Note
dell’autore:
Ciao a tutti! :) Eccomi qui,
sono ricascata dal mondo delle nuvole giusto per lasciarvi questa
oneshot nata all’improvviso e scritta in pochissimo tempo,
intensamente (rischiando la strigliata dei miei genitori che, come al
solito, dicono che sto troppo tempo al computer a
“cazzeggiare”). Quindi spero che il mio rischio e
ciò che ne è venuto fuori sia piaciuto! ;D
Vi dico solo che ho mescolato la mia vera esperienza di stage in
Germania (sono tornata circa una settimana fa!) e un po’ di
fantasia… Okay, molta
fantasia xD
Credo di aver detto tutto :) Non mi resta che augurarvi buona lettura!
I Tokio Hotel non mi
appartengono e con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di
lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del loro carattere,
né offenderli in alcun modo.
___________________
The
heart has a language of its own
1° giorno, sabato
Beatrice
aveva le cuffiette dell’mp3 nelle orecchie e stava ascoltando
il suo gruppo coreano preferito, ma i suoi occhi castani ed attenti non
si perdevano nulla di ciò che accadeva intorno a lei.
Federica, la sua unica compagna di
classe in quella comitiva di studenti nonché sua futura
compagna di stanza, era seduta accanto a lei e con la testa posata sul
finestrino continuava a sbuffare, borbottando ogni cinque minuti che
non ne poteva più del pullman e di Luigi,
l’autista, che con le sue soste inutili e lunghissime li
aveva costretti ad un viaggio di dodici ore strazianti.
Anche le tre professoresse accompagnatrici, sedute tutte intorno a loro
due, ne avevano fin sopra i capelli ed erano piuttosto scocciate di
aver dovuto chiamare la preside della scuola in cui avrebbero dovuto
seguire un corso di dieci giorni per avvertirla del ritardo.
“I tedeschi erano sempre così puntuali! Gli
italiani, invece, dovevano sempre farsi riconoscere”.
La prof che aveva tenuto i contatti
con la scuola ospitante ed organizzato la maggior parte dei dettagli
del soggiorno studio, quella che le altre due prof chiamavano
“la nostra Reiseleiterin” (guida, in pratica), si
alzò in piedi e barcollò fino al microfono
posizionato sul cruscotto.
«Allora,
ragazzi… un attimo di attenzione, per favore».
Beatrice spense l’mp3 e
si tolse le cuffie, stiracchiandosi come un gatto sul sedile e
sbadigliando. La prof la guardò ed arricciò il
naso, allora lei si affrettò a portarsi una mano di fronte
alla bocca e a tornare composta, un sorrisino imbarazzato sulle labbra.
«Siamo quasi arrivati
alla scuola. Prima che scendiate in massa come delle capre vi avverto
già che dovrete pazientare ancora un po’ e stare
seduti ai vostri posti, perché la preside salirà
sul pullman e vi chiamerà uno ad uno per consegnarvi gli
abbonamenti per i mezzi di trasporto. Poi saremo noi a chiamarvi
ancora, questa volta per camera, e vi affideremo alle vostre famiglie.
Mi raccomando…», sospirò e
lasciò in sospeso la frase, portandosi una mano sulla
fronte. Poi riprese: «Domani mattina, visto che è
domenica, inizieremo a visitare la città. Non è
un paesino, quindi per favore fatevi spiegare bene la strada per
arrivare fino alla scuola e fate attenzione a non prendere i mezzi
sbagliati, o potreste anche finire dalla parte opposta».
«Rassicurante come al
solito», mormorò Beatrice sorridente, rivolgendosi
alla compagna, la quale annuì con un cenno del capo.
«Ricapitolando, domani ci
vediamo di fronte alla scuola alle nove. Puntuali, okay?».
Un coro omogeneo di voci
prevalentemente femminili intonò: «Sì,
prof!».
La professoressa mise a posto il
microfono, che come al solito fischiò, e poi
tornò a sedersi.
Beatrice iniziò a
prepararsi, infilandosi le maniche del giubbotto e mettendo nelle
tasche tutti i suoi oggetti personali, tra cui il suo preziosissimo
mp3, per essere sicura di non dimenticarsi nulla. Poi cercò
di rilassarsi guardando fuori dal finestrino oltre la testa di
Federica, ma la sua mente e il suo stomaco in subbuglio, sia per il
viaggio che per l’eccitazione di scoprire come fosse la
famiglia a cui era stata destinata, non le permisero di staccare la
spina, anzi la fecero sentire ancora di più sulle
spine.
Kaulitz. Sapeva soltanto quello, il
loro cognome.
Molte volte, ancor prima della partenza, aveva provato ad immaginarsi
un viso, se appartenesse ad un lui o una lei, se avesse dei figli o
meno… E ogni volta aveva sperato cose diverse, senza
giungere ad un risultato definitivo. A quel punto si era detta che si
sarebbe adattata a tutto, a patto che fossero persone disponibili e
simpatiche.
«Oddio, sono
quelli?».
Beatrice levò il capo ed
osservò la sua compagna mettersi in ginocchio sul sedile per
vedere meglio fuori dal parabrezza, poi la imitò. Il suo
sguardo si posò immediatamente sul capannello di persone di
fronte ad un edificio in stile art-deco, la scuola, e il cuore
iniziò a batterle più velocemente nel petto,
mentre anche tutti gli altri studenti si alzavano in piedi per guardare
fuori dai finestrini e scambiarsi i loro pareri e le loro speranze.
«No, il bambino io non lo
voglio! Guarda come strilla!», gridò una ragazza
qualche sedile dietro Beatrice, che voltò subito il capo e
lo vide in braccio ad una donna robusta e coi capelli biondi lunghi
fino alla schiena.
«Speriamo non sia la
nostra», disse Federica, torturandosi il labbro.
«Vorrei dormire la notte».
Beatrice represse una risata e
continuò la sua ispezione tra i volti, incurante del pullman
che si era fermato e delle professoresse che salivano e scendevano per
coordinare le varie operazioni. Oltre alla madre con il bambino,
c’erano due coniugi anziani, un uomo piuttosto giovane con un
bel labrador legato al guinzaglio, due uomini a cui non diede
più di cinquant’anni che stavano bevendo un
caffè appoggiati al tavolino fuori da una specie di
panetteria, tre signore anziane che parlottavano tra loro e
ricambiavano incuriosite gli sguardi che gli stavano rivolgendo alcune
ragazze sul pullman.
«Silenzio!»,
gridò la professoressa Rüfer, nata a
Düsseldorf e da qualche anno insegnante di conversazione nel
liceo di Beatrice.
Federica tirò
giù a sedere la compagna e quest’ultima si rese
conto della persona di mezz’età che si era
piazzata a fianco a loro con un pacco di tessere in mano e il
microfono: la preside del DID-Deutsch Institute di Amburgo.
Quando ci fu abbastanza silenzio,
la preside sorrise ed iniziò a parlare in tedesco senza
preoccuparsi di farsi capire dai poveri ragazzi italiani che avevano
viaggiato per quasi tredici ore. Beatrice afferrò qualcosa,
ma la curiosità di vedere in faccia la persona con cui
avrebbe vissuto per le prossime due settimane era decisamente troppa
per prestare la massima attenzione. E poi le prof avrebbero sicuramente
ripetuto quelle stesse cose, in italiano, un altro milione di volte!
Finito il discorso di benvenuto, la preside distribuì le
tessere e gli abbonamenti per i mezzi di trasporto. Conclusa anche
quella confusionaria operazione, le prof presero in mano la situazione
e chiamarono per cognome tutti i ragazzi per consegnarli come pacchi
alle famiglie.
Beatrice, impaziente, chiuse gli
occhi e sperò con tutte le sue forze di non essere
l’ultima. Qualcuno evidentemente
l’ascoltò, perché il suo fu il quinto o
il sesto urlato dalla professoressa.
«Sì, siamo qui!», gridò
alzandosi in piedi e raggiungendo per prima la professoressa
Rüfer giù dal pullman, che le avvolse un braccio
intorno alle spalle ed incitò lei e Federica a seguirla tra
la folla.
Beatrice osservò tutti i
visi che incontrò, sorridendo a quelli che le sembravano
rispecchiare le caratteristiche della sua “famiglia
perfetta” e chiedendosi ogni volta se era di fronte a quella
o quell’altra persona che si dovevano fermare.
Alla fine il momento tanto atteso arrivò e Beatrice
incrociò gli occhi nocciola di uno dei due uomini che aveva
visto col caffè al tavolino fuori dalla panetteria.
L’uomo si passò una mano tra i capelli tirati
all’indietro sulla testa e le sorrise, per poi fare lo stesso
con la sua compagna, mentre la prof le presentava: «Herr
Kaulitz, ecco qua le sue ragazze: Beatrice e Federica».
«Piacere di
conoscervi», disse in modo affabile e gentile, stringendo la
mano prima ad una e poi all’altra. Beatrice, non sapendo come
ricambiare la cortesia in tedesco, gli rivolse un sorriso.
«Adesso scusatemi, ma
devo occuparmi degli altri ragazzi», disse la prof
Rüfer. Poi si rivolse alle due ragazze: «Siete in
buone mani, non preoccupatevi».
L’uomo sorrise e
salutò la professoressa, ringraziandola. Ora la sua
attenzione si sarebbe posata interamente su di loro e Beatrice avrebbe
avuto l’onore di capire un po’ meglio che persona
fosse in base alla prima cosa che gli avrebbe detto senza la presenza
della prof, ma questo non accadde perché il signor Kaulitz
guardò oltre le loro spalle e sorrise. Fu un sorriso
completamente diverso rispetto a quello che aveva rivolto a loro o alla
prof, più carico d’amore. Beatrice si
voltò, chiedendosi per chi fosse, e scorse l’uomo
che aveva visto fargli compagnia prima che la preside salisse sul
pullman.
Non
mi dire che ci è capitata la coppia gay,
pensò osservando attentamente anche il sorriso
dell’uomo che una volta attraversata la strada
aprì il pacchetto di sigarette nuovo.
«Sono arrivate,
finalmente!», esclamò e nonostante la sigaretta
che si era infilato fra le labbra e il fatto che si fosse messo a
ridacchiare, Beatrice riuscì a capirlo. Come capì
la frase seguente, accompagnata da un sorriso malizioso:
«Questa volta due ragazze carine, eh?».
«Mi è andata
bene», rispose il signor Kaulitz scrollando le spalle.
«Oh mio Dio, ma che cosa
vogliono questi da noi?», piagnucolò a bassa voce
Federica, prendendo il braccio della compagna.
Beatrice, stufa di stare ad
ascoltare i loro discorsi e di essere presa come quella che tanto non
capiva, si schiarì la voce e cercò lo sguardo del
signor Kaulitz, che subito scosse il capo e disse: «Lui
è mio fratello gemello Tom. Tom, loro
sono…».
«Beatrice e
Federica», disse Beatrice, stringendo la mano
all’altro signor Kaulitz e notando che, in effetti, si
somigliavano parecchio ed avevano gli stessi intensi occhi color
nocciola.
«Bene. Hai bisogno di una
mano con i loro bagagli? Altrimenti me ne andrei a
casa…».
Il signor Kaulitz ancora senza nome
guardò le due ragazze e notò che non avevano con
loro alcun bagaglio. «Sarà meglio che andiate a
prendere le vostre valigie».
«Oh,
sì», disse Federica, che aveva afferrato il
significato delle sue parole un momento prima di Beatrice.
Insieme si avviarono verso il
pullman e si fecero spazio tra i loro compagni, poi con un
po’ di fatica tirarono giù i loro trolley, di
modeste dimensioni ma pieni fino all’orlo, e li trascinarono
dai gemelli, i quali le condussero fino all’auto,
un’Audi bianca molto elegante che fece subito ben sperare
Federica sull’agiatezza economica del loro
“papà tedesco”.
I Kaulitz li caricarono nel baule, che ovviamente non si chiuse, e dopo
aver salutato le professoresse ed averle avvertite della loro partenza,
le ragazze si misero sedute comode sui sedili di pelle: Beatrice al
posto del passeggero e Federica sul sedile posteriore.
Anche il signor Kaulitz si stava
per mettere al volante, ma il fratello lo prese per una spalla e
scoppiò a ridere guardandolo in faccia: «Che fai,
non mi saluti?». Lo abbracciò, dandogli qualche
pacca sulla schiena, poi si sporse dentro l’auto per salutare
Beatrice e Federica.
«È stato bello conoscervi! Magari ci vedremo
qualche altra volta. Spero che Amburgo vi piaccia!».
«Grazie,
arrivederci», risposero in coro. Poi, finalmente, il signor
Kaulitz entrò in auto e mise in moto.
In un primo momento fu strano per
Beatrice sentire lo speaker alla radio parlare in tedesco, ma si
abituò presto e non vi fece neanche più caso, con
lo sguardo perso fuori dal finestrino, ad ammirare gli edifici, i
negozi, i condomini, le villette, simili ma così diversi da
quelli che era abituata a vedere nel suo paese.
Ad un certo punto il signor Kaulitz
disse qualcosa, ma Beatrice non capì e gettò uno
sguardo a Federica per sapere se almeno lei aveva decifrato qualche
parola, ma niente. Imbarazzata, tentò di spiegare che non
aveva capito.
L’uomo allora si espresse
con altre parole, più semplici: «Non parlate.
Siete sempre così silenziose?».
«Ah!»,
esclamò Beatrice. Ora aveva capito. «No,
no… non so cosa dire».
Il signor Kaulitz sorrise.
«Quanti anni avete?».
«Diciotto. Lei
diciannove».
«E dove
abitate?».
«Milano. Non in centro,
ma…».
«In un paese
vicino?».
«Sì».
«Ho capito.
C’è qualcosa che non potete mangiare, qualcosa a
cui siete allergiche?».
Beatrice e Federica si guardarono,
ma a differenza di Federica che era quasi sconvolta dal modo in cui il
signor Kaulitz saltava di pane in frasca, Beatrice era molto divertita
e rispose col sorriso sulle labbra: «No, siamo a
posto».
«Perfetto! Anzi
no».
Federica aggrottò la
fronte. «Perché?».
«Perché anche
io adesso non so cosa dire».
Beatrice scoppiò in una
risata sincera e a quanto pare anche contagiosa, perché il
signor Kaulitz la imitò. Lo guardò coprendosi la
bocca con una mano e decise: gli stava decisamente simpatico.
Il signor Kaulitz aprì
la porta della sua villetta e si fece da parte per farle entrare per
prime.
«Eccoci a casa. Benvenute».
Beatrice e Federica trascinarono i
loro bagagli all’interno e si fermarono nel bel mezzo
dell’ampio corridoio da cui si vedevano la cucina, il salotto
e la scalinata che portava al piano superiore.
Beatrice osservò le scale e sospirò, giusto un
momento prima che il signor Kaulitz dicesse loro: «La vostra
camera si trova al piano di sopra».
«Ecco, lo
sapevo», biascicò Federica, mentre cercava di
sollevare il suo trolley per la maniglia. L’uomo, vedendola
in difficoltà, l’aiutò; Beatrice,
invece, riuscì a portarsela da sola, anche se
rischiò un’ernia o qualcosa del genere.
Il signor Kaulitz aprì
una tra le diverse porte che davano sul corridoio, quella volta
più stretto, e gli mostrò la loro camera da
letto. Si trattava di una stanza di grandezza normale, forse un
po’ più grande di quella di Beatrice a casa sua,
ma i letti erano a castello. Un grande armadio era posizionato contro
una parete e contro l’altra c’era una scrivania con
una lampada e una sedia girevole.
«Scusatemi, ma oggi non
ho avuto tempo di fare i vostri letti. Riuscite a farveli da
sole?».
Beatrice e Federica scrollarono le
spalle, annuendo. Il signor Kaulitz tirò fuori da un ripiano
dell’armadio un paio di federe, due coprimaterasso e quelle
che a prima vista sembrarono lenzuola.
«Poi… Ah, la
porta qui a sinistra è il bagno. Io non lo uso mai,
perché io ho il mio nella mia camera, quindi potete usarlo
come e quando volete».
«Okay, grazie».
«Magari dopo vi mostro il
resto della casa, adesso rilassatevi». Con un sorriso di
commiato fece per uscire dalla camera e chiudersi la porta alle spalle,
quando aggiunse all’improvviso: «A che ora
preferite cenare? So che in Italia si mangia più
tardi…».
Beatrice non aveva afferrato
proprio tutto quello che aveva detto, ma aveva capito che voleva sapere
l’ora della cena, quindi rispose: «Sette e mezza,
otto?».
«Uhm, va bene. Vi chiamo
quando è pronto».
«Bene, grazie».
Una volta rimaste sole, Federica e
Beatrice fecero una rapida ispezione della camera e la trovarono
pulita. Poi decisero di iniziare a fare i letti, ora che ne avevano
ancora la forza necessaria.
«Nemmeno i letti ci ha
fatto», borbottò Federica. Sollevò
quelle che avevano scambiato per lenzuola e le guardò,
confusa. «Ma queste cosa sono?».
Beatrice si avvicinò e
le esaminò. «Sono aperte, mi sa che qui dentro ci
devi mettere il piumone…».
«Oh, fantastico. Hai
visto il cuscino? È quadrato!».
«Ed è
mollissimo», constatò Beatrice, affondandoci
dentro una mano. «Si piega in due!».
«Sarà
scomodissimo comunque».
Beatrice ridacchiò,
tirando su un coprimaterasso. «Uh, velluto rosa!».
«Idiota. Chi dorme sopra?
Io ho paura dell’altezza».
«Okay, ci dormo
io». Beatrice salì la scaletta e la struttura
iniziò a cigolare e a dondolare in maniera poco
rassicurante. Solo quando raggiunse il materasso e vi fu seduta sopra,
ferma immobile, quella specie di terremoto si arrestò.
«Wow, di bene in
meglio!», esclamò Federica. «Speriamo
che almeno a cucinare sia bravo».
«Beh, sembra vivere da
solo, quindi in qualche modo dovrà pur cavarsela,
no?». Beatrice si mise in equilibrio sulla scaletta ed
allungò una mano verso la compagna, quando il suo sguardo si
posò fuori dalla finestra, nel giardino: il signor Kaulitz,
piegato sulle ginocchia, rideva e faceva la coccole al suo cane, un Weimaraner
dal pelo nero e corto.
«Bea? Ehi, ti sei
incantata?».
La ragazza scosse il capo e
borbottò, ancora soprappensiero: «Passami il
coprimaterasso, va’».
*
6°
giorno, giovedì
Beatrice
si mosse troppo nel letto e il cigolio fu talmente forte che si
svegliò di colpo, aggrappandosi con una mano alla ringhiera
paracadute. Quando si rese conto di quello che era successo e
constatò che era ancora notte fonda, sbuffò e si
passò le mani sul viso e fra i capelli arruffati, stanca.
Erano passati già sei
giorni dal loro arrivo ad Amburgo e fino ad allora non avevano mai
avuto del tempo libero, sempre impegnate con la scuola alla mattina e
con le visite alla città, ai musei e a tutto ciò
che poteva venire in mente alle prof, al pomeriggio. Una volta a casa
avevano soltanto la forza di cenare, farsi la doccia ed infilarsi sotto
le coperte, anche se ci mettevano sempre un po’ ad
addormentarsi.
Il signor Kaulitz, che Beatrice
aveva subito preso in simpatia, si era dimostrato un padrone di casa
molto disponibile e comprensivo, nonché un cuoco niente
male. Il suo unico difetto – perché la sua
stravaganza in fatto di vestiti non poteva di certo contare!
– era la logorrea: quando iniziava a parlare, infatti, non la
finiva più. Una volta le aveva tenute a tavola per
un’ora, o qualcosa di più, e per i tre quarti del
tempo aveva parlato lui. Ovviamente, se le ragazze avevano spiaccicato
solo qualche parola, era perché ci avevano capito poco o
niente di tutto il suo monologo.
Beatrice chiuse gli occhi e
provò e riprovò a riaddormentarsi, cercando di
trovare la posizione più comoda senza fare troppo rumore e
sistemandosi in continuazione il cuscino sotto la testa, ma appena
sembrò riuscirci capì di avere la gola secca e un
irrefrenabile bisogno d’acqua.
«Oh, merda»,
biascicò e si levò con rabbia le coperte di
dosso, poi con la massima cautela si avventò a scendere la
scaletta illuminando un po’ l’ambiente con il
cellulare. I cigolii e i dondolii non ebbero fine, ma Federica
fortunatamente non si svegliò.
Beatrice raggiunse il proprio
zainetto e tirò fuori la bottiglietta d’acqua per
portarsela alle labbra e finalmente tornare a dormire, ma
scoprì con irritazione che era vuota. Allora si
tirò su in piedi ed uscì dalla camera
stringendosi nel suo stesso abbraccio, desiderosa del calore del suo
letto. Scese lentamente le scale e notò una luce soffusa
provenire dal salotto. Si portò immediatamente le mani sui
capelli, per renderli un po’ più presentabili, ma
la vergogna non se ne andò: era comunque in pigiama! Ebbe la
forte tentazione di tornare indietro, ma ormai tanto valeva chiedere
direttamente al signor Kaulitz se poteva darle un bicchier
d’acqua.
Lo vide seduto sul divano, avvolto
in una vestaglia di seta blu, che alla luce di una lampada da terra e
con gli occhiali sul naso sfogliava un grande album fotografico. Sulle
sue labbra aleggiava un sorriso appena accennato, ma Beatrice
capì subito che era venato di malinconia. Ne ebbe la piena
conferma quando l’uomo si accorse della sua presenza ai piedi
delle scale e la osservò stupito, togliendosi gli occhiali
dal viso: anche i suoi occhi, di solito così caldi e solari,
erano ombreggiati da un velo di tristezza, di lacrime.
«Io,
io…», balbettò Beatrice, sentendosi
così in imbarazzo, tanto che ebbe la sensazione di avere il
viso in fiamme. Il signor Kaulitz cambiò completamente
espressione, dopo quell’attimo di sorpresa, e le rivolse un
sorriso dolce.
«Hai bisogno di qualcosa?
Freddo?».
«No, io…
acqua».
«Ah, hai
sete!», la corresse divertito e si alzò dal
divano, le passò accanto e si diresse in cucina, seguito da
Beatrice. Prese due bicchieri dalla credenza e li riempì
d’acqua, poi ne passò uno alla ragazza, mentre
l’altro se lo portò con sé in salotto e
lo appoggiò al tavolino, accanto all’album.
Beatrice bevve un poco, ma essendo
acqua di frigorifero fu costretta a tenerla fra le mani, aspettando che
diventasse tiepida. Intanto posò di nuovo lo sguardo
sull’uomo che, proprio come se lei non ci fosse, aveva
ripreso a sfogliare le pagine con la stessa aria nostalgica.
Avrebbe potuto benissimo mettere il bicchiere nel lavello,
ringraziarlo, augurargli una buona notte, tornare in camera sua e
mettersi di nuovo sotto le coperte, ma sapeva benissimo che non sarebbe
riuscita a chiudere occhio, col rimorso di non avergli nemmeno chiesto
se stava bene, se aveva bisogno di compagnia.
All’improvviso
lo rivide mentre guardava il fratello gemello e gli sorrideva con
amore, mentre accarezzava il suo cane e rideva, mentre parlava,
talmente in fretta che sembrava non avesse nemmeno bisogno di
riprendere fiato, e le tratteneva sedute intorno al tavolo per
un’ora, senza chiedersi se lo stessero ascoltando veramente,
e capì, oltre a darsi la risposta alla domanda che si era
posta molte e molte volte: “Perché mette a
disposizione la sua casa e il suo tempo per i ragazzi stranieri, visto
che di certo non lo fa per soldi?”. Quell’uomo era
solo, maledettamente solo, e quella sera, come chissà quante
altre prima d’allora, si era attaccato ai suoi ricordi,
l’unica cosa che gli rimaneva.
Beatrice chiuse gli occhi e
sospirò lievemente, poi si fece coraggio e lo raggiunse in
salotto. Si fermò in piedi al suo fianco, il bicchiere
ancora mezzo pieno tra le mani, e gettò
un’occhiata all’album: non era un album
fotografico, o almeno non erano tutte fotografie quelle
all’interno delle pagine trasparenti, ma anche articoli di
giornale ritagliati minuziosamente, piccoli poster, cartoline,
un’elica probabilmente appartenente ad un aeroplanino
telecomandato…
Distolse lo sguardo ed
incrociò quello del signor Kaulitz, che la stava
già osservando senza capire ciò che potesse
volere ancora. Mai, mai si sarebbe immaginato che in realtà
era solo preoccupata per lui.
«Tutto
okay?», gli chiese, perché chiedergli se stava
bene era fin troppo complicato a quell’ora di notte.
Sperò soltanto che capisse ciò che intendeva.
L’uomo
guardò l’album aperto sul tavolino e si fece forza
per non commuoversi. «È molto tardi, domani dovete
alzarvi presto per andare a scuola, dovresti…».
Beatrice
lasciò il bicchiere sul tavolino e si sedette al suo fianco
quasi con irruenza, interrompendolo: «Chi sono
i…», si chinò in avanti per leggere
meglio i caratteri piccoli a descrizione di un poster, «Tokio
Hotel?».
Il
signor Kaulitz chiuse gli occhi sentendo quel nome e poi
accennò un sorriso amaro. «Sono così
vecchio che non riesci a riconoscermi?».
Beatrice credette di aver capito
male, ma quando riportò lo sguardo su quei quattro ragazzi
in posa per il fotografo, l’occhio le cadde inevitabilmente
sul ragazzo in centro, con una capigliatura bizzarra, da porcospino, un
sorriso dolce ed ampio e due occhi caldi, color nocciola.
«Lei
è… Questo ragazzo
è…», balbettò Beatrice,
incredula ma ormai sicura al cento per cento che si trattasse proprio
dell’uomo che le aveva accolte in casa sua.
«Bill Kaulitz, cantante e
leader dei Tokio Hotel, band pop-rock tedesca famosa in tutto il mondo
quando forse i tuoi genitori erano adolescenti. Eccomi qua».
Mille interrogativi nacquero nella
mente di Beatrice, ma il primo che riuscì a tradurre in
parole fu: «Questo è suo fratello?»,
indicando il ragazzo dagli stessi occhi castani accanto a lui.
«Da cosa l’hai
riconosciuto?», domandò Bill ridacchiando.
Beatrice pensò che fosse
un vero peccato che in tedesco non fosse in grado di dare la stessa
sfumatura rispetto a ciò che avrebbe detto in italiano,
ovvero che l’aveva riconosciuto grazie a quel suo sorriso
malizioso che gli aveva visto anche la prima ed unica volta in cui
l’aveva incontrato. Quindi si portò le dita ai
lati delle labbra e si allargò un sorriso. Bill
scoppiò in una risata più sincera, davvero
divertito, e la ragazza fu felice di averlo distratto dai suoi ricordi
che sembravano più che altro affliggerlo, per un motivo a
lei ancora sconosciuto.
«Vieni, voglio farti
vedere una cosa».
Bill si alzò e Beatrice
lo seguì lungo il corridoio buio, incuriosita e per nulla
spaventata dalla situazione. Giunsero di fronte alla porta che aveva
sempre visto chiusa e l’uomo l’aprì,
spostandosi per farla entrare per prima. Il suo viso estasiato non ebbe
bisogno di traduzioni.
Alle pareti laterali erano appesi decine e decine di dischi
d’oro e di platino per tutti gli album venduti, la grande
libreria alla parete di fronte a loro si era trasformata in una grande
teca per conservare l’infinità di premi ricevuti,
tutti diversi l’uno dall’altro e provenienti da
parti diverse del mondo.
“La stanza dei trofei”, così avrebbe
dovuto chiamarla, con tanto di targhetta sopra la porta, ma Beatrice
ebbe la sensazione che l’avesse aperta solo per lei dopo anni
ed anni in cui aveva tentato di rinchiudervi lì dentro
un’altra valanga di ricordi dolorosi.
Posò lo sguardo sul
signor Kaulitz, che si era avvicinato alla libreria ed aveva iniziato a
sfiorare con le dita alcune delle mensole, sporcandosi le dita di
polvere.
«La
band…», iniziò a dire Beatrice, con
voce incerta. «Herr
Kaulitz, i Tokio Hotel…».
«Chiamami Bill, per
favore». Si voltò di scatto verso di lei e la
prese delicatamente per un polso, poi la portò con
sé fuori dalla stanza e chiuse la porta con forza,
sbattendosela alle spalle.
Beatrice, scossa, lo
guardò mentre si dirigeva di nuovo verso il salotto e le
sembrò improvvisamente più magro ed ingobbito,
come se un nuovo peso si fosse depositato sulle sue spalle
già fragili.
La ragazza lo raggiunse quasi di
corsa, col viso rosso d’imbarazzo, ed aprì la
bocca per scusarsi e correre a rifugiarsi nella sua camera, ma il
signor Kaulitz, di nuovo seduto sul divano e con gli occhi posati nelle
mani, disse: «La band si è sciolta molti anni fa. Io
l’ho sciolta, io
ho distrutto la vita che amavo con le mie stesse mani».
Beatrice, con le lacrime agli occhi
nel cogliere il suo dolore ora senza alcun velo, si avvicinò
e si sedette di fianco a lui sul divano, posandogli delicatamente una
mano sulla spalla. Bill vi appoggiò sopra la propria e la
strinse forte.
«E la cosa peggiore
è che ho perso i miei migliori amici».
*
8°
giorno, sabato
«Bea?
Ehi, Bea, dobbiamo scendere».
Beatrice si riscosse e
seguì velocemente Federica giù
dall’autobus.
«Pazzesco, sei riuscita
ad addormentarti nonostante da casa alla scuola ci siano solo tre
fermate! Non hai dormito bene nemmeno questa notte, vero?».
La ragazza annuì e si
massaggiò gli occhi stando attenta a non sbavare tutto il
trucco.
Federica pensava che non dormisse bene a causa del letto scomodo e del
cuscino troppo molle, per non parlare poi del cane del signor Kaulitz
che a volte si metteva ad ululare nel cuore della notte –
cosa del tutto falsa, inventata per dare più
credibilità alla sua evidente stanchezza e al suo morale non
proprio alle stelle. Il vero motivo per cui non riusciva a dormire
bene, o non dormiva affatto, era la confessione che Bill le aveva fatto
due notti prima, il rimpianto che aveva visto nei suoi
occhi… Quegli occhi l’avevano colpita tanto a
fondo da farle pensare incessantemente a cosa potesse fare lei, una
ragazza qualunque arrivata in Germania per uno stage linguistico e che
era finita, per puro caso, nella casa di un’ex rock-star, un
uomo solo che avrebbe fatto qualsiasi cosa solo per avere i suoi
migliori amici accanto e che aveva aperto il suo cuore ferito proprio a
lei.
«Tutto
è iniziato quando mio fratello ed io ci siamo trasferiti
negli Stati Uniti, a Los Angeles per la precisione. Avevamo deciso di
andare via da Amburgo per via di alcune fan che si erano trasformate in
stalker e poi anche per seguire da più vicino il processo di
produzione del nostro nuovo album; pensavamo che sarebbe stata una cosa
momentanea, ma alla fine non siamo più tornati indietro. Il
rapporto con gli altri due componenti della band, Georg e Gustav, si
è lentamente deteriorato, oltre che per la distanza
per… sì, a causa nostra. Io e Tom eravamo
cambiati – soprattutto io ero cambiato, pensavo di avere il
mondo ai miei piedi – e abbiamo messo un po’ da
parte il nostro lavoro, nonostante avessimo loro due e i nostri fan a
cui pensare… Siamo andati un po’ fuori strada,
ecco. Quando finalmente è uscito il nuovo album, nessuno ne
era pienamente soddisfatto. Ovviamente io, essendo un perfezionista di
natura, ero quello più scontento e dolente, mi lamentavo per
qualsiasi cosa e alla fine sono arrivato a criticare il lavoro dei miei
amici. Abbiamo litigato come non avevamo mai fatto, con così
tanta rabbia, dicendoci delle cose orribili, e mio fratello…
ah, Tom, quello stupido, mi ha difeso».
Beatrice
aspettò qualche secondo, in attesa che il suo racconto
riprendesse, ma gli occhi di Bill erano fissi sul poster
nell’album fotografico, nonostante fossero colmi di lacrime.
Allora con delicatezza disse: «Quindi anche Tom non parla
più con loro?».
«Uhm?
No, Tom… Tom ha fatto pace con loro dopo un anno e mezzo,
quasi subito se facciamo un paragone con me».
«E
perché lei non…?».
«All’inizio
fu per orgoglio, un maledetto orgoglio che non aveva mai raggiunto
quelle dimensioni prima d’allora. Poi, quando ho visto mio
fratello fare un passo indietro e rivolgersi ai nostri vecchi amici mi
sono sentito tradito, ma allo stesso tempo ferito, perché
ero certo che loro non mi avrebbero mai perdonato, non dopo tutto
quello che gli avevo detto e come mi ero comportato… Gli
anni sono passati velocemente e anche quando mi dicevo che
probabilmente il tempo aveva fatto il suo corso e rimarginato le
ferite, tanto da poter fare un tentativo, capivo che non avrei mai
potuto farcela: prima di chiedere scusa e far pace con loro dovevo fare
pace con me stesso, cosa che tutt’ora… non sono
riuscito a fare».
«Io
penso…», Beatrice si morse la lingua
perché non sapeva come dirlo e sospirò, poi
iniziò a dire tutte le parole che conosceva sperando che il
suo interlocutore riuscisse a costruire un discorso di senso compiuto:
«Tu non puoi da solo. Con gli amici. Loro
possono…», indicò il petto
dell’uomo con un dito, poi fece finta di sospirare di
sollievo con un sorriso sulle labbra, raccogliendo entrambe le mani
all’altezza del cuore.
Bill
rimase in silenzio per un po’, gli occhi fissi di fronte a
sé. All’improvviso sorrise e le posò
una mano sul ginocchio, dandogli qualche pacchetta.
«È tardi, vai a dormire adesso».
Beatrice
sospirò e si alzò dal divano, prese il suo
bicchiere d’acqua dal tavolino e lo svuotò, poi si
diresse verso le scale. Salì i primi due gradini e voltando
il capo verso di lui lo vide ancora alle prese col suo album, del quale
sfogliava instancabilmente le pagine.
«Buona
notte», sussurrò.
Il suo continuo rimuginarci sopra
aveva dato i suoi frutti, o almeno una qualche specie, ma non era certa
della loro reale attuazione. Aveva pensato di chiedere aiuto al
fratello gemello di Bill, Tom, così da reperire con
più facilità i numeri di cellulare dei vecchi
amici dell’ex-cantante, ma anche se li avesse ottenuti
– non era detto che Tom sarebbe stato d’accordo e
glieli avrebbe dati senza alcun problema – restavano diversi
piccoli ma enormi problemi da risolvere, primo di tutti la lingua.
Sì, insomma, il tedesco lo capiva abbastanza bene e poteva
snocciolare qualche frase, ma sostenere un’intera
conversazione con persone che tra l’altro non conosceva per
convincerli a fare pace col suo “papà
tedesco”, a cui si era affezionata più di quanto
avrebbe realmente voluto, solo perché glielo chiedeva lei,
una ragazzina sconosciuta piombata nelle loro vite per puro
caso… Beh, si rendeva pienamente conto che c’era
la possibilità, se non la certezza, che la mandassero a quel
paese. Ma doveva provarci, doveva fare assolutamente qualcosa, o
avrebbe continuato a sentire quel peso sul cuore per il resto della sua
vita.
Beatrice alzò il viso
verso il cielo illuminato dal sole e si fece ombra sugli occhi con un
braccio, poi si guardò intorno respirando profondamente e
seduto all’interno di un bar, che faceva tranquillamente
colazione con un caffè e una brioche, riconobbe Tom.
Non
è possibile… Questo è un segno del
destino!
Federica la guardò
aggrottando la fronte. «Bea, che ti prende? Perché
adesso ti sei fermata?».
«Ahm… devi
farmi un favore».
«Un favore? E
quale?».
«Coprimi».
Detto questo Beatrice attraversò la strada di corsa ed
entrò nel bar, senza badare alle urla della sua compagna
che, incredula, aveva tentato di fermarla appellandosi al fatto che
rischiava di arrivare in ritardo alle lezioni.
La ragazza si sistemò lo
zainetto sulle spalle, trovando conforto nel piacevole calore
all’interno del locale, e facendosi coraggio raggiunse il
tavolo a cui era seduto Tom.
«Buon giorno!», esclamò quando fu al suo
fianco, facendolo spaventare un po’.
«Ehi, ma tu
sei… Beatrice, vero?».
Lei annuì e con
nonchalance si sedette di fronte a lui, sorridendo.
Tom, notando il suo comportamento fin troppo sicuro, sollevò
un sopracciglio e disse: «Che cosa ci fai qui? Dovresti
essere a scuola, per quanto ne so…».
«L’ho vista
e…».
«Sei venuta a salutarmi?
Oh, come sei carina!».
Beatrice si strinse nelle spalle,
finta modesta, poi si fece più attenta e diede inizio alla
prima fase del suo piano, sperando che andasse in porto.
«Ehm… Do
you speak
english?»,
domandò schiarendosi la voce.
Tom strabuzzò gli occhi.
«Scusa, sei in Germania, perché mi chiedi se so
parlare in inglese?».
Beatrice sospirò e si
fece ancora più ardita, guardando verso il soffitto e
dicendo, in inglese: «Lei ha viaggiato intorno al mondo con
la sua band, dovrebbe saperlo l’inglese».
«Come…? Chi te
l’ha detto, è stato Bill?». Il suo viso
era paonazzo e gli occhi gli si erano improvvisamente accesi, allora
Beatrice unì le mani di fronte al viso e
bisbigliò, implorante: «Per favore, mi ascolti. Bitte».
«E va bene»,
borbottò infastidito l’ex-chitarrista, anche se
piuttosto incuriosito.
Beatrice gli rivolse un sorriso
carico di speranza, ringraziandolo. In qualche modo gli
spiegò il suo piano e ciò che voleva da lui, ma
proprio mentre si accingeva a motivare tutto quello che stava facendo
per Bill, Tom la interruppe bruscamente: «Senti, sono davvero
molto colpito dalla tua fiducia e dalla tua determinazione, ma sarebbe
del tutto inutile. È assurdo quello che vuoi fare».
La ragazza strinse forte i pugni
sulle gambe, ferita dalle sue parole e dal suo atteggiamento
categorico. «Dobbiamo solo provare, non costa
nulla».
L’uomo scosse
energicamente il capo e ripeté: «Ti ho detto che
sarebbe inutile. Credi che in tutti questi anni io non abbia provato a
far riappacificare Bill con Gustav e Georg? Non ci sono riuscito io,
pretendi di riuscirci tu?!».
«Io non pretendo proprio
nulla. Voglio solo provarci, perché
Bill…».
Tom la interruppe di nuovo, alzando
ancora di più la voce, tanto che Beatrice sentì
gli occhi di tutti i presenti bruciare su di lei.
Travolto dalla rabbia, aveva iniziato ad inveirle contro in tedesco e
la ragazza non riuscì a capire una sola parola di tutto
quello che urlò, ma se avesse dovuto tradurre in parole le
sue espressioni facciali, avrebbe sicuramente detto: “Sei
solo una ragazzina”, “Non sai niente” e
per finire “Adesso levati dalle palle”.
Quando Tom pose la parola fine a quella sfuriata, Beatrice si
massaggiò il naso con la mano ma non riuscì a
trattenere una lacrima di nervosismo che le scavò un solco
sulla guancia. Incrociò il suo sguardo per un istante,
trovandolo perplesso e dispiaciuto, ed annuì meccanicamente,
poi lo salutò con la voce incrinata ed uscì in
fretta dal bar, per poi correre verso l’edificio scolastico.
Salì le scale
già col fiatone ed ancor prima di arrivare alla porta della
sua aula vide Federica andarle incontro con una faccia arrabbiata e al
contempo preoccupata.
«Si può sapere
che cosa ti è preso così
all’improvviso? Dove sei stata fino ad adesso?».
Beatrice deglutì per
mandare via il bruciore alla gola e pregò perché
non notasse il trucco sbavato a causa delle poche lacrime a cui aveva
permesso di cadere dai suoi occhi.
«Le prof hanno fatto domande perché non
c’ero?».
Federica sospirò,
lasciando cadere l’argomento. «No, non sono ancora
arrivate per fortuna. Sarebbe stato un vero casino
se…».
«E la prof tedesca? Ha
già fatto l’appello? Un momento, se tu sei
fuori…».
«Quando è
arrivata le ho detto che eri in bagno perché non ti sentivi
bene. Visto che non arrivavi più mi ha mandato ad
assicurarmi che non ti fosse successo qualcosa».
Beatrice
l’abbracciò piano. «Grazie».
Le sorrise e poi tornarono in classe.
«Buono?»,
domandò Bill con un lieve sorriso sulle labbra, lasciando la
forchetta nel proprio piatto vuoto e pulendosi la bocca con il
tovagliolo.
«Sì, ma io
sono a posto», disse Federica appoggiandosi allo schienale
della sedia, come se finire quel piatto fosse un’impresa
epica impossibile da superare.
Beatrice la imitò,
prendendo in mano il bicchiere d’acqua. «Anche
io».
Il signor Kaulitz le rivolse uno
sguardo indagatore, ma non disse nulla e si rivolse a Federica, seduta
di fronte a lui: «Cosa preferite fare? Volete vedere un
po’ di TV?».
La ragazza scambiò uno
sguardo con la compagna, che non diede segno né di
approvazione né di diniego, per l’ennesima volta
immersa nei suoi pensieri, ed annuì, anche se incerta.
Entrambe si alzarono per raggiungere il salotto, dove Bill gli avrebbe
acceso la televisione, ma prima che anche Beatrice si allontanasse, lui
la chiamò. La ragazza si voltò e lo
guardò con un enorme punto di domanda in faccia.
«Tutto okay?»,
le chiese, sinceramente preoccupato. «Non ti ho mai vista
così silenziosa ed è la prima volta che lasci
qualcosa nel piatto. Ti senti bene?».
«Sì,
sì… Tutto okay», si sforzò
per sorridergli e fargli credere così che andasse davvero
tutto bene.
Era ancora arrabbiata e delusa per quello che era successo quella
mattina con Tom, per le sue parole dure e la sua scenata, ma si disse
di fare più attenzione d’ora in avanti: quello che
si erano detti quella notte e ciò che ancora si nascondevano
a vicenda era sufficientemente triste per tutti e due.
Beatrice raggiunse Federica sul
divano e fecero un po’ di zapping non trovando nulla di
interessante. Alla fine lasciarono su un documentario in cui dei sub
andavano alla ricerca di coccodrilli. Bill si unì a loro una
decina di minuti dopo, una volta sistemata la cucina ed avviata la
lavastoviglie, e si accomodò sulla sua poltrona.
Vedendo le due ragazze annoiate da ciò che loro stesse
avevano scelto, ne approfittò per informarle:
«Domani viene mio fratello a pranzo, con sua moglie e Hans,
suo figlio. Ha la vostra età, sapete?».
Federica sorrise per mostrare il
suo interesse. «Ha solo un figlio?».
«No, ha anche una figlia,
che però ha già ventotto anni».
La ragazza si voltò
verso Beatrice, che fissava come incantata lo schermo della TV, e le
diede una lieve gomitata nel fianco. «Dici che si offende se
gli chiedo se è sposato?».
«Non ne ho idea,
prova».
«Come si dice
“sposato”?».
«Ver…verdatet,
qualcosa del genere».
Federica borbottò e gli
mostrò l’anulare della mano sinistra, iniziando la
domanda: «Lei è…?».
Bill ridacchiò.
«Sposato?».
«Si dice verheiratet,
non verdatet
come dicevi tu!», l’ammonì Federica,
dandole un’altra gomitata.
«Entschuldigung!»,
ribatté Beatrice, lasciandosi andare ad una risata. Il suo
sguardo e quello del signor Kaulitz si incrociarono ed entrambi furono
felici di vedere uno sprazzo di gioia negli occhi dell’altro,
sentendosi subito meglio come se avessero appena ricevuto una boccata
d’ossigeno puro.
«Sono stato sposato. Due
volte», rispose alla fine Bill, lasciandole di stucco.
«Sia la prima che la seconda volta pensavo di aver trovato la
donna giusta per me, ma evidentemente io non ero l’uomo
giusto per loro, visto che sono state sempre le mie ex-mogli a chiedere
il divorzio».
«Oh. Mi
dispiace», disse Federica, davvero dispiaciuta per la gaffe
che aveva fatto.
«Io no. Meglio
così, piuttosto che stare con una persona che non ti ama.
Giusto?», scoccò un sorriso a Beatrice ed
aggiunse: «Per fortuna ho lei, l’unica donna della
mia vita! Tesoro? Ehi, vieni qui».
La cagna di Bill, rimasta fino ad allora acciambellata ai piedi del
divano, si alzò e scodinzolando andò dal suo
padrone, che la riempì di coccole e di parole affettuose.
Beatrice provò
un’infinita tenerezza di fronte a quella scena, ma anche un
po’ di amarezza per il povero Bill che da quando aveva visto
crollare di fronte ai suoi occhi tutta la sua vita, inevitabilmente
legata ai Tokio Hotel, ne aveva passate di tutti i colori.
Ancora una volta le tornarono alla mente le parole di Tom e anche quel
pizzico di allegria che aveva fatto così fatica a trovare
dentro di sé fu spazzato via, facendola sentire ancora
impotente e perciò inutile.
Finirono di guardare il
documentario sui coccodrilli in silenzio e poi Federica le chiese se
volesse andare a dormire. Beatrice annuì e si
stiracchiò, accorgendosi solo in quel momento che Bill si
era addormentato sulla poltrona. Guardandolo un sorriso le nacque in
modo spontaneo sulle labbra, ma fu costretta a seguire Federica su per
le scale quando la esortò a darsi una mossa.
«Vado prima io in bagno,
tanto faccio in fretta», disse Federica, arraffando il suo
beauty-case e l’asciugamano.
Beatrice annuì e si
sedette sul letto della sua compagna, in attesa.
All’improvviso qualcosa le morse lo stomaco e fu costretta ad
alzarsi e a sgattaiolare fuori dalla camera. Scese le scale di
soppiatto e una volta in salotto trovò Bill come lo avevano
lasciato poco prima. Prese la coperta appoggiata sul bracciolo del
divano e con cautela, per paura di svegliarlo o di pestare la coda alla
cagna ai suoi piedi, gliela sistemò sopra. Poi lo
guardò sorridendo e spense la TV col telecomando.
*
9°
giorno, domenica
«Oddio,
sono distrutta. Non vedo l’ora di andare a casa, di farmi una
bella doccia calda e di…».
«Che ne dici di andare a
fare un po’ di shopping, invece?».
Federica guardò Beatrice
strabuzzando gli occhi. «Stai scherzando? Abbiamo visitato
mezza città a piedi e tu hai ancora la forza per andare a
fare shopping? E poi sicuramente Bill ci starà aspettando,
stamattina gli abbiamo detto che saremmo tornate
presto…».
Beatrice si sistemò
meglio lo zainetto sulle spalle e sospirò. Non poteva dirle
la verità, ovvero che non voleva tornare a casa per paura di
trovare ancora Tom e tutta la sua famigliola felice –
rischiava seriamente di insultarlo, quella volta, pensando che lui si
era arreso, nonostante tenesse tantissimo a suo fratello e sapesse da
sempre quello che pativa. Non poteva dirle tutto quello anche
perché non le aveva mai detto nulla del suo incontro
notturno con Bill e della sua confessione, anche se una volta aveva
avuto la forte tentazione, quando tutti i loro compagni avevano
iniziato a parlare delle loro famiglie, elencandone i pregi e i
difetti. Avrebbe voluto dire che il suo “papà
tedesco” era stata una rock-star di importanza mondiale e
lodarlo per questo, ma si era trattenuta perché era gelosa
di quel suo segreto così prezioso, gelosa del fatto che
l’avesse svelato solo a lei.
Beatrice tentò e
ritentò, ma non riuscì a convincerla. Quindi,
mestamente, la seguì fino alla fermata del pullman, che
presero per un soffio. Dopo un altro pezzo a piedi, finalmente
arrivarono a casa.
Beatrice aprì la porta di casa con il doppione della chiave
che Bill aveva gentilmente dato loro e appena fu
nell’ingresso rimase in ascolto, rendendosi conto che, come
temeva, Tom si era trattenuto più a lungo del previsto.
«Ragazze! Ciao, siete
arrivate!», esclamò Bill, alzando una
mano.
Beatrice aveva subito adocchiato Tom, spaparanzato sul divano, e gli
aveva lanciato uno sguardo che aveva dimostrato perfettamente quanto
fosse felice di rivederlo – per niente, – ma il
sorriso del suo adorato signor Kaulitz, così felice e bello,
le fece ingoiare l’astio e riuscì persino a
sorridere.
«Vi ricordate di Tom, vero?».
«Sì!»,
esclamò subito Beatrice, stringendogli la mano con fin
troppa forza.
«Lei invece è
la signora Kaulitz», continuò Bill nelle
presentazioni, indicando la donna bionda e sorridente seduta al fianco
dell’ex-chitarrista. «E lui è Hans, mio
nipote».
Le ragazze strinsero la mano pure
al ragazzo, che aveva gli stessi occhi dei due gemelli, poi usarono la
scusa di lasciare giù zaino e cappotto e si ritirarono nella
loro stanza.
«Oh, ma sai che
è proprio carino Hans?», esclamò
Federica. «Se non fossi già
fidanzata…». Beatrice scosse il capo.
«Cosa, non lo trovi carino?».
Ha
lo stesso sorrisino malizioso di suo padre. Lo odio!
«Non è semplicemente il mio tipo».
«Mmh,
sarà…».
Un pugno leggero bussò
sulla loro porta e dopo aver avuto il permesso Bill mise la testa
dentro la stanza. Con un sorriso raggiante, disse: «Ragazze,
mi è venuta un’idea. Vi va di andare tutti insieme
a prendere un gelato? Così magari fate anche conoscenza con
Hans… È carino, vero?».
Beatrice scoppiò a
ridere e il sorriso di Bill si ampliò, anche se non
capì il motivo di tutto il suo divertimento.
«No, grazie. Non sono
fatta per gli amori a distanza», disse, anche se un
po’ in tedesco e un po’ in inglese.
Il signor Kaulitz
sollevò un sopracciglio. «Per i gelati
invece?».
Beatrice e Federica si scambiarono
uno sguardo e per non essere maleducate accettarono.
«Il gelato! Col freddo
che fa!», bisbigliò Federica, sbirciando dietro di
sé Bill, Tom e Hans che, ancora dentro la gelateria, in
attesa che anche la moglie dell’ex-chitarrista ricevesse il
suo, si stavano già gustando i loro coni.
«Perché,
quello che abbiamo preso noi alla fine che
cos’è?», chiese sarcasticamente
Beatrice, girando tra le mani il bicchiere alto dell’Eiscafè
che stavano condividendo.
«Beh, qui almeno
c’è un po’ di caffè che
riscalda!».
«Sì, ma in
pratica è tutto gelato alla vaniglia con dei biscotti sotto
e della polvere di cacao sopra».
«Per favore Bea, mi stai
facendo venire freddo!».
Beatrice ridacchiò, poi
si appoggiò allo schienale della sua sedia ed
osservò il panorama. Non aveva mai visto il porto
d’Amburgo a quell’ora di sera, col sole sulla via
del tramonto e le luci dei lampioni già tutte accese, ad
illuminare le grandi navi cargo ormeggiate e cariche di container che
da lontano sembravano tanti mattoncini del Lego. Aveva un fascino tutto
particolare e fu grata a Bill che aveva avuto la splendida idea di
portarle proprio in quella gelateria.
Intanto, all’interno
della gelateria, Tom si voltò verso Bill e lo vide intento
ad osservare Beatrice seduta ad un tavolino all’aperto,
stretta nel suo stesso abbraccio ed avvolta nella sua sciarpa a causa
del vento freddo che tirava. Osservava il porto con sguardo perso,
immersa in mille pensieri, e Tom si rese conto che il suo gemello aveva
la stessa espressione assente. Capì immediatamente che si
era legato a quella ragazza in un modo quasi incomprensibile e
pensò che fossero una coppia davvero strana, ma
complementare.
«Ehi», gli
diede un colpetto sul braccio e Bill rinvenne, accennando un sorriso
nella sua direzione. «Che ti prende?».
Bill
sospirò lievemente e tornò a guardare le spalle
della ragazza. «Sono preoccupato. È da un
po’ di tempo che Bea si comporta in modo strano».
«Bea?
Adesso è così che la chiami?
Bill…».
L’ex-cantante
scrollò le spalle e si rifiutò di ascoltarlo.
«Sono entrambe delle brave ragazze, forse le migliori che io
abbia ospitato fino ad adesso, ma lei… lei è
diversa. Le ho raccontato della band, sai?». Le sue labbra si
stesero in un sorriso amaro e i suoi occhi si posarono sul cono gelato
che aveva in mano. «Non so quanto abbia capito di tutto
quello che le ho detto, ma…».
Oh,
ha capito più di quanto tu possa credere,
pensò Tom.
«Ma non ero mai riuscito
a parlarne con nessuno, nemmeno con te ho mai ripreso
l’argomento… Ci dovrà pur essere un
motivo per cui ci sono riuscito proprio con lei!».
«Forse avevi raggiunto il
limite e avevi soltanto bisogno di sfogarti, tutto qui»,
disse Tom lapidario, desideroso di chiudere quella questione, ma Bill
non si arrese.
«Mentre le raccontavo
quella storia è sempre rimasta al mio fianco. Anche se
magari non capiva, l’ho sempre sentita partecipe, come se
comprendesse davvero il mio dolore e il suo cuore fosse vicino al mio.
E la semplicità e l’innocenza con cui ha cercato
di dirmi che dovevo provare a far pace prima con i miei amici, prima
che con me stesso… oh, dovevi vederla Tomi».
L’uomo posò
anche il proprio sguardo sulla ragazza e sospirò, timoroso
che quella storia potesse finire male per il suo fratellino, illuso e
ferito da quell'improvvisa quanto stupefacente ventata di speranza.
«Sabato sera, quando
è tornata a casa e l’ho vista, ho capito subito
che doveva esserle successo qualcosa. A scuola, in giro con le sue
professoresse… non lo so, ma qualcosa dove esserle
sicuramente successo».
Tom sgranò un
po’ gli occhi, rendendosi conto che sabato era stato il
giorno in cui Beatrice l’aveva raggiunto nel bar e gli aveva
raccontato del suo folle piano di far riappacificare Bill con Georg e
Gustav.
«Da allora è
più silenziosa, sempre distratta ed immersa nei suoi
pensieri, giù di morale… Pensa che ha persino
perso l’appetito, lei che era la buona forchetta di
casa!».
Che se la fosse presa per la
scenata che aveva fatto? Che fosse davvero intenzionata a fare qualcosa
per Bill, a provarci?
Tom sentì i sensi di colpa salirgli dallo stomaco fino alla
gola, rendendogliela improvvisamente secca, e si chiese cosa fosse
meglio fare: lasciar perdere o dare una chance a quella ragazza
italiana così decisa ad aiutare Bill?
Sentì la voce di sua
moglie chiedere il conto e si voltò, dicendo:
«Tesoro lascia, faccio io. Voi raggiungete pure le
ragazze».
Bill, sua moglie e Hans uscirono
dalla gelateria e Tom pagò il conto. Una volta che li vide
tutti seduti al tavolo con Beatrice e Federica, si sporse verso il
ragazzo che gli aveva appena consegnato lo scontrino e gli disse:
«Scusa, ce l’ha una penna?».
«Domani dovete andare a
scuola?», domandò Bill, rivolgendosi alle sue
ospiti.
«No, le nostre
professoresse hanno programmato una crociera sull’Elba domani
mattina», disse Federica. «Il pomeriggio
è libero, ma abbiamo intenzione di fare un po’ di
shopping per comprare un po’ di souvenir».
«Oh, shopping…
Solo perché sono troppo vecchio per fare ancora queste cose,
altrimenti…».
«E chi lo
dice?», chiese Beatrice, con la fronte corrugata.
«C’è un’età per lo
shopping?».
Tutti al tavolo restarono in
silenzio e si scambiarono occhiate perplesse. Beatrice
ridacchiò, divertita dalla situazione che aveva creato lei
stessa, e Bill la seguì quasi subito, dicendo: «Se
si trattava di un invito, non vorrei disturbarvi…».
«No!». Beatrice
guardò l’amica per trovare la sua approvazione, ma
Federica sembrava scioccata dal suo comportamento. Beatrice non vi fece
caso e continuò: «Tu conosci meglio i negozi in
zona, puoi aiutarci!».
«Allora è
fatta, Bill: domani sarai di nuovo catapultato nel tuo mondo
glitterato», esclamò Tom battendo le mani e
ridacchiando quando ricevette un pugnetto dal fratello.
«Sarà meglio
andare a casa, adesso», disse il signor Kaulitz alzandosi,
subito imitato dalla moglie di Tom e da Hans.
Beatrice e Federica seguirono Bill
fino alla sua Audi. Federica entrò per prima, nei sedili
posteriori, mentre Beatrice fece il giro per sedersi davanti. Giusto un
momento prima che aprisse la portiera, però, Tom si
avvicinò a lei e le infilò un foglietto nella
mano. Beatrice levò lo sguardo su di lui, confusa, poi lo
abbassò per aprire il foglietto. Si trattava dello scontrino
della gelateria, ma dietro in penna c’era scritto qualcosa:
due numeri di telefono con accanto due nomi e poi un altro numero senza
niente scritto vicino.
«Cosa…?».
«Non so se riuscirai,
ma… l’importante è provarci,
no?». Tom le fece l’occhiolino e le
indicò il terzo numero: «Se hai bisogno,
chiamami».
Il viso di Beatrice si fece
più bello grazie ad un sorriso e una nuova luce le
brillò negli occhi. Tom la fissò per qualche
secondo, sentendo un piacevole calore invadergli il petto, e
ricambiò con naturalezza. Poi tornò alla propria
auto, in cui l’aspettavano moglie e figlio.
«Grazie!»,
gridò Beatrice prima che chiudesse la portiera; lui la
salutò con la mano.
«Che cosa vi siete
detti?», le domandò Bill, sollevando un
sopracciglio com’era solito fare.
Beatrice non rispose, si
limitò a sorridere, e questo bastò anche
all’ex-cantante, che come se avesse visto il sole brillare di
notte entrò nell’auto spensierato come un bambino.
«Posso
andare?». Beatrice, impaziente, si alzò dal letto
e raccattò tutto ciò che le serviva per
prepararsi alla notte. E sarebbe stata una lunga, lunghissima notte.
«Tutto tuo»,
rispose Federica, in pigiama e con gli occhiali sul viso, pronta per
ficcarsi sotto le coperte ed aspettare la telefonata del suo fidanzato.
Beatrice si chiuse a chiave in
bagno e lasciò il beauty-case, l’accappatoio e
l’asciugamano sul bordo della vasca, poi tirò
fuori dalla tasca dei jeans lo scontrino stropicciato con i numeri di
telefono di Georg e Gustav e si mise in ginocchio sull’asse
del cesso, rivolta verso la finestra che dava sulla strada. Compose il
primo numero sulla tastiera del suo cellulare, poi chiuse gli occhi e
prese un bel respiro profondo per farsi coraggio, infine premette il
tasto di chiamata.
Furono i tre squilli più lunghi della sua vita, in cui
sentì i battiti del suo cuore rimbombarle nella testa, ma
alla fine una voce maschile, profonda, disse: «Pronto, chi
parla?».
«Ehi, va tutto bene? Hai
gli occhi gonfi ed arrossati…».
Beatrice fece finta di essere
sorpresa. «Davvero? Mi deve essere finito un po’ di
shampoo negli occhi». Salì la scaletta per
raggiungere il suo letto e si coprì fin sopra la testa con
il piumone, affondando la faccia nel cuscino e lottando per non far
scorrere altre lacrime. Quelle che aveva affogato sotto il getto caldo
della doccia bastavano.
«Spengo la
luce?», domandò ancora Federica.
«Sì. Buona
notte».
«Buona notte,
Bea».
Il buio calò nella
stanza e Beatrice non riuscì proprio ad arrestare le
lacrime, ripensando alle due telefonate che aveva fatto,
l’una peggiore dell’altra, in cui probabilmente
l’avevano presa per una pazza o una fan di
mezz’età che non si era arresa allo scioglimento
della propria band preferita e in cui era riuscita ad esprimersi a
malapena a causa della paura di sprecare il suo unico tentativo.
Fece del suo meglio per strozzare i
singhiozzi nel cuscino e fare il meno rumore possibile, ma
sperò ugualmente che Federica non si accorgesse di nulla: non
aveva voglia di dare spiegazioni e sarebbe stato fin troppo complicato,
nonostante la sua amica parlasse la sua stessa lingua. O quasi. Se
avesse davvero dovuto spiegarle il motivo per cui si era comportata in
maniera così strana in quegli ultimi giorni, il motivo per
il quale era arrivata a chiamare due perfetti sconosciuti per
convincerli che il signor Kaulitz aveva bisogno di loro, avrebbe dovuto
tradurre la lingua del suo cuore, una lingua unica nel suo genere e non
sempre compatibile con quella del cuore delle altre persone.
Con la mano raggiunse il suo
cellulare, posato sopra l’armadio – che le faceva
un po’ da comodino, – e cercò in rubrica
il numero di Tom, salvato poco prima. Lo chiamò
istintivamente, ma dopo nemmeno uno squillo mise giù,
dandosi della deficiente. Lui gliel’aveva detto subito che
non ci sarebbe mai riuscita, ma lei aveva voluto provarci a tutti i
costi e adesso stava addirittura peggio di prima, sentendosi una povera
ragazzina che si era illusa di potersi intromettere in questioni che
non la riguardavano e di poterle risolvere con l’uso della
bacchetta magica – che tra l’altro non possedeva.
Il suo cellulare iniziò
a vibrare improvvisamente. Aprì gli occhi di scatto, le
ciglia incollate tra loro dalle lacrime, e si chiese se si fosse
addormentata e quella fosse la sveglia. Ma appena gettò uno
sguardo sul display e lesse il nome di Tom, il cuore le
balzò in gola. Afferrò il cellulare e rimase per
un attimo ad osservare lo schermo, chiedendosi se dovesse rispondere o
meno, ma alla fine se lo portò all’orecchio.
«Sì?»,
disse con voce flebile, sia per il pianto che per paura di svegliare
Federica.
«Ehi, mi hai chiamato?
Che è successo?».
Beatrice deglutì il
groppo che le si era formato in gola e disse: «Scusa, non
volevo. Ho sbagliato numero».
«Sei sicura?».
Chiuse gli occhi e
sospirò. «Sì, grazie».
«Okay, allora. Buona
notte, Bea».
«Buona notte. Scusa
ancora».
Beatrice pose fine alla
comunicazione e mise a posto il cellulare, poi si sistemò il
cuscino sotto la testa e chiuse gli occhi, sforzandosi di dormire.
*
12°
giorno, mercoledì
Beatrice,
seduta accanto al finestrino sull’autobus che le avrebbe
portate a casa Kaulitz, chiuse gli occhi e si lasciò cullare
dalla canzone che stava ascoltando con il suo amato mp3. I suoi
pensieri però, inarrestabili come un fiume in piena, la
riportarono a domenica, quando si era giocata il tutto per tutto e
aveva chiamato Gustav e Georg. Non ricordava perfettamente le parole
che avevano usato, anche piuttosto gentilmente, per dirle di non
infastidirli più, ma ogni volta che ci ripensava sentiva una
fitta nel petto, all’altezza del cuore.
Aveva fatto davvero di tutto per non tornarci più sopra e il
giorno in cui in assoluto ci era riuscita meglio era stato quello
precedente. Un sorriso le nacque spontaneamente sulle labbra,
ripensando a tutti i negozi che avevano girato con Bill – che
non aveva per nulla perso il fiuto per gli acquisti azzeccati,
nonostante l’età e il fatto che lo shopping non
fosse più una sua priorità – ma
soprattutto a tutte le risate che insieme si erano fatti. Anche
Federica si era divertita molto e aveva scoperto un lato del signor
Kaulitz che l’aveva a dir poco meravigliata.
Scesero dall’autobus alla
loro fermata e camminarono con passo svelto fino a casa, visto che
quella sera avrebbero dovuto cucinare loro come
“regalo” alla famiglia ospitante, anche se da casa
avevano già portato il Parmigiano e alcuni dolci tipici.
Entrarono in casa e la trovarono
immersa in un insolito silenzio. Beatrice capì subito, e con
rammarico, che Bill non era in casa. Ne ebbe la piena conferma quando
entrò in cucina per posare la borsa con ciò che
avevano comprato al supermercato e vide, sul tavolo, un bigliettino con
su scritto, in una calligrafia frettolosa: “Mi dispiace, ma
c’è stato un imprevisto. Può darsi che
torni tardi, non aspettatemi per la cena”.
«Che cosa
c’è scritto?», domandò
Federica, raggiungendola. Beatrice le passò direttamente il
foglietto ed iniziò a svuotare la borsa.
«Oh, carino! Noi
organizziamo la cena italiana e lui non
c’è!».
Nonostante si fosse sforzata di
avere un’espressione neutra sul viso, gli occhi le si
riempirono ben presto di lacrime e le mani le tremarono. Doveva
allontanarsi, e in fretta, se voleva che Federica non la vedesse
scoppiare a piangere. Era ovvio che la sua delusione era più
grande di quella che avrebbe dovuto mostrare in pubblico; era ovvio che
la sua assenza era stata un duro colpo, soprattutto perché
non ne sapeva il motivo. Che tipo di imprevisto gli era capitato? Era
stato talmente imprevisto
da fargli rinunciare alla cena italiana, a cui Beatrice teneva
così tanto?
«Devo andare in
bagno», mormorò prima di correre fuori dalla
cucina e precipitarsi al piano di sopra.
Entrò nella loro camera
ed aprì la valigia per prendere il beauty-case per togliersi
il trucco dal viso, quando si accorse che la tasca davanti, quella che
non aveva mai toccato, era aperta. Infilò una mano
all’interno e vi trovò un foglio piegato in
quattro. Si lasciò cadere seduta a gambe incrociate sul
pavimento e l’aprì, riconoscendo la stessa
calligrafia del biglietto lasciato da Bill.
Il cuore iniziò a batterle all’impazzata nel petto
appena lesse le prime righe, ma fu costretta comunque a prendere il
dizionario: voleva comprendere alla perfezione tutto ciò che
le aveva scritto.
Cara
Bea,
non
potrò mai ringraziarti abbastanza per ciò che hai
fatto. Il motivo per cui non ci sarò stasera – mi
dispiace infinitamente, spero tu possa capire – è
perché Georg e Gustav sono venuti a bussare alla mia porta,
accompagnati da Tom, e mi hanno chiesto di cenare con loro.
Ho avuto paura di avere un infarto quando li ho visti e mi sono accorto
che non erano per niente cambiati… Ma soprattutto quando ho
visto che nei loro occhi non c’era più rancore
verso di me.
Mi hanno spiegato quello che è successo in questi giorni: la
tua telefonata li ha stupiti parecchio, sia perché
l’avevano ricevuta entrambi sia perché non
pensavano che qualcuno potesse ancora ricordarsi di tutto
ciò che era successo così tanti anni fa.
Così hanno chiamato Tom, per chiedergli spiegazioni, per
chiedergli se tu eri davvero chi dicevi di essere e volessi davvero una
riappacificazione tra noi. Tom gli ha raccontato tutto, dicendogli
anche che lui per primo, quando tu gli hai spiegato il tuo piano, era
scettico e non ne voleva sapere, ma poi ha ceduto.
Ora capisco il motivo dei tuoi lunghi silenzi, dei tuoi occhi a volte
spenti e pieni di segreti, e ti ringrazio, perché non solo i
tuoi sentimenti hanno fatto breccia nel mio cuore, ma anche in quello
di Tom e poi in quelli di Gustav e Georg, così colpiti dal
tuo sincero desiderio di aiutarmi che hanno deciso di fare un passo
verso di me.
Avevi ragione, avevi perfettamente ragione quando hai cercato di dirmi
che solo grazie al perdono dei miei amici potevo davvero perdonare me
stesso e sentirmi meglio.
Spero che un giorno qualcuno si occupi di te come tu hai fatto con me,
perché te lo meriti. Sappi che se un giorno vorrai parlare
ed annoiati un po’, non con una vecchia gloria del rock, ma
con il tuo signor Kaulitz, ci sarò sempre.
Grazie, Bea.
Bill
Bea
richiuse la lettera dopo averla letta ancora diverse volte e
scoppiò in una leggera risata, portandosela al petto ed
asciugandosi le guance rigate dalle lacrime con una mano.
Grazie a lei, signor Kaulitz.
Bill, con un sorriso felice
stampato in faccia e sentendosi bene come mai si era sentito negli
ultimi trent’anni, chiuse a chiave la porta di casa e
camminò in silenzio verso la cucina deserta.
Accese la luce e vide che la tavola era apparecchiata, ma solo per una
persona, e al centro di essa c’era una pirofila di ceramica
coperta da un piatto, che sollevò per sbirciarne il
contenuto: pennette al sugo con olive nere, prezzemolo e una foglia di
basilico. Ne annusò estasiato il profumo e fece per prendere
la forchetta per assaggiarne un boccone, nonostante fosse molto tardi,
quando notò un bigliettino nascosto sotto le posate. Lo
prese fra le mani e lo aprì, sorridendo alla vista di quel
disegno: un grande cuore all’interno del quale
c’era una faccina sorridente.
Aprì lo sportello di un armadietto e tirò fuori
una bottiglia vino, poi prese un calice dalla credenza e si sedette a
tavola, portando di fronte a sé la pirofila di pennette.
Versò un po’ di vino rosso nel calice e sorridendo
lo sollevò per brindare al cuore con lo smile, in piedi
contro il bicchiere dell’acqua.
*
15°
giorno, sabato
«Siete pronte?».
Federica guardò
Beatrice, rimasta indietro ad osservare attentamente tutto
ciò che le stava attorno: le scale che portavano al piano
superiore, il corridoio, la cucina, il salotto, le vetrate che davano
sul giardino… Tutto, tutto le sarebbe mancato.
«Sì, penso di
sì», rispose alla fine, accennando un sorriso al
signor Kaulitz.
Uscirono di casa e raggiunsero
l’Audi bianca parcheggiata di fronte al vialetto e
già calda. Caricarono le valigie nel bagagliaio e poi
salirono, come al solito Federica dietro e Beatrice davanti.
Restarono in silenzio per quasi
tutto il tragitto e Beatrice non spostò mai lo sguardo dal
finestrino, consapevole che se avesse guardato Bill in viso e
l’avesse visto sorridere con la stessa sua tristezza negli
occhi sarebbe scoppiata a piangere come una fontana e aveva tutte le
migliori intenzioni di trattenersi.
Di fronte alla scuola
c’erano già diversi studenti che avevano
abbandonato tutti i loro bagagli in mezzo alla strada e avevano preso
d’assalto la panetteria per comprare da mangiare per il
viaggio oppure i brezel da portare a casa. Del pullman,
però, non ce n’era ancora traccia.
Il signor Kaulitz le
aiutò a scaricare i bagagli e poi le guardò
dolcemente. «È stato un piacere per me avervi come
ospiti. Vi auguro tutto il bene possibile e spero di rivedervi, qualche
volta. Tanto sapete dove abito».
Federica lo ringraziò e
fu la prima ad abbracciarlo, baciandogli le guance. Beatrice nel
frattempo si preparò psicologicamente per affrontare quel
momento e fece un respiro profondo, ma quando Federica si
scostò per lasciarle il posto e correre anche lei alla
panetteria prima che i brezel finissero, la sua attenzione fu catturata
da un’auto dall’aspetto familiare che si
fermò all’altro lato della strada e da cui scese
Tom, ma non era solo: con lui c’erano anche quelli che
dovevano essere i famosi Georg e Gustav. L’ex-chitarrista
incrociò il suo sguardo e le rivolse un sorriso solare,
mentre attraversava la strada e li raggiungeva, proprio come il primo
giorno in cui si erano incontrati.
«I Tokio Hotel al
completo per salutarti», mormorò Bill,
ridacchiando.
Beatrice lo guardò negli
occhi e lo abbracciò di slancio, sorprendendolo.
L’uomo ricambiò la stretta dopo qualche secondo,
posandole una mano sui capelli. La ragazza non riuscì
più a trattenersi e scoppiò in lacrime,
mordendosi le labbra per non singhiozzare.
«Ehi,
ehi…». Bill si ritrasse per guardarla in viso e le
accarezzò una guancia, sorridendole teneramente.
«Questo non è un addio: ci sentiremo via e-mail,
mi potrai chiamare a casa… Non piangere, per favore,
altrimenti rischio anche io».
Beatrice accennò un
sorriso ed annuì, asciugandosi le lacrime sotto gli occhi.
Tom, che nel frattempo li aveva raggiunti, salutò la ragazza
e le rivolse il suo tipico sorrisino malizioso, ma ciò che
le disse andò contro ogni sua previsione: «So di
aver dubitato di te, ma alla fine ce l’hai fatta,
quindi… credo di doverti delle scuse e dei ringraziamenti.
Senza di te non avrei mai rivisto il mio fratellino tornare a sorridere
col cuore».
Beatrice fissò la mano
che le aveva offerto in segno di pace. Al
diavolo! La tolse di mezzo e si
gettò anche fra le sue braccia, affondando il viso nel suo
cappotto. D’altronde senza il suo aiuto non avrebbe mai
potuto dare il via al meccanismo che aveva portato al chiarimento tra
Bill e il resto della band. Tom ricambiò
l’abbraccio dandole qualche pacca sulla schiena, in evidente
imbarazzo.
Beatrice si scostò e
guardò i due gemelli negli occhi, poi sorrise e si
voltò sentendo la voce di Federica che, avvicinandosi, le
mostrò un sacchetto: «Ne ho presi un paio anche
per te, sono andati a ruba!».
«Grazie». Prese
il sacchetto con i brezel ancora caldi e si voltò verso
Gustav e Georg, appoggiati al cofano dell’auto di Tom, che la
salutarono con una mano ed un sorriso sulle labbra. Beatrice
ricambiò e poi finalmente arrivò il pullman che
li avrebbe riportati tutti a casa, in Italia.
Beatrice e Federica aspettarono che
i loro bagagli venissero caricati, poi salutarono ancora una volta il
signor Kaulitz e salirono sul pullman. Beatrice si mise subito in
ginocchio sul sedile e non perse mai di vista Bill, Tom, Gustav e
Georg, continuando a sorridergli e a comunicargli con i gesti.
Quando le professoresse
fecero l’appello e le porte del pullman si chiusero,
Beatrice sentì di nuovo le lacrime pungerle gli
occhi.
Si appoggiò con le mani al finestrino, infastidendo tra
l’altro la sua compagna, e continuò a salutare i
quattro uomini fino a quando non scomparvero dalla sua vista, puntini
lontani in fondo alla strada.
Alla fine si sedette composta sul
sedile e, nonostante una lacrima solitaria fosse sfuggita dalla gabbia
delle sue ciglia, il suo animo si placò rendendosi conto che
mai, mai sarebbero scomparsi dal posticino che gli avrebbe sempre
riservato nel suo cuore.
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