❝ The
four seasons❞
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Chapter
4
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Daemon/Giotto
La
passeggiata crepuscolare, trascorsa per la maggior parte sulle rive del
fiume, stava per volgersi al termine di pari passo con
l’umore di Giotto. Era
invisibile quanto l’aria che gli scompigliava i capelli; un
umore talmente
tetro che sin dall’inizio della passeggiata aveva fatto
silenzio, senza
spiccare la minima parola. Teneva lo sguardo basso, inebriato del
bagnato rosso
circolante nell’aria serale, contando i giorni che non
sarebbero mai più
ritornati.
Il
silenzio di Amsterdam l’aveva dannato, conducendolo ad una
netta sentenza
dei suoi ricordi, aprendogli gli occhi una volta per tutte. La mano a
cui si
aggrappava in quel momento come una rondine al nido, non era altro che
un
profano traditore, un gelido burattinaio che attentamente stava per
recidere i
cavi del gioco –e l’aveva scoperto solo in
quell’istante, ignorando i mesi
bugiardi che tanto l’avevano accompagnato per tutto questo
tempo.
Quando
si decise ad alzare lo sguardo, Daemon Spade lo stava fissando
attentamente. Gli occhi di ghiaccio sembravano ridere di lui, tanto che
eran
belli, con quel taglio affusolato quanto le sue mani da assassino, con
quella
bocca da amante irreale.
Si
fermò, quasi colpito da un fulmine; la visione di
quell’essere che aveva
offuscato il sole gli aveva impedito di realizzare qualcosa di concreto
oltre
alla sua presenza. Quest’ ultimo teneva ancora le labbra tese
in una smorfia
indefinita, quasi avesse intuito i pensieri dell’altro, un
dono che non gli era
stato mai concesso; le labbra di Giotto si curvarono in un sorriso
tremolante,
e persino gli occhi color del tramonto parvero tremare, ora calmi, ora
tremanti, vibranti di una triste speranza che ora lo abbandonava, ora
ritornava.
«Tra
non molto te ne andrai dalla mia vita, non è
così?»
Pareva
aver colpito nel punto giusto, perché Daemon
curvò il suo volto verso il
basso, e la scintilla d’ira si fece sentire,
perché l’altro fissò lateralmente
il vuoto.
«Ti
sei mai chiesto perché ti ho portato qui, ad
Amsterdam?» Giotto socchiuse
gli occhi a quella domanda. Odiava che gli si fosse risposto con
un’altra
domanda, nonostante lui stesso lo facesse continuamente.
«Perché
odi il resto dei miei guardiani, per caso?» rispose in tono
canzonatorio, tenendo fermo quel sorriso inespressivo; Daemon
alzò il volto e
coprì nuovamente il sole intento a scomparire, ridendo in
modo amaro, scoprendo
i canini bianchi. Un’altra cosa di lui che Giotto amava quasi
alla follia.
«Qualcosa
del genere.» prese una pausa, adocchiando sfuggente i
passanti
olandesi che lo circondavano. «In realtà era da
molto che avevo bisogno di
stare da solo con te. Non sopporto che qualcun altro ti ronzi attorno,
Giotto.
Ti ucciderei volentieri se questo ti renderebbe unicamente mio.
Ed
eccoci qua, di nascosto ad Amsterdam. Perché dovresti
preoccuparti di una
cosa simile?
Andiamo.»
rise, di una risata sorda e maligna, inebriando l’aria di
quel sapore
di gelo che lo distingueva dal resto. «Dovresti aspettarti
una cosa del genere
da me.
Non
puoi pretendere amore da chi non è capace di
assicurartelo.»
Il
volto di Giotto si dipinse di un chiarore quasi scultoreo, che
s’intonava ai
battiti sempre più lontani del suo cuore. Lo sapeva da
sempre, ma solo da poco
aveva messo in gioco questa remota possibilità.
Scosse
la testa in modo frenetico, e poi, con un battito di ciglia, la
maschera
andò in frantumi.
Perse
tutti quei piccoli cocci di vetro in un solo momento, e questi caddero
a
terra trasformandosi in astratte gocce di rugiada, scivolando sul
marmoreo pavimento
come il mattino pallido pronto a sbocciare.
Si
appoggiò col capo sul petto di Daemon, e iniziò a
battere contro questo le
mani, chiuse in pugni dalle nocche rosee. Non pianse; semplicemente
schiacciò
sotto quelle mani minuscole quell’arcana realtà
che lo stava divorando
lentamente da ore, giorni, settimane.
Daemon
parve sorpreso, perché con ritardo abbracciò quel
piccolo uccellino che
tentava di fargli del male – facendosi del male.
A
Giotto sembrò di esser stato abbracciato da qualcuno che
porta sulle spalle
il mondo intero, pur di proteggerlo: e invece rimangiò
questo pensiero, perché
erano le braccia della morte.
«Guarda
un po’, su quel ponte, Giotto: c’è un
fotografo. Mi permetti di
immortalare la tua bellezza al mio fianco?» la voce era tanto
mielosa e
suadente che a Giotto parve di sentire l’eco di quelle notti
passate insieme,
al solo chiarore di una candela.
Seppur
con il dolore scheggiato tra le ciglia, si rialzò da quella
posizione, e
riaggiustandosi il pellicciotto alzò il volto sorridendo,
indossando di nuovo
quel contegno e quella maschera che l’avevano nominato
“Primo Vongola”.
Incastrò
di nuovo la mano piccola in quella più grande del demone, e
lasciò che
lo condusse a quel ponticello anonimo, ma meravigliosamente deliziato
da una
luce rossa perfetta. Daemon chiese al fotografo in un perfetto accento
di
Amsterdam se poteva scattargli una foto, depositandogli tra le mani
callose
delle monete luccicanti. Gli parve sconcertante la differenza tra
quelle mani
vissute e quelle del suo giovane amante, che erano bianche e dalle
unghie
curate, degno del nobiluomo che era.
Si
voltò e tornò verso Giotto, indicandogli di
mettersi in posa al suo fianco,
sorridendo; quel sorriso che diventò malinconico e
condizionò gli occhi felini
a diventare quasi ricolmi di lacrime.
La
bellezza divina –di che mondo, di che girone infernale?- e le
parole di
Daemon l’uccisero e lo fecero cinguettare di dolore,
nuovamente.
«Devi
abbracciare ciò che non hai più.»
Silenziosamente,
mentre il fotografo li avvertiva che era in procinto di
scattare, si avvicinò al corpo del demonio e lo
abbracciò lateralmente,
cingendo la sua vita, poggiando il capo come un bocciolo in fiore
sorridente
sulla sua spalla e fissando la grigiastra fotocamera.
Daemon
sorrise, col suo solito fascino incantatore, e aspettò che
il rumore
metallico della fotocamera gli inondasse le orecchie.
Dopodiché, aspettò che le
lacrime gli bagnassero le iridi, quando vide il fotografo tirar fuori
la foto
dalla polaroid e scrivere sul bordo inferiore “14 dicembre
1945”, quando sentì
Giotto dirgli affranto: «L’ho appena
fatto.»
†
Molti
anni dopo, successivamente alla scomparsa prematura di Giotto Primo
Vongola, Daemon Spade ritrovò la fotografia.
Gli
occhi gli si ricolmarono di lacrime ancora una volta, e
lasciò che esse gli
ricadessero una volta per tutte sulle guance pallide, capendo
l’enorme sbaglio
che aveva commesso.
Giotto
lo stava abbracciando, sorreggendolo come dei rami possenti, e ora
Daemon era solamente una foglia morta, avendo perso il suo albero
nativo. L’aveva
perso, non avrebbe mai più rivisto quel volto in fiore come
una giovane
innamorata al suo primo amore, non avrebbe mai più avuto una
persona che gli
avrebbe donato tanto amore così come gliel’aveva
donato Giotto.
Daemon
abbracciò la foto, proprio come aveva consigliato a Giotto
in quell’istante,
‘doveva abbracciare ciò che non aveva
più’.
†
Le
cose cambiano.
Mutano
negli attimi, non aspettano che qualcuno li noti in modo ossessivo;
cambiano e basta.
Le
persone perdono interesse, ci deludono, ci rendono felici, ma cambiano.
Cambiano
e fa impercettibilmente male.
Avviene
in loro la metamorfosi che attanaglia le farfalle che le circondano.
Le
stagioni passano: primavera, estate, autunno, inverno; loro sono le
regine
del tempo, non aspettano e si fanno aspettare.
Con
le loro sfumature preziose ci fanno capire che ogni stagione
è unica: le
amicizie e gli amori più fedeli cambiano e si disperdono
nell’aria come polline
al vento, e mai resteranno uguali in un’altra stagione.
Per
quanto ci affatichiamo a tenerci stretti al presente, soffriamo con la
consapevolezza che la primavera tornerà, l’estate
pure, l’autunno e l’inverno
ancora.
Questa
raccolta è dedicata a svariate persone, che sono presenti
–seppur non ne
abbia fatto nome- nei dettagli delle frasi, sui fronzoli delle mie
parole.
E’
grazie ai vostri cambiamenti che mi hanno permesso di narrare lo
scorrere di
queste stagioni così intrise dei miei stati
d’animo: che mi abbiano addolorato
o mi abbiano donato felicità, sono stati esattamente come le
stagioni.
Mi
hanno sorpresa e lasciata senza parole.
Come
dulcis in fundo ringrazio i miei
amati lettori, che non sono meno importanti del resto: grazie a chi ha
letto, a
chi ha recensito, e un profondo grazie soprattutto a chi è
riuscito a provare
le stesse sensazioni che ho provato io nel scrivere questa raccolta.
Insomma,
grazie mille a tutti gli spettatori di questo mio personale teatrino
dei burattini! ~
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