Whiskey Talkin'
Whiskey Talkin'
John dovette tirare Sherlock per la manica del cappotto per
obbligarlo a uscire dal locale, altrimenti avrebbe dato fondo
all'ennesimo bicchiere di whiskey e prosciugato definitivamente il
loro, il suo (si era auto nominato tesoriere del 221B) portafoglio.
Respirò a pieni polmoni l'aria della sera prima di gettare
uno sguardo dietro di sè, per controllare se Sherlock lo avesse
seguito o se era rimasto incastrato tra gli avventori che entravano e
che uscivano dalla porta del pub.
Soppresse un gemito di frustrazione quando scoprì che il detective si era effettivamente fermato a parlare...col buttafuori.
"Io terrei d'occhio quel tipo con la barba che è appena
entrato", gli sentì dire, "sembra uno innocuo, ma stai sicuro
che stasera scatena una rissa".
John si mosse verso l'amico, afferrandolo per un gomito.
"Sherlock, andiamo, per favore", lo implorò, mormorando un "non
badi a lui, è bevuto", all'indirizzo del buttafuori.
"John, si dice ubriaco, u-b-r-i-a-c-o, non bevuto", lo
rimproverò Sherlock, petulante, sventolandogli un guanto sotto
il naso e tornando a rivolgere la sua attenzione al buttafuori.
"Se vuoi fare bene il tuo lavoro, non perdere d'occhio quello con la
barba che è appena entrato, ok?", ripetè. Il buttafuori
annuì, perplesso, e lo ringraziò, più per
educazione che per altro.
"Sì, Sherlock, ha capito, adesso lascialo in pace".
Finalmente John riuscì a schiodare Sherlock dall'ingresso,
tenendolo fermamente per un braccio, un po' perchè non gli
sfuggisse, un po' perchè temeva che l'altro non riuscisse a
tenersi in equilibrio da solo.
"Se tu lo avessi osservato bene quello lì, quello con la barba
che è appena entrato", riattaccò Sherlock, ma John lo
zittì.
"Questo è l'ultimo dei nostri problemi", sospirò stancamente, "mi serve il tuo cellulare".
Sherlock lanciò uno sguardo interrogativo prima a John e
poi alle dita di John artigliate al suo braccio. John mollò la
presa.
"Devo chiamare un taxi, dammi il tuo telefono, per favore".
Sherlock inarcò le sopracciglia.
"E perchè non usi il tuo?"
John dovette mordersi la lingua per non insultarlo. Non pesantemente, almeno.
"Ehilà, scienziato della deduzione, non ho soldi! Con tutti gli sms che ti lascio mandare!"
Sherlock si lasciò persuadere dalla giustificazione di John ed esalò un "ok, prendilo pure".
John attese qualche istante prima di arrendersi al fatto che Sherlock
non si sarebbe scomodato a frugarsi nelle tasche e che avrebbe dovuto
farlo lui. Meglio non mettersi a discutere con uno Sherlock sbronzo o quasi.
Il dottore ispezionò le tasche esterne del cappotto dell'altro,
ma la sua ricerca non produsse alcun risultato se non quello di farlo
innervosire, facendogli pulsare ulteriormente le tempie. Fortuna che si
era fermato al secondo whiskey.
"Sherlock, non lo trovo, ricordi dove lo hai messo?", chiese, implorante.
Sherlock sembrò svegliarsi da una specie di sogno nel quale era
stato immerso fino a quel momento, mentre John gli setacciava il
cappotto.
"In questo momento ho un vuoto di memoria", rispose, e la sua faccia
dispiaciuta era così buffa che John non riuscì a
impedirsi di scoppiare a ridere.
"Adesso apri il cappotto, da bravo, che cerco dentro".
John si sorprese a trovare Sherlock più docile del previsto.
Lentamente il detective estrasse i bottoni dalle asole e quando ebbe
finito tenne il cappotto aperto perchè l'altro controllasse le
tasche interne.
"Niente! Dove lo hai ficcato questo benedetto cellulare? Ce l'hai avuto in mano tutto il tempo!"
John si avvicinò di più all'altro. Automaticamente mosse
le mani per slacciargli la giacca, ma si bloccò con le dita sul
bottone.
Alzò gli occhi per incontrare quelli di Sherlock.
"Ti rendi conto che ti sto praticamente spogliando, in mezzo alla strada?"
"Mhmh", fece Sherlock, ma John dubitava che se ne rendesse veramente conto. O che se ne curasse.
Si decise ad aprire la giacca e a cercare nel taschino interno. Quando
finalmente strinse le dita sul cellulare, sentì tra i capelli il
naso di Sherlock. Frenò l'impulso di allontanarsi di scatto.
"Scoperto qualcosa di interessante?", domandò, con noncuranza,
dopo aver messo la giusta distanza tra di loro e senza osare alzare lo
sguardo su Sherlock, concentrandosi invece a digitare il pin sul
cellulare.
"Hai cambiato balsamo. Preferivo l'altro", rispose il detective.
John dovette ammettere a se stesso di essere piacevolmente sorpreso nel constatare che Sherlock prestasse attenzione all'odore
dei prodotti che usava per lavarsi la testa. Ma represse questo
sentimento, in favore di un altro: la rabbia dovuta al fatto che non
ricordasse il numero del taxi.
"Il numero, non lo so...", mormorò.
Sherlock glielo dettò prontamente a memoria.
"Strano che uno che non riesce quasi a reggersi in piedi ricordi queste cose", commentò il medico, avviando la chiamata.
John notò con la coda dell'occhio che Sherlock si stava
picchiettando un dito contro la tempia, borbottando qualcosa sul suo hard-disk mentale.
"Verranno a prenderci tra un quarto d'ora", comunicò all'altro, quando ebbe chiuso la chiamata.
"Sono un'idiota, John", pigolò Sherlock, dondolandosi sul posto.
John benedisse l'alcool che circolava nel corpo del suo amico, visto che riusciva a fargli dire certe cose.
"Abbiamo seguito la persona sbagliata", continuò a lamentarsi Sherlock.
John comprese che Sherlock si stava riferendo al caso che avevano tra
le mani, che li aveva portati a pedinare un tipo losco fino al locale
prima che Sherlock si rendesse conto che erano completamente fuori
strada e ordinasse il suo primo whiskey.
"Per questo hai deciso di annegare i tuoi dispiaceri nell'alcool?"
Sherlock si limitò a sbuffare.
"Ah, riprenditi il tuo cellulare".
Jonh allungò a Sherlock il telefono. Questi guardò il
proprio cellulare con sufficienza e allargò il cappotto per
permettere a John di rimetterlo dov'era.
John provò a sistemare il telefono nel taschino dell'altro
cercando di manterere una certa distanza di sicurezza, ma, mentre con
dita incerte apriva la giacca di Sherlock, sentì il suo fiato
sulla fronte. Alzò il capo e si trovò a pochi centimetri
dalle labbra di Sherlock.
Mentre mille pensieri si rincorrevano nella sua mente, tutti più o meno di questo tenore Che cazzo sta succedendo? e Non farò mai più bere Sherlock, quest'ultimo parlò, con la voce strascicata tipica degli ubriachi.
"Perchè la gente ubriaca sente l'improvvisa urgenza di baciare chiunque gli stia vicino?"
La girandola di pensieri nella testa di John si arrestò. Il
medico si sforzò di spostare lo sguardo dalle labbra di Sherlock
ai suoi occhi, invano. Deglutì rumorosamente.
"Anche t-tu, senti questa urgenza?", balbettò e inconsciamente afferrò il bavero del cappotto dell'altro.
"No", esalò Sherlock, allontanandosi bruscamente e prendendo a sventolare un braccio. Era arrivato il taxi.
John maledì se stesso, il tassista e tutta la generazione degli Holmes.
*
Sherlock si stava rivelando parecchio socievole, fastidiosamente socievole.
Aveva subissato di domande il tassista da quando erano saliti in
macchina, ma questi gli aveva risposto per monosillabi e,
all'occorenza, grugniti.
John gli avrebbe volentieri spaccato la testa contro il finestrino.
L'emicrania si stava facendo più insistente, così come
quel sentimento bruciante che John aveva deciso di chiamare orgoglio ferito, parente del più stronzo desiderio frustrato. Entrambi questi sentimenti concorrevano nel farlo sentire un perfetto idiota.
"Sherlock, ti prego, vuoi stare zitto un attimo?", lo implorò, tastandosi le tempie.
Sherlock lasciò perdere momentaneamente il tassista e si sporse
verso di lui, obbligando John a schiacciarsi il più possibile
contro il sedile, per evitare che fossero troppo vicini, per l'ennesima
volta quella sera.
"Perchè? Stavo giusto per chiedere a quest'uomo quando si deciderà a confessare alla moglie di essere gay!"
John lo sentì arrivare prima che accadesse.
Il tassista inchiodò i freni e urlò loro di scendere immediatamente dal taxi.
John provò a balbettare qualcosa in loro difesa ma il tassista minacciò di fargli saltare le cervella
con la pistola che teneva sotto il sedile e questo convinse il medico a
schizzare fuori dall'auto, fosse vero o meno che tenesse un'arma. Di
tassisti assassini ne aveva avuto abbastanza per tutta la vita.
Prima di sfrecciare via, lasciandoli a piedi, il tassista urlò loro "questa ve la offro io!".
"Grazie tante, Sherlock!", si lamentò John.
Sherlock ridacchiò, compiaciuto.
"Non dicevo sul serio", precisò John, "idiota".
"Sarcasmo?", domandò Sherlock, imbronciato.
John lo ignorò.
"Hai la più pallida idea di dove siamo?", chiese, invece, guardandosi intorno, "io no!", ruggì.
"Siamo vicini", disse Sherlock, con un'alzata di spalle.
John si impose di mantenere la calma.
"Vicini a cosa?", sbraitò, fallendo nel suo proposito.
"A casa".
"E sai portarmici?"
"Certo", rispose Sherlock, offeso. Di nuovo si picchiettò un dito sulla tempia, "Londra è tutta qui."
"Sì, sì, lo so. Ma visto che sei ubriaco non vorrei che
confondessi la cartina di Londra per quella di, che ne so, Parigi".
"Non ce l'ho quella, mi dispiace".
John si ritrovò a ridere, suo malgrado.
"Me ne farò una ragione. Dai, andiamo".
Il medico prese Sherlock sotto braccio, perfettamente consapevole del
fatto che due uomini a braccetto nel cuore della notte avrebbero
destato dei sospetti, ma ormai si era arreso all'idea che qualunque
cosa facessero lui e Sherlock avrebbe destato dei sospetti. Andava
avanti da un po', e l'unica cosa che lo infastidiva era che Sherlock
non sembrava affatto infastidito.
Superarono un isolato infinito, prima che Sherlock decidesse di
imboccare un vicolo. Il pensiero di avere con sè la propria
pistola, come sempre quando usciva col detective (anche quando andavano
fuori a cena, con Sherlock non si mai), consolò John.
Nonostante tutto, l'unica cosa che aveva attentato alla loro vita era
stata la puzza tremenda che quel posto emanava, perciò John fu
sollevato quando si ritrovarono in una via principale.
"Quanto manca ancora?", domandò all'amico.
John sentì Sherlock irrigidirsi e vide i suoi occhi saettare da una parte all'altra della strada.
"Sherlock?", lo richiamò, con una punta di panico.
"Io non l-lo so", balbettò Sherlock.
"Cazzo", sputò John tra i denti, "non avevi il GPS incorporato?"
Sherlock chiuse gli occhi per un numero imprecisato di secondi,
abbastanza da far pensare a John che si fosse addormentato in piedi. ll
medico gli strizzò un braccio.
"É tutto confuso", ammise Sherlock, passandosi una mano tra i capelli, "tutto, tutto confuso".
"L'hard disk ha preso un virus?", ironizzò John, per combattere la voglia di spararsi in testa.
"Non riesco a pensare, John. Perchè mi succede questo?", disse Sherlock con un tono così dimesso che John si sentì in colpa.
"Va tutto bene", gli passò una mano sulla schiena, " ma la prossima volta vedi di non mischiare alcool e delusione".
Si guardò intorno.
"Cazzo, ci sono nato a Londra, saprò orientarmi-", si
bloccò, "aspetta un attimo, quello non è il Tesco dove
andiamo sempre? Prendiamo di qua!".
Afferrò repentinamente Sherlock per il cappotto, rischiando di fargli perdere l'equilibrio.
"Scusa", lo prese di nuovo sottobraccio, "andiamo".
*
Arrivarono a Baker Street nel giro di un quarto d'ora. Ci
avrebbero messo molto di meno se Sherlock non avesse cominciato a
strascicare il passo.
John aprì il portone e, dopo aver lasciato passare l'amico, se lo chiuse alle spalle.
Aveva appena iniziato a slacciarsi i bottoni del giubbotto quando si ritrovò Sherlock addosso.
"Sher-", provò a spingerlo delicatamente per toglierselo di
dosso, ma Sherlock lo aveva bloccato contro la porta. Sentì le
labbra dell'altro contro il collo, mentre i suoi capelli gli
pizzicavano il naso.
John non potè impedirsi di fantasticare che quelle labbra vagassero dal collo alla mandibola alle sue,
di labbra (e non si vergognò troppo per quella
fantasticherìa, a cosa altro avrebbe potuto pensare col corpo di
Sherlock schiacciato contro il suo?), ma la bocca di Sherlock era
perfettamente immobile, sebbene leggermente umida, e questo non era
certo d'aiuto affinchè John riprendesse il controllo del suo
cervello.
"John", mormorò Sherlock, e le sue labbra adesso si stavano muovendo, sebbene solo per parlare, e John adesso stava rischiando di perdere il controllo del suo corpo, "John, portami a letto", sussurrò all'altezza del suo orecchio.
"Fantastico", John dovette fare ricorso a tutto il suo autocontrollo per decidere di non prendere Sherlock alla lettera.
In quel caso, sarebbe stata solo colpa del detective e Sherlock non
avrebbe avuto alcun diritto di recriminare la mattina dopo.
Finalmente riuscì a scollarselo di dosso, non senza una
certa fatica e, dovette ammettere a sè stesso, un certo
disappunto. Gli tolse la sciarpa, rifiutandosi di guardarlo negli
occhi, e lo aiutò a liberarsi del cappotto, sistemandolo
sull'attaccapanni. Fece lo stesso con il suo.
"Saliamo", allungò una mano verso l'altro, che sembrava sul
punto di addormentarsi in piedi. Sherlock afferrò
automaticamente la sua mano e John lo aiutò a salire gli scalini
fino al suo appartamento.
Sempre tenendogli la mano, trovandola insolitamente calda e
insolitamente piacevole, John lo accompagnò in camera e accese
la luce della abat-jour. Sherlock si gettò a peso morto sul
letto.
"Spero non ti dispiaccia dormire vestito", fece John, non ricevendo
alcuna risposta. Decise tuttavia di togliergli le scarpe, ché
sarebbe stato scomodo, e poco igienico, dormire con quelle addosso.
Si appoggiò allo stipite della porta e osservò
Sherlock ingaggiare una battaglia con le coperte, nel tentativo di
coprirsi, prima di arrendersi e stendersi a pancia in su, una gamba
sotto alle coperte e l'altra no.
"No, no, così non va bene", John si avvicinò di nuovo al
letto, scuotendo Sherlock, semi inconsciente, per la spalla.
"Sherlock, devi girarti, devi metterti a pancia in giù, non puoi dormire così".
"Mhmh", fu l'unica risposta che ebbe da Sherlock.
"Dannazione", provò a voltarlo, ma l'unico risultato che ottenne fu di metterlo a dormire su un fianco.
John si sedette sul letto, si stropicciò gli occhi e
sbadigliò sonoramente, risolvendosi a fare l'unica cosa che lo
avrebbe fatto dormire tranquillo, libero dal timore che Sherlock
morisse nel sonno, soffocato dal suo stesso vomito. Si tolse le scarpe
e il maglione e si infilò sotto le coperte.
Se ne stette a osservare Sherlock per un po', alla fioca luce della
lampada, indugiando sulle sopracciglia che proiettavano la loro ombra
su quegli zigomi ridicoli.
Prese coraggio e allungò una mano per spostare un ciuffo di
capelli di Sherlock che gli disturbava la visuale, quando questi
aprì gli occhi. John rimase fulminato come se fosse stato
sorpreso in flagrante a rubare al supermercato.
"Come va?", domandò, per dissipare l'imbarazzo.
"Mi gira tutto", rispose Sherlock, con la voce impastata di sonno.
"Dormo qui perchè...ehm, per controllare che non ti succeda
niente durante la notte", balbettò, anche se l'altro non gli
aveva chiesto alcuna spiegazione.
"Ok", Sherlock si sistemò meglio il cuscino sotto la testa.
Chiuse gli occhi, e quando John si era ormai persuaso che si fosse
addormentato, parlò.
"Sai? Mia madre aveva torto", sussurrò.
John rimase interdetto.
"A proposito di cosa?", domandò, facendosi più vicino a
Sherlock, incontrando un ginocchio dell'altro sotto le coperte.
"Mi diceva sempre che non avrei mai trovato qualcuno".
Il cuore di John saltò un battito. Sherlock lo considerava il suo qualcuno?
"Nel senso di quel qualcuno?", e trovò il coraggio di aggiungere, "intendi me?"
Sherlock annuì debolmente, l'ombra di un sorriso sulle labbra.
John si sentì invadere il petto da un nuovo sentimento, al quale non era ancora pronto a dare un nome.
" Allora, dovresti chiamarla e dirle che si sbagliava".
John attese una replica di Sherlock, ma capì che si era addormentato per davvero, stavolta.
Troppo stanco per alzarsi a spegnere la luce, si addormentò
cullato dal respiro di Sherlock, con l'unica speranza che il famoso
detto, in vino veritas, fosse vero, anche se Sherlock aveva bevuto solo whiskey.
*
John si svegliò la mattina dopo un po' spaesato. Non riconobbe subito la stanza dove si trovava, ma quando l'odore di Sherlock investì le sue narici, si ricordò che aveva dormito in camera sua, nel suo letto, con lui.
Ma Sherlock si era già alzato, lasciando affianco a John solo l'impronta del suo corpo sul materasso.
John sentiva una strana sensazione di felicità allo stomaco,
come se la notte prima fosse successo qualcosa di speciale, di
importante, di memorabile.
Ma era quasi sicuro che solo orgoglio ferito e desiderio frustrato gli avessero fatto compagnia tutta la sera precedente.
Si infilò sotto la doccia, sperando di riuscire a ricordare.
Magari quella sensazione era dovuta a un sogno che aveva fatto, ma lui
i sogni li dimenticava sempre, solo gli incubi rimanevano bene impressi
nella sua memoria. Si insaponò i capelli con lo shampoo e stava
per passare al balsamo quando si ricordò che Sherlock gli aveva
detto che non gli piaceva. Queste sciocchezze se le ricordava, come si
ricordava il naso di Sherlock affondato tra i suoi capelli, il suo
fiato sulle proprie labbra, la sua bocca umida contro il collo, il suo
ginocchio contro la propria coscia...e la luce della lampada che
danzava sul suo viso, e i suoi riccioli ribelli sulle palpebre, e i
suoi occhi grigi offuscati dall'alcool-
John chiuse il getto d'acqua.
"Sono fottuto", mormorò, poggiando la fronte contro le piastrelle, "dannatamente fottuto".
Uscì dalla doccia, si avvolse nell'accappattoio e si diresse in salotto, inalando l'odore del caffè.
Si sedette sulla sua poltrona e fece per aprire il giornale quando
Sherlock sbucò dalla cucina, allungandogli una tazza di
caffè. John la prese, indirizzandogli un sorriso imbarazzato,
ottenendone in cambio uno radioso.
"Come mai così felice?", domandò, aprendo il giornale
sulle ginocchia, "è morto qualcuno?", e stava per portarsi la
tazza alle labbra, quando fu investito dal ricordo di ciò che di
memorabile era successo, di ciò che Sherlock gli aveva detto. Qualcuno.
"Tutto ok?", gli domandò Sherlock, vedendolo con la tazza a mezz'aria.
"Ehm sì", riuscì a borbottare John, ricomponendosi, "tu, piuttosto, come ti senti?"
Sherlock prese posto sul divano.
"Meglio. Ah, a proposito, ti ho rubato un'aspirina", rispose, "due", aggiunse, dopo qualche secondo di pausa.
"La prossima volta vedi di bere di meno", lo ammonì John, sorseggiando il caffè.
"La prossima volta vediamo di pedinare la persona giusta", replicò Sherlock.
Per i successivi dieci minuti John sfogliò il giornale
distrattamente, con una domanda che gli pizzicava la punta della lingua
e quella sensazione allo stomaco che da felicità si stava
trasformando in ansia.
Sherlock stava armeggiando col proprio cellulare.
"Lestrade mi da il tormento. Dobbiamo rimetterci al lavoro".
John si schiarì la voce, chiamando a raccolta tutto il suo proverbiale coraggio.
"Sherlock", cominciò, "ti ricordi niente di quello che è
successo ieri sera? Niente di quello che hai d-," prese fiato", detto?"
Sherlock lo fissò per alcuni secondi.
"Nonostante fossi ubriaco, mi ricordo tutto".
"Ah, ok", si limitò a rispondere John, tornando al suo giornale, incerto se sentirsi felice o disperato.
"Ritieni che abbia detto o fatto qualcosa di cui pentirmi?", chiese
Sherlock, alzandosi dal divano e muovendo alcuni passi verso di lui.
"Assolutamente no".
Sherlock si fermò dinanzi a lui.
"Bene, perchè io non mi pento di nulla".
Si piegò sulla poltrona. Il cuore di John accellerò i battiti, colmo d'aspettativa.
Sherlock si tirò su improvvisamente.
"A parte quando mi sono perso. Quella parte ti prego di rimuoverla".
John ridacchiò.
"E la parte in cui fai incazzare il tassista?"
Sherlock rise.
"Quello è stato piuttosto divertente".
Rimasero a fissarsi per qualche secondo, John seduto in poltrona,
avvolto nell' accappattoio, i capelli umidi, e Sherlock in piedi
davanti a lui, vestito di tutto punto, anche lui fresco di doccia.
"Grazie per esserti preso cura di me", gli disse.
"Quando vuoi", ribattè John, non staccando gli occhi dai suoi.
Sherlock si piegò di nuovo sulla poltrona, accostando il suo viso a quello di John.
"Perchè la gente per esprimere gratitudine sente l'urgenza di baciare chi gliela ispira?"
John si sentì dentro un replay.
"E tu", deglutì, "senti questa urgenza?"
Sherlock allungò una mano ad afferrare la nuca di John,
affondando le dita tra i suoi capelli umidi, e gli stampò un
bacio sulla bocca. John sentì il sapore del dentifricio di
Sherlock, l'odore del bagnoschiuma di Sherlock e probabilmente anche un coro di angeli.
Sherlock si staccò da lui, e gli sussurrò a fior di labbra.
"Adesso vestiti, Lestrade ci aspetta".
*Piccola nota dell'autrice*
Ammetto che questo Sherlock sia un po' OOC, almeno rispetto ai miei
standard o comunque rispetto all'idea che mi sono fatta di lui.
Però mi sono divertita a scrivere questa storia e spero che,
nonostante tutto, vi sia piaciuta.
Ringrazio la mia adorata beta Blaise.
Eventuali errori sono da attribuire alla mia distrazione o alla mia
ignoranza, visto che ho il vizio di cambiare sempre qualcosa anche dopo
averle fatto leggere una storia.
Grazie a voi lettori e alla prossima!
Idra
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