Intorno
a me c’era solo buio. Un buio intenso, che sembrava
inghiottire
tutto nel raggio di tre metri.
E
io avevo paura. Avevo una tremenda paura di lasciare la mano di mia
madre, che mi stringeva rassicurante, di non sentire più la
voce
tranquilla di mio padre e le chiacchiere di mia sorella. Sorridevo,
cercando di non pensarci, di sembrare forte, ma dentro di me
l’ansia
era una presenza opprimente che impediva a qualsiasi pensiero
ragionevole di venire a galla.
Non
sarei dovuta entrare.
Quando
mi ero ritrovata davanti a quel tunnel un terrore irragionevole mi
aveva assalito, facendomi andare nel panico. Io, che solitamente ero
così calma e padrona di me stessa, avevo avuto paura. Mi
spaventava
non sapere cosa ci fosse dentro quel muro di oscurità; mi
spaventava
l’ignoto. L’istinto mi aveva detto di fare
dietrofront e correre
a gambe levate fino al camping che ci ospitava, e la ragione aveva
ben poca voce in capitolo, in quel momento. Ma volevo dimostrare alla
mia famiglia che ero forte, dimostrare a me stessa che non avevo paura. Io
ero sempre stata forte, sempre. Avevo trattenuto l'aria e avevo fatto
un passo in avanti.
E
un altro.
E
un altro ancora.
Ero
entrata nell’oscurità, tremante, terrorizzata.
Ora,
nemmeno cinque minuti dopo, mi stavo pentendo di aver messo piede in
quel buio così fitto. Dovevo andarmene, dovevo correre via.
Avevo
una dannata paura, perché l’uscita non si vedeva,
perché anche
l’entrata era scomparsa dietro una svolta.
Ogni
passo mi sembrava interminabile, ogni secondo durava
un’eternità,
ogni rumore all’infuori delle voci familiari assomigliava a
spaventose minacce. Non ragionavo più. Vedevo mostri intenti
a
sbranarmi dovunque, creature viscide occupavano tutto lo spazio
intorno a me, schifosi scarafaggi brulicavano sul pavimento e
cercavano di arrampicarsi su di me. Il mio terrore trasformava ogni
scricchiolio in urli infernali, in grida stridule che graffiavano i
timpani. Sentivo formicolii su ogni centimetro della pelle: i mostri
mi toccavano, mi sfioravano, mi sussurravano di fuggire via
finché
ero in tempo.
Per
quanto cercassi di auto-convincermi che tutto quell’orrore
era solo
la mia immaginazione, il mio corpo non mi ascoltava. Ero
continuamente percossa da brividi, e il sudore freddo che impregnava
la mia maglietta non aiutava per nulla; tremavo, non solo per il
freddo, e tenevo la bocca chiusa per non rischiare di battere i
denti: intendevo mantenere integra la mia dignità, per
quanto ancora
possibile. In faccia ero sicuramente bianca come un cadavere, ma in
quei momenti di terrore il mio aspetto era l’ultima cosa che
mi
passava nella testa. Tenevo gli occhi spalancati fissi su un punto
davanti a me, e mi ripetevo che le ombre, più scure
dell’oscurità
stessa, che facevano capolino alla periferia del mio sguardo in
realtà non esistevano, che mi stavo immaginando tutto.
Riuscivo
a tenere sotto controllo l’attacco di panico che mi era
venuto, per
fortuna. Impedivo alle gambe di seguire il consiglio delle voci
sibilanti, e a me stessa di rannicchiarmi per terra e urlare,
lasciando cadere quelle lacrime faticosamente trattenute. Era
difficile, ma dovevo resistere.
Ed
eccola, la salvezza, apparire sullo sfondo nero pece, illuminare il
mio peggior incubo. A quella vista avevo stretto più forte
la mano
di mai madre, poi l’avevo lasciata e avevo affrettato il
passo. I
mostri si stavano dissolvendo, le voci si facevano sempre
più
fioche, il buio stava cedendo il posto alla luce, così nel
paesaggio
come dentro di me.
L’ansia
e la paura avevano lasciato il mio animo soltanto nel momento in cui
i raggi del sole avevano ripreso a toccarmi, caldi, rassicuranti. La
brezza fresca mi accarezzava, togliendo via quel grosso macigno dal
mio cuore, e io sorridevo, finalmente serena.
Ero
al sicuro.
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