.
Perché quelli della compagnia erano personaggi un
po’ veri e un po’ evanescenti, ma suoi. Erano i
fantasmi suoi e aveva imparato ad amarli. Loro erano proprio suoi, suoi
e basta.
Avrebbe voluto
attaccare Garibaldi sul numero uno dell’album, con un fremito
allegro nelle dita mentre Yusuf gli chiedeva quanto liberi fossero gli
italiani. Al mattino, con la stanchezza annidata nel cervello e la sola
energia sufficiente ad aprire il portone, gli sarebbe piaciuto portare
in quel salone un po’ del profumo dei suoi cornetti e
chiedere “Da uno a dieci, quanto?”. Ivan li avrebbe
mangiati tutti e avrebbe incolpato Ambrogio con una bugia impastata
alle risate di tutti. Sarebbe stato bello anche svegliarsi ancora con
l’alito fresco dello sceneggiatore sugli occhi e
passare il giorno libero a parlare delle stelle e della notte
insieme a lui.
Ma ci sono
cose e giorni che non ci è dato vivere. E cose e giorni che
abbiamo la grazia di poter immaginare.
Ogni tanto
sarebbe passato a trovare Ennio l’orefice, che lo avrebbe
allontanato con un veloce sorriso di scuse.
Ogni tanto sarebbe passato a trovare Ennio la drag queen, che gli
avrebbe parlato di sesso-braille e mondi sconosciuti.
Il suo
rimpianto, forse, sarebbe stato quello di non poter imparare
più nulla da Filippo Verni e la sua compagnia –
cantare per smorzare la tensione era stata la cosa più
imbarazzante e cretina che avesse mai fatto in vita sua, ma non
riusciva ad essere veramente arrabbiato. Avrebbe voluto che gli
insegnassero qualche altra cosa sbagliata, magari ballare il tiptap in
attesa di un provino, o fare gargarismi con l’olio di
merluzzo per avere una voce più profonda. Avrebbe dato loro
retta anche se gli avessero suggerito di saltellare su un piede solo da
Monteverde a Cinecittà con un dizionario in bilico sugli
indici – la mamma lo diceva sempre, che non era capace di
ignorare le stupidaggini altrui.
Ogni tanto
andrà a trovare Maria a Napoli e a catturare risate di una
nipotina tutta ricci e lentiggini lanciata in aria come un palloncino.
Capiterà di prendere un caffè con Paolo e
lamentarsi di quelle due cameriere impiccione e, forse, un
po’ tristi. Rideranno, si scambieranno i numeri di telefono e
quando il camino sarà senza legna e i muri vibreranno di
freddo, Pietro scenderà fino al pianerottolo inferiore con
un rigagnolo di parole arrotolato ai denti. Mangeranno del pessimo
sushi insieme e giocheranno a scarabeo – Attore,
Cuore e Occhi che s’incastreranno in Recitazione –
oppure si soffieranno contro tra i fili della coperta, un paio
d’ore e poi chissà.
Continuerà
a fare provini e a cantare nei momenti meno opportuni –
è un omaggio che deve loro, e non importa che canticchi una
melodia muta che risuona nelle tempie – e sarà
sempre troppo buono e troppo fesso, ma forse un po’ meno
solo. Un po’ più felice anche, forse.
Certo
è che quell’ultimo sipario non si
chiuderà mai davvero, e quegli occhi cerchiati di nero lo
faranno sparire e riapparire nei personaggi che interpreterà
ogni giorno. Nelle maschere che indosserà e non
saprà di avere. Gliel’hanno insegnato loro, ma lui
non sa di averlo imparato.
Perché
non c’è nulla di più convincente di una
menzogna fatta realtà.
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Questo è un
film che devo digerire. Che mi è piaciuto tanto e che parla
anche di me. Che ha toccato dei tasti di cui non mi piace discutere, ma
che prima o poi dovrò tirare fuori. Provo a metabolizzarlo
così, un po' barcollando sulla poesia di quelle scene, sulle
musiche meravigliose, sulle magnifiche presenze. Ci provo e basta,
senza pretese.
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