The Question Left
Si lamentava spesso, Watson, quando l'osservavo
mentre svolgeva le sue azioni abitudinarie.
Diceva che sentirsi esaminato,
studiato, mentre leggeva il giornale lo metteva in
agitazione, e lo irritava.
Ovviamente non mi sono mai fatto dissuadere dalle sue parole, e di
certo non lo studiavo.
Contemplare,
ritengo sia la parola più appropriata.
Difatti ho cessato da tempo i miei, ahimè vani, tentativi di
decifrare quel composto dottore.
Li ho interroti in una data molto vicina a quella che fu la conclusione
del decimo caso risolto grazie, in parte, al suo ausilio. L'inchiesta
Wrenber.
Prima di allora il caso che costituiva la mia più grande
ossessione, il mio più smisurato tormento, era proprio lui. John Hamish
Watson.
Passavo il giorno a memorizzare ogni suo movimento, il suono del suo
respiro, le screziature delle sue iridi.
Ogni singolo dettaglio avrebbe potuto rivelarsi determinante per il
quesito che mi attanagliava la mente.
Perchè, ne ero convinto, doveva esserci un qualcosa nella sua
struttura genetica che lo faceva differire dall'uniforme
grigiore che era per me il genere umano.
Qualcosa di chimico,
s'intende.
La sua presenza era più che palese, secondo il mio pensiero.
Una piccola discrepanza che faceva ardere la nostra pelle, le rare
volte in cui questa si sfiorava, che la faceva reagire; altrimenti
per quale ragione percepivo la presenza del mio coinquilino in maniera
così differente?
Per quale ragione le sue premure nei miei confronti affrettavano il mio
battito regolare, che solo l'adrenalina suscitata dalle deduzioni aveva
fino ad allora velocizzato?
Doveva esserci un qualcosa di provato,
di sperimentabile,
in Watson, tutto ciò che dovevo fare era trovarlo. E quale
modo migliore per farlo se non quello di osservarlo costantemente?
Posi fine a quest'infruttuosa indagine, come ho già detto,
verso la conclusione del caso Wrenber.
Precisamente quando, durante la Fiera del Ghiaccio, ci gettammo
all'inseguimento dei due colpevoli del tentato omicidio del senatore.
Inseguimento che finì con una corsa sulla precaria
superficie ghiacciata del Tamigi.
Non avevo alcun timore che il ghiaccio cedesse, calcolavo con estrema
attenzione ogni singolo passo, bilanciando il mio peso, intimando al
buon dottore di imitarmi; ma come spesso accadeva, l'esito
dell'incarico fu compromesso dall'acuta incompetenza degli Yarders che,
senza curarsi di riflettere, spararono verso i fuggitivi -ovviamente
mancandoli- finendo per colpire lo strato ghiacciato che ci sorreggeva.
Feci appena in tempo ad individuarne una zona più spessa e
spingerci Watson con malagrazia, che caddi.
Percepii il freddo penetrarmi nelle ossa in contemporanea al grido del
dottore che, non ne sono certo per via dell'improvviso scrosciare
dell'acqua, chiamò il mio nome.
Tentai immediatamente di combattere la forza dei miei abiti pregni di
gelo che mi trascinavano verso il basso, sicuro che se ci fossi
riuscito avrei trovato quell'irresponsabile di Watson a tendermi una
mano lì dove il ghiaccio era ceduto, sebbene potesse
prevedere il rischio di in'ulteriore rottura.
Pensai che i miei sforzi fossero inutili.
Percepivo le mie braccia come anestetizzate, e la mancanza di ossigeno
mi offuscava la mente, impedendomi di escogitare qualcosa.
Sentivo la testa scoppiare, le membra sempre più
insostenibili, pesanti.
Maledissi con tutto me stesso quel gelo che mi impediva di ragionare,
che non mi permetteva di avere nemmeno il più semplice dei
pensieri, quando tutto ciò che desideravo, perdendo
conoscenza, era poter focalizzare il volto del dottore.
«Holmes!»
Watson.
«Buon Dio Holmes apra gli occhi!»
Al sentire la sua voce mi venne da sorridere, era sempre
così agitato, il buon dottore.
Respirai fra i denti, tentando di esibirmi nella mia solita risata
canzonatrice, riuscendo, però, a produrre solo un sibilo.
L'aria mi raschiava la gola, avrei tossito, se ne avessi avuta la forza.
Probabilmente avevo di nuovo usufruito di troppa soluzione al 7%,
poichè potevo avvertire chiaramente l'apprensione e la
rabbia nella voce del mio coinquilino, sebbene sembrasse troppo scosso
per una mia semplice overdose.
Aprii lentamente gli occhi trovando, inaspettatamente, il grigio cielo
Londinese, dove mi aspettavo di vedere il soffitto dei miei allogi.
Abbassai lo sguardo, incontrando quello sconvolto di Watson, e cercai
di richiamare alla memoria gli ultimi avvenimenti.
«Dottore.» Gracchiai a mo' di saluto, e riuscii a
strappargli un lieve sorriso, mentre manteneva un'espressione di puro
terrore.
Mi resi conto di essere sdraiato sul freddo cemento di una strada e,
vedendo dietro a Watson una distesa bianca, ricordai.
Il dottore fu scosso da un singhiozzo, e mi circondò con le
braccia.
«Lei è un pazzo.» Soffiò fra
i miei capelli.
«Avrebbe potuto spostarsi, invece di spingermi via. E' un
pazzo.» La sua voce si incrinò sulle ultime
parole, e lui mi strinse maggiormente a sè.
Mi sentii allo stesso tempo irradiare di calore e pervadere dal gelo,
al suo gesto sconsiderato, e riacquistai quel tanto di voce che bastava
per rassicurarlo.
«Non sia sciocco, Watson. Sa benissimo che ogni mia azione
è ponderata. Non avrei potuto fare altrimenti.»
I suoi capelli mi goggiolarono sulla fronte, e solo in quel momento mi
accorsi che il dottore era fradicio e congelato almeno quanto me.
«Piuttosto, si alzi. Nello stato in cui è non le
fa bene stare in ginocchio. Le sue vecchie ferite si faranno
sentire.» Borbottai a disagio, sicuro che lui avrebbe saputo
leggere un muto "grazie" fra le mie parole.
Si allontanò da me quel tanto che bastava per guardarmi
negli occhi e ridacchiare, sollevato nel vedermi riacquistare un po' di
calore, per poi scrollare il capo con fare esasperato.
Io mi limitai ad ammirarlo.
Il suo sorriso rincuorato, lo sguardo basso, gli occhi lucidi, e non
potei fare a meno di pensare che lui fosse diverso, raro, se
non unico,
in una concezione del tutto estranea alla mia mente.
Arrivai a pensare persino alla sua bellezza. Così evidente,
eppure così celata ai miei occhi.
In quel momento fui sicuro di non aver mai nemmeno scorto qualcosa di
così splendido,
armonioso.
Cercai nel suo sorriso un qualche segno distintivo, nel suo sguardo una
qualche particolare luce, ancora certo di poter decifrare l'enigma e
comprendere cosa c'era in Watson di così...straordinario.
Ma venni interrotto.
Per la seconda volta nel giro di poche ore Scotland Yard
mandò a monte le mie indagini, facendo comparire un alquanto
infastidito Lestrade.
«Quando avete finito di dare spettacolo, signori, vi
consiglierei di tornare ai vostri alloggi. Ormai quei due sono
lontani.»
Stranamente, non sentii il bisogno di ribattere, o di rinfacciare il
loro decisivo
intervento e, con l'aiuto di Watson, mi rimisi in piedi, seppur
barcollante.
«Torniamo a casa, Holmes?»
«La strada la conosce, Watson.»
Ci sorridemmo reciprocamente, ed entrammo nella carrozza che ci
attendeva, per poi lasciarci cadere sui sedili, stremati.
«Holmes, il cappotto
fradicio che indossa, è per caso il mio?
» Chiese il dottore, fingendosi infastidito.
In risposta io chiusi gli occhi, con un sogghigno malcelato ad
incresparmi le labbra, e reclinai la testa appoggiandola al freddo
vetro del finestrino.
Sprofondai quasi subito in un leggero dormiveglia, dove sentivo, ad
intervalli regolari, le dita del dottore posarsi sul mio polso e sulla
mia fronte, per controllare battito e temperatura, preoccupato che
cadessi in ipotermia.
NdA
Buonasera/giorno :)
Piccolo esperimento, che temo sia abbastanza fallito, su questi due
personaggi che insieme non possono che affascinarmi.
Ultimamente mi sto drogando dei libri di Doyle, perciò ho
voluto a provare a scrivere qualcosa sul caro Sherlock.
Questo è un capitolo un po' scialbo, di "introduzione",
diciamo.
Spero con tutta me stessa di non essere caduta nell'OOC, è
la mia paura più grande D:
Vi ringrazio se siete arrivati fin qui, e mangerò un
biscotto anche per voi se recensirete v.v
Au Revoir :)
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