Ancora un
altro colpo, e la porta avrebbe ceduto.
La confusione gli impediva di sentire le urla battagliere dei compagni,
il polverone sollevato dai nemici in fuga gli impediva di respirare. Ma
poco interessava.
Coi compagni si fece forza e diede l’ultimo colpo, furioso,
al portone d’accesso: i cardini cedettero, e con un rumore
assordante i grandi battenti rovinarono a terra. Il ragazzo non
esitò un momento, sguainò la spada di bronzo e
scattò avanti. Nessuna sentinella riusciva a resistere alla
sua forza, un impeto disumano che non risparmiava nulla, che non si
sarebbe fermato nemmeno davanti all’innocenza di un bambino;
un impeto più potente delle fiamme che divampavano intorno,
divorando ogni cosa, incenerendo le grandi travi del tetto.
Osservò la scena: le nuore e le figlie del re erano agli
altari, e correvano da tutte le parti, spaventate; anche Priamo stesso
era presente: era vicino a sua moglie, stanco e spaventato, ma comunque
immobile davanti al fragore che permeava la città, sgomento.
Pirro si gettò verso di loro, con la forza di un leone, e
conficcò il bronzo nel candido petto di una troiana, dalla
cui bocca sorse un rivolo di sangue scarlatto. Le altre, fuggenti,
gridarono orripilate e si diressero verso la piccola porta laterale; ma
ormai non potevano salvarsi, le loro anime stavano già
scivolando nella casa dell’Ade. La pietà per
quelle povere donne, riluttanti alla vista delle proprie case
polverizzate dal fuoco, nemmeno sfiorò il potente figlio
d’Achille; molte altre caddero trafitte dalla sua forza,
sotto alle stelle che si intravedevano oltre il solido muro di calore.
Ma proprio quando era in procinto di trucidare l’ennesima
giovane terrorizzata, i suoi occhi caddero su Priamo, che
afferrò una vecchia spada nella confusione, disperato e
furente, e si diresse verso di lui. La moglie, dietro,
piagnucolò, tra le fiamme incandescenti
dell’incendio, lo implorò, «Priamo,
torna! La morte ti attende là, resistere sarebbe vano; anche
il mio Ettore non si allontanerebbe, rimarrebbe qui con me, al riparo
di questi altari!». Così dicendo,
afferrò il vegliardo e lo prese con sé. Un ghigno
di derisione apparve sul volto del giovane Pirro, che
scoppiò in un’agghiacciante risata.
“Ecco, la sua gloria muore così, da vecchio, nella
città in fiamme; come può questo debole essere il
potente Priamo, il vincitore delle Amazzoni?”
pensò maligno.
Con la furia che si riaccendeva nel suo petto come il fuoco
circostante, si scagliò nuovamente sulle figlie
dell’anziano regnante; tra queste vide un uomo, ferito, un
principe, che tentava di fuggire, zoppicando, verso i genitori. Con un
colpo nel torace gli sottrasse la vita, e lo lasciò cadere
nel suo sangue, di fronte ai loro sguardi raccapricciati.
Il vecchio gracile non resistette, si liberò dalla stretta
della moglie e irato sbraitò, «Giovane crudele,
gli dèi un giorno ti puniranno duramente per le tue azioni
impietose!», ormai solo gli dèi poteva richiamare,
quello sciocco, «Nemmeno tuo padre, sebbene potente come te,
fu tanto spietato quel giorno in cui andai a richiedere il corpo del
mio defunto figlio; benché fossi suo acerrimo nemico, ebbe
compassione e pianse con me, e mi lasciò andare!».
Zoppicò verso il ragazzo, agitando la spada con le ultime
forze rimaste, ma tutti i colpi andarono a vuoto. Allora Pirro
parlò, per la prima volta, con voce potente e bestiale,
circondato da una corona di fiamme.
«Allora vai, vecchio ingenuo, di’ a mio padre che
non sono come lui, digli che sono diventato ancora più
forte, che ti ho ucciso prima di ogni altro Acheo, digli che suo figlio
è stato più uomo di lui! Ed ora è
giunto per te il momento di precipitare nella casa
dell’Ade».
Detto questo, lo prese per un braccio e lo portò vicino
all’altare, trascinandolo insensibile in mezzo al sangue del
figlio appena morto. Sollevò l’arma letale.
“Ora tutti i compagni vedranno la vera gloria
dell’ultimo dei Pelidi, vedranno finalmente che
cos’è davvero capace di fare”, si
prefigurava. Ma mentre avvicinava la punta affilata della spada
all’addome del vecchio, qualcosa scattò nel suo
profondo, una sensazione inspiegabile che lo pietrificò
all’istante.
Era in un campo, il sole era alto nel cielo. Passeggiava calmo, con la
mano nella mano di un anziano signore, che riconobbe come suo nonno.
Gli stava parlando, gli insegnava con esperienza come essere un giusto
signore. «Ricòrdati, figlio, che quando un re vede
la sua patria morire davanti ai propri occhi, farà di tutto
pur di salvarla dalla rovina. Ecco, se ne incontrerai uno, abbi
pietà di lui, perché sarà stato un
grande re».
I prati sfumarono, il calore della stanza ritornò
improvvisamente a premere sulla sua pelle. Era rimasto basito di fronte
a ciò che aveva appena visto. I suoi occhi caddero nello
sguardo impaurito di Priamo, affondarono nelle sue pupille, videro il
suo dolore immane. Ma la sete di gloria sbraitò dentro il
giovane, lo divorò, entrò nel suo braccio e
affondò la spada nel fianco di Priamo; era la stessa
temibile arroganza che aveva spinto Diomede a sfidare Apollo e suo
padre a contrastare Xanto, una malattia oscura e inguaribile che si
impadronisce del proprio corpo e della propria mente, e impedisce
qualsiasi forma di resistenza. Appena la vita di Priamo
scivolò nell’Ade, il mostro sembrò
placarsi lentamente, come se una superficie ruvida fosse piallata e
lucidata.
Ancora sgomento per l’inspiegabile squilibrio emozionale, si
fece forza e si allontanò dal tempio, da Ecuba piangente e
dalle sue figlie e nuore ancora vive, e si gettò nuovamente
nella furia della battaglia. Era l’ultima notte di Troia.
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