La
vista della mia stanza quasi totalmente
spoglia mi provocava un profondo senso di tristezza che, sommata
all’inquietudine per i cambiamenti che mi attendevano, generavano un
tripudio
di sensazioni disarmanti e avvilenti.
Sospirai
sommessamente richiudendo uno
degli ultimi scatoli di cartone, contenente un numero potenzialmente
sproporzionato di libri, nonché una misera parte di quelli che
possedevo. Mia
madre aveva sempre contestato la mia ossessione per la lettura, avrebbe
preferito vedermi sperperare i miei risparmi in scarpe e vestiti,
essendo la
sua unica figlia femmina.
Purtroppo
per lei le sue speranze erano
state brutalmente disilluse.
Io
e lo shopping eravamo disgraziatamente
incompatibili.
Lo
dimostrava la mia valigia, contente
appena due completi decenti e un gran numero di comode felpe e jeans.
Probabilmente avrei dovuto rimediare, pensando che forse quei pochi
vestiti non
sarebbero stati sufficienti per un intero anno di college, ma aborrivo
l’idea
di trascorrere un intero pomeriggio in centro in compagnia della mia
esuberante
madre.
Il
risultato della nostra prima e ultima
esperienza di quel genere avevano comportato un’emicrania da record e
una serie
di vestiti che l’anno seguente erano finiti tra quelli destinati alla
beneficenza, ancora muniti di targhetta.
Un
vero disastro.
Forse
però anche quel genere di cose mi
sarebbero mancate, una volta lontana.
Nei
mesi precedenti, che mi avevano vista
finalmente stringere il diploma tra le mani, avevo avuto modo di
meditare su
quanto sarebbe avvenuto e su quello che desideravo realmente fare della
mia
vita.
Da
bambina avevo avuto molti sogni sui
quali, riflettendo lucidamente, non era possibile fare affidamento.
Una
persona dotata del mio precario
equilibrio non avrebbe mai avuto speranza nel mondo della danza, come
dimostravano gli anni sprecati tra piroette e passè.
Intercalati
immancabilmente da qualche mia
rovinosa caduta…
Fortunatamente
in un barlume di lucidità
avevo dato fuoco a tutti i filmini che mia mamma si ostinava a
conservare, mormorando
qualcosa riguardo la dolcezza della mia goffaggine.
Molto
gentile da parte sua ridicolizzarmi
in quel modo.
Con
gli anni naturalmente i miei orizzonti
si erano ampliati e mi ero dedicata a ben altre
aspirazioni, leggermente più plausibili.
L’interesse
per la letteratura mi aveva
indirizzato verso un campo umanistico, così come la passione per la
scrittura
mi aveva spinto a vagliare l’ipotesi di un’ ipotetica carriera
giornalistica.
Semplice,
no?
…
Non proprio.
Purtroppo
c’era quella piccola e fastidiosa
parte di me sempre pronta a rammentarmi che un simile ambito dava
prospettive
future tutt’altro che rosee. Troppo concorrenziale per aspirare ad una
buona
possibilità successo.
Sono
paranoica?
Forse
un tantino…
Nonostante
i miei continui ripensamenti
alla fine avevo ceduto, ponendo da parte, per una volta, il mio
raziocinio.
L’assennatezza
nei giudizi era una dote di
cui disponevo, caratteristica ereditata dal mio adorato papà. Una delle
poche
che stranamente non rimpiangevo… almeno non del tutto. Qualche volta
avrei
preferito possedere un carattere più affine alla mia eclettica madre,
Renèe.
Una donna piuttosto particolare, giovanile, socievole e… completamente
fuori di testa.
Mi
doleva ammetterlo ma era l’esatto
opposto di mio padre. Come avessero potuto sposarsi e tirar su una
famiglia
insieme era l’arcano mistero che aveva riempito le mie notti insonni.
Certo, insieme
ai mille tentativi per regalare un po’ di massa cerebrale al mio povero
fratello: Emmett.
Rammentavo
ancora una delle frasi che
Rose, una mia cara amica, aveva utilizzato con lo scopo di convincermi
ad
iscrivermi al College, in seguito ad una mia crisi di insicurezza.
“Se
quel bestione, zucca vuota,
frequenta l’università con buoni risultati, immagina cosa potresti fare
tu!”,
aveva affermato ripensando al suo primo incontro con il mio
sconclusionato fratello.
In
fin dei conti non si conoscevano
granché, soprattutto considerando che io stessa avevo avuto modo di
incontrare
lei da ben poco tempo. Durante gli ultimi mesi dell’anno scolastico, il
nostro
istituto aveva organizzato un piccolo scambio culturale con una scuola
di Forks
, grazie al quale Rose era stata condotta qui a Vancouver.
La
simpatia era nata quasi
istantaneamente, benché i nostri caratteri non fossero affatto
somiglianti.
Fortunatamente la trigonometria, con le sue folli formule, era stata in
grado
di sopperire alle mie mancanze ed avvicinarmi a lei, che si era
rivelata un genio
dei numeri, nonché mia salvezza.
Avevamo
trascorso insieme i mesi della sua
permanenza, creando un magnifico legame che, malgrado la distanza,
perdurava.
Durante
quel periodo, per una serie di
sfortunati eventi, mio fratello, impegnato con gli ultimi esami al
college, era
stato costretto a trattenersi alla Brown, impedendogli di conoscere la
mia
avvenente amica.
E
così sarebbe stato se il fato non avesse
voluto ugualmente un loro incontro. Avvenne in treno, più precisamente
in una
delle stazioni intermedie dove entrambi erano stati costretti a fare
scalo. Lei
tornava a casa dopo due mesi di soggiorno presso di noi, lui dalla sua
facoltà.
Emmett
non si era fatto sfuggire la
ghiotta opportunità di comportarsi da cascamorto con l’avvenente bionda
che
leggeva placidamente un bel romanzo. E lei, rammentando le innumerevoli
foto di
cui mia madre aveva tappezzato la casa, per non dimenticare il viso del
suo
cucciolo, non aveva perso occasione per raccontarmi le prodezze del mio
adorato
fratello.
Com’è
che lo aveva definito? Ah si… scimmione
senza cervello.
Non
potevo certo contraddirla, anche se a
sua discolpa ero costretta ad aggiungere che Rosalie avrebbe
risvegliato anche
un morto con la sua bellezza.
Fisico
statuario da far invidia anche ad
una modella, capelli biondo cenere ed occhi azzurro cielo. Un mix
decisamente
letale e lo dimostrava la miriade di corteggiatori che qui a Vancuver
aveva
tentato di far breccia nel suo cuore di ghiaccio.
Non
biasimavo Emmett, benché avrei potuto
sindacare in merito alle frasi da cioccolatino e ai complimenti che
aveva
sciorinato sperando di far colpo.
Sei
l'aria che respiro.
Sono
giorni che la tua immagine angelica
popola i miei sogni… ecc ecc.
Ma
davvero esistono ragazze cadono ai suoi
piedi dopo certe cavolate?
Scoppiai
in una fragorosa risata
rammentando il racconto della mia amica che recitava perfettamente la
scena,
emulando la voce di mio fratello, beffandosi di lui.
« Tesoro,
perché ridi? » la
testa castana di mio padre fece capolino nella stanza, mentre
un’espressione incuriosita
e leggermente inquieta si delineava sul suo viso.
« Ehm…
pensavo. » mugugnai,
a corto di scuse plausibili.
Lo
vidi scrollare il capo e bofonchiare
qualcosa di incomprensibile prima di allontanarsi e chiudere la porta
dietro di
sé.
Ops.
Tentando
di rimuovere la pessima figura
appena fatta, mi avviai verso la scala per recuperare gli ultimi
oggetti da
impacchettare. Sull’ultimo ripiano dell’armadio custodivo quelle cose
che
ritenevo di maggior valore o che tentavo di celare all’indiscrezione di
mia
madre. Non era raro vederla curiosare tra i miei cassetti alla ricerca
di
qualche sorbito indizio.
Una
volta, incuriosita da una sua
possibile reazione, avevo pensato di abbandonare in un cassetto un
pacchetto di
sigarette. Naturalmente avevo scacciato quell’idea dopo ben poco,
conscia che
un simile gesto avrebbe irrimediabilmente causato la confisca dei miei
pochi
averi e settimane di punizione.
Proprio
come quando Emmett si fece trovare
in dolce compagnia sul divano del salone.
Cinque
mesi di segregazione nella sua camera.
Brutta
storia, soprattutto perché
probabilmente quella scena resterà impressa a fuoco nella mia mente in
eterno.
Che
orrore.
« Bells,
hai tu il nastro
adesivo? » il vocione possente di mio fratello mi fece
sobbalzare,
rischiando di farmi ruzzolare dalla scala su cui ero momentaneamente
adagiata.
« Emmett,
dannazione potresti evitare
di spaventarmi? » sbottai furente, portando una mano al petto per
placare
i battiti furiosi del mio cuore.
Morire
prematuramente colta da un infarto
non è tra le mie priorità.
Lo
vidi sbuffare contrariato, ignorandomi
deliberatamente, mentre il suo sguardo vagava frenetico per la stanza
alla
ricerca del nostro adesivo che faceva bella mostra di sé nella tasca
della sua
felpa.
Lo
avrei avvertito?
E
perdermi le sue scurrili imprecazioni
riguardo il disordine nella nostra casa e la maledizione fatta agli
oggetti?
No,
assolutamente no.
« Qui
non c’è. » replicai
con indifferenza, tentando di celare con un colpo di tosse la mia
risatina
divertita.
Mi
compiacqui nel notare che per una volta
una mia bugia era risultata credibile, o quanto meno non eccessivamente
palese.
Mi rivolse un’occhiata alquanto scettica prima di allontanarsi
borbottando
frasi indistinte.
« Scemo… » bofonchiai,
scendendo dalla scala dopo aver recuperato il mio inseparabile plaid,
per le
notti di studio alla scrivania.
Il
mio rapporto con Emmett non era stato
sempre tanto conflittuale. Al contrario durante la nostra infanzia lui
era
quasi un eroe per la sottoscritta.
Solo
una mente infantile poteva produrre un
simile pensiero… beata innocenza.
Purtroppo
crescendo le cose erano cambiate
e la mia irritazione per lui era aumentata a dismisura con il nostro
ingresso
alle superiori.
Era
appunto a causa del mio malfidato
fratellone e la sua ossessiva gelosia che durante la mia giovane vita
avevo
avuto ben poco l’opportunità di fare esperienze in campo sentimentale.
Essere
la sorellina del capitano della squadra di rugby della scuola non era
un grande
vantaggio, soprattutto considerando l’ammonimento che aveva rivolto
all’intero
corpo studentesco maschile.
Chi
si avvicina alla “piccola” Bella si
ritroverà con le gambe spezzate prima di un paio d’ore.
Uno
scherzo divertente?
Affatto…
Una
simile minaccia, fatta da uno della
sua stazza, avrebbe terrorizzato anche il più temerario dei ragazzi con
gli
ormoni in subbuglio, e di conseguenza la sottoscritta veniva avvicinata
solo da
coloro che non venivano visti come potenzialmente pericolosi: ragazze e
ragazzi
poco interessati al genere femminile.
Una
vera e propria tragedia.
L’ausilio
delle sue molteplici spie,
sparse per l’edificio, sempre pronte a riportare anche il minino segno
di
cedimento, erano poi la proverbiale ciliegina sulla torta.
Assurdo!
Sbuffai
sommessamente rimuginando su ciò
che avrei dovuto subire al college, anche se cresceva in me la speranza
che, in
un ambiente tanto grande, il suo controllo potesse non rivelarsi
altrettanto
esasperante.
La
speranza è l’ultima a morire!
Uno
strappo di scotch segnò
definitivamente la conclusione della mia opera di impacchettamento.
Sospirai
di sollievo abbandonandomi
fiaccamente sul letto, alla ricerca di un po’ di meritato riposo.
« Che
stanchezza. » esclamai volgendo lo sguardo sulla stanza
denudata
dalla miriade di oggetti che prima la decoravano.
Un
po’ mi sarebbe mancato quel luogo,
erano tanti i ricordi ad esso legati ed il pensiero di trascorrere del
tempo
lontano dalla mia famiglia era altrettanto sconsolante.
Naturalmente
avrei avuto Emmett con me, ma
avrei dovuto rinunciare a Charlie, a Reneé… a Jacob.
« Jake! » chiamai
in un
lamento, angosciata per quella separazione tutt’altro che gradita.
Il
mio cucciolo di pastore tedesco corse
da me scodinzolando felice, alla ricerca di coccole e carezze. Il solo
pensiero
di dover rinunciare alla sua compagnia mi affliggeva. Lui tra tutti era
il mio
migliore amico, era entrato nella nostra casa qualche anno prima ed
eravamo
divenuti inseparabili.
La
sua dolcezza e il suo affetto erano un
continuo sostegno quando il malumore prendeva il sopravvento, durante
una delle
mie furiose litigate con Emmett o anche successivamente alla sua
partenza.
Benché io e mio fratello fossimo stati definiti spesso incompatibili,
la sua
assenza era stata destabilizzante.
Mi
era mancato tremendamente, anche se non
lo avrei mai ammesso!
Il
mio cucciolo iniziò a strusciare il suo
musetto sul jeans, tentando di attirare la mia attenzione ed io mi
piegai sulle
ginocchia per arrivare alla sua altezza, facendo scorrere le mani sul
suo folto
e morbido manto.
« Lo
sai che mi mancherai,
piccino? » mi lagnai, stampandogli un bacio sul musetto peloso.
Ok,
forse definirlo piccino non era
adeguato considerando la stazza. Solo la sua coda poteva essere
definita
un’arma impropria, con la quale aveva distrutto il sessanta percento
delle
vetrate presenti in casa.
Ed
i ninnoli di cristallo della
mamma…
« Scricciolo,
datti una mossa. Tra
meno di due ore dobbiamo essere in viaggio ed i tuoi bagagli non sono
ancora
nella jeep. »
Le
urla di mio fratello mi giunsero dal
piano inferiore, infervorate come suo solito.
Sbuffai
contrariata. « Sei tu il
figlio maschio, le valige toccano a te! » sbottai, con la
misera
speranza di vederlo accorrere in mio aiuto.
Vane
speranze?
Avvertii
distintamente i suoi passi
pesanti per le scale. Entrò nella mia camera sorridendo beffardo e
scuotendo
sconsolato il capo. « Adempierò a questo compito gentil
pulzella, ma
solo perché non ho intenzione di trascorrere la notte all’ospedale a
causa di
una delle sue solite cadute. » mi denigrò ridendo
sguaiatamente.
Il
solito barbaro.
« Emmett. » urlai,
rossa in
viso per l’irritazione mentre lui si caricava di pesanti bagagli, senza
alcuno
sforzo, uscendo velocemente dalla camera per evitare il libro con il
quale
purtroppo non riuscii a colpirlo.
Mi
lasciai sfuggire una risatina
divertita. « Che scemo! » mugugnai alzandomi di scatto
dal letto.
Sospirando sommessamente mi affrettai a recuperare le ultime borse
rimaste da
caricare sulla jeep.
Volsi
lo sguardo alla mia stanza,
facendolo scivolare sugli scatoloni che presto mi sarebbero stati
inviati alla
mia nuova destinazione… Dartmouth College.
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