Murder, she wrote

di JoJo
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Franklin D. Roosvelt una volta disse che l'unica cosa di cui gli uomini devono avere paura è la paura stessa.
Lei in quel momento aveva paura, di questo era certa. Solo che non era solo la propria paura a preoccuparla.
C'erano le ombre degli armadietti lungo i corridoi che sembravano sempre più minacciose pur nella loro immobilità.
C'erano i freddi riflessi della luce lunare, che entravano tremolanti dalle immense vetrate che davano sui tavoli esterni della mensa, che illuminavano tutto in modo sinistro.
C'era il silenzio. Terrificante, avvolgente, che non lasciava vie di scampo.
La consapevolezza che i suoi passi erano l'unico segno di vita che rieccheggiava nelle stanze eccezionalmente disabitate della Cabot Cove Highschool le dava i brividi.
Non aveva paura di essere scoperta, quello no. Il signor Mulligan, il custode, era famoso per i sonnellini che si concedeva sul luogo di lavoro e, considerando che la scuola non era dotata di telecamere di sorveglianza, non funzionanti perlomeno, non si poneva nemmeno il problema di nascondersi per riuscire a completare la propria missione.
Il piano era semplice: entrare a scuola durante la notte, attraversarla fino ad arrivare ai bagni femminili della palestra e, una volta lì dentro, cercare la spilla, prenderla e portarsela a casa.
Era semplice, in effetti...Se solo tutto in quel momento non le ricordasse uno di quei film horror da quattro soldi che trasmettevano sui canali via cavo in seconda serata!
La ragazza si concesse un respiro profondo e si concentrò sul perché stesse facendo tutto quello: doveva entrare nelle Lionesses, a qualunque costo.
Certo, tecnicamente aveva superato i provini per diventare cheerleader giusto una settimana prima, ma tutti sapevano che non bastava solo quello per far parte davvero del gruppo di ragazze più popolari della scuola. Se non avesse superato la prova di coraggio che le era stata assegnata quelle fanciulle dall'aria angelica, amate da tutte e con tutta la scuola ai loro piedi, le avrebbero reso la vita un inferno ed essere una paria sarebbe diventato l'ultimo dei suoi problemi.
Così, eccola lì, ad aprire la cigolante porta degli spogliatoi femminili, alla ricerca della spilla a forma di rosa di Georgia Adams. 
La porta sbatté alle proprie spalle e lei si ritrovò a fare un salto sul posto, terrorizzata.
Odiava quella situazione con tutta se stessa, si disse a bassa voce, mentre entrava nella stanza da bagno.
E una volta lì, sentì il sangue congelarsi nelle vene.
Il grande specchio che copriva la parete sopra i lavandini era rotto, le schegge sparse ovunque e coperte da un liquido vermiglio che la sua mente riconobbe con una facilità impressionante nella totale paralisi in cui il suo corpo era caduto.
La pozza di sangue si stava allargando sempre più sulle piastrelle azzurre del pavimento, tanto che stavano raggiungendo i suoi piedi a velocità altissima.
E, proprio in quel sangue, giaceva una figura accartocciata e immobile. I biondi capelli insudiciati e il vestito color crema ormai disastrato. 
Georgia  giaceva morta, con ancora la propria spilla stretta fra le dita lunghe e affusolate.
La ragazza ritrovò solo in quel momento la capacità di agire, ma l'unica cosa che riuscì a fare fu svuotare i polmoni di tutta l'aria che contenevano e urlare.
Urlare e basta.





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