Il blues del tassista

di N3trosis
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La prima cosa che avverto è il buio.
Credetemi, il buio è come il freddo che ti si insinua nelle ossa, è come l'acqua gelida che ti si gela nelle vene.
Non è solo assenza di luce... è palpabile.
Sono in mezzo a una strada, una lunga strada asfaltata lastricata di lampioni distrutti.
E' strano, se alzo lo sguardo, al posto del cielo nuvoloso, vedo solo un ampio tetto che ricopre tutto.

 

Motori.
Suoni.
Grida, dolore!

“Ti ho preso, palle lisce!”

Uno sparo, un urlo straziato coperto da un seguito di risate.

In principio era buio... ma allo schiocco di dita del Creatore, la Luce invase il mondo, mettendoci a confronto con la nostra deformità.

Mi ritrovo in un edificio in fiamme.
La luce è troppo intensa, il calore troppo alto.
Se avessi i capelli, sarebbero in fiamme.

So che è un sogno.
Lo so.
Ma non riesco a svegliarmi.
E lei è li, con gli occhi sbarrati, che mi fissa. In un lago di sangue, suo, mio e dell'animale che l'ha conciata così.
Con quello sguardo giovane, maledettamente troppo giovane e maledettamente troppo accusatorio.

 

Mi sveglio urlando, per la seconda volta in una giornata.
Sudato, come se avessi corso per ore, mi guardo attorno e strizzo gli occhi per cacciar via quei sogni, quei ricordi.

Dove diavolo sono?

La prima cosa che avverto è il puzzo di olio per motori e plasma raffermo.
Evidentemente mi trovo ancora nell'officina... ma qualcuno deve essersi dimenticato di pagare la bolletta della luce, perché non vedo assolutamente niente all'infuori del mio naso.
E forse è meglio così, perchè solo quel susseguirsi di pensieri e considerazioni mi provoca un dolore feroce che mi aggredisce la nuca.
Una mano, cauta, va a tastare il centro di tutto quel male, trovando inaspettatamente un bozzo anomalo.
Vedo le stelle e bestemmio almeno in tre lingue diverse.

Cerco di ignorare quelle stilettate di dolore e strizzo più volte gli occhi. Dal buio iniziano ad emergere le prime sagome, i primi profili di quello che evidentemente è l'arredamento della mia suite presidenziale.

Sono seduto su quello che penso sia un letto, o per lo meno una branda. Mi alzo barcollando, cercando di rimettere in ordine le idee e sopratutto di ricacciare nell'oblio le immagini riviste in sogno.

Stordito arranco fino a sbattere contro la parete (altre bestemmie), combattendo il giramento di testa che minaccia di rimettermi fuori gioco. Raggiungo quello che sembra un interruttore, e pregando di non aver trovato l'autodistruzione della stanza, lo premo.

Il ronzio delle lampade alogene che si scaldano riempie la stanza, rassicurante.

Si, rassicurante un paio di balle.
Un secondo dopo l'equivalente di un sole mi esplode in faccia.

“Ma che caz...”

Il mal di testa detona come una cannonata, mentre cado all'indietro accecato contro la parete.
Devo ammetterlo: la scena è parecchio patetica.
Messo ko dalle luminarie. Grasse risate.

Riapro gli occhi e boccheggio. Il mondo riacquista la giusta gradazione di luminosità solo qualche minuto dopo, almeno dopo la decima imprecazione.
“Sono vecchio ormai, cazzo.”

Finalmente posso vedere la stanza dove mi sono svegliato.
Sembra un vecchio magazzino, di quelli ausiliari alle autofficine.
Avevo ragione, non mi ero poi mosso di molto.
La cosa strana è che il magazzino, di magazzino, ha davvero poco.
Quello dove ero steso è un piccolo letto a due piazze, poco più che due brande attaccate assieme, affiancato da un armadio – valigia da viaggio e da una pila non indifferente di libri.

Libri cartacei.
Qualcuno era un amante del vintage.

Su uno scaffale trovo una foto, anch'essa cartacea.
In posa trovo una coppia: un uomo sulla trentina avanzata, scuro di capelli e con un espressione seria, adornata un bel paio di baffi neri, basette e pizzetto.
Quell'armadio è accompagnato da una ragazza minuta dallo sguardo sveglio e intelligente come pochi il tassista abbia avuto il privilegio di vedere. Fluenti capelli castani sono liberi sulle spalle, mentre viene ritratta praticamente appoggiata alla figura dell'uomo, vestita da un abito da sera piuttosto sobrio ma elegante.

“Oh! Ti sei svegliato finalmente!”

Mi riscuoto dai miei pensieri, mentre mi volto in direzione di quella voce sicuramente inaspettata.
L'abito da sera è sostituito da una tuta da lavoro blu, e i capelli sono raccolti in una coda più pratica, ma quella è sicuramente la stessa tipa della foto.
E' entrata nella stanza da una porta posta sulla parete di fondo, che evidentemente era sfuggita al mio primo sopralluogo. Ma quanto male mi faceva quella maledetta testa?
Regge, fra le mani, un vassoio di plastica, anch'esso blu, di quelli che ti danno in ospedale per il cibo.

“Chi diavolo siete?”

La prima cosa che mi viene in mente. Non la più intelligente, pare.
Lei infatti sorride.

“Ma non sei tu ad essere venuto da noi?” commenta, divertita, posando il vassoio su una cassa di legno e scrollando le spalle.
“Mangia va. Avrai fame, sono ore che te ne stai li a poltrire.”

Faccio per fermarla, per farle qualche altra domanda, ma lei è già fuori dalla stanza, e a me gira ancora troppo la testa per cercare di rincorrerla e bloccare la porta.

Do invece un occhiata al vassoio.
Una ciotola di riso, un bicchiere d'acqua e due dermi di un bell'azzurro cielo.
Dio, evidentemente, esiste.
Ignoro il cibo e afferro i due dermi. Azzurro significa analgesico.
Li infilo subito al polso, entrambi, e premo con forza il cinturino, mentre gli aghi mi penetrano il polso e subito la testa si intorpidisce, calmandosi.

Dio benedica quella ragazza... nonostante mi tenga rinchiuso in questo museo dell'anteguerra.
Mi passo una mano sul cranio rasato, mentre mi siedo su quel surrogato di letto e mi gusto l'effetto dei dermi.
Velocemente rielaboro la situazione.
Ero in un capannone industriale, prigioniero in uno sgabuzzino.
I cattivoni del momento sono un tipo con una maschera da smerigliatore e una ragazza carina in tuta da lavoro.

E... mi hanno rapito per sventrare il mio Taxi.

Hum.

Mi ero forse perso qualcosa?
L'unica cosa che più o meno poteva rappresentare qualche valore poteva essere Deb...

Un momento, non era Deb quella che avevo visto prima di essere colpito?

 

Si, mi ero decisamente perso qualcosa.

 

Bhe, una cosa era certa: dovevo uscire da li.
Nuovamente ignoro il cibo offerto, avvicinandomi invece alla porta usata dalla tipa.
E' una vecchia porta tagliafuoco. Vecchia scuola: maniglia, serratura meccanica, cardini.
Cardini per Dio!
Nessuno faceva più dei cardini da... troppo.

Al diavolo...

Prendo la rincorsa e do una spallata alla porta, sul lato della maniglia, pregando che il punteruolo che la tiene chiusa non sia resistente come sembri e sopratutto di non lussarmi la spalla.
E...

…e ovviamente la porta non è chiusa a chiave. Questa si spalanca al primo tocco, facendomi rovinare sul pavimento dell'officina.

Tre facce si voltano a guardarmi.
Anzi, una faccia, una maschera e un ologramma.

“Questo è fuori.” commenta la maschera, voltandosi tornando a fare quello che stava facendo.





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