La morte di Ettore

di niwad
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Infine l’ora era giunta, non restava altro da fare: sguainare la spada e partire all’assalto, avventarsi sul nemico: il bieco e funesto Achille, che furioso già da troppo m’inseguiva.
L’ora era giunta, l’ora della caduta delle mie armi, delle armi d’Achille che poco innanzi avevo liberato dal peso dello stolto Patroclo, e che presto avrebbero subito il peso di un altro cadavere.
Tre e tre volte vidi la rocca girarmi intorno, e sette volte tentai di entrare, preso dal terrore com’ero, ma sette e sette volte lui era lì, tra me e le mie genti e sette volte io dovetti tornare indietro, sulla piana, dove i soldati achei attendevano, cani in attesa del comando del padrone, cani che fremevano nella speranza di poter saltare sulla carcassa lasciatagli dal Pelide, sazio del mio sangue.

E così era giunto Deiforbo, fratello fedele, che fratello non era, e quando l’ebbi compreso ormai l’ora era giunta, e non mi restò altro da fare: presi la daga in mano, e mi scagliai sul Funesto, e lui si scagliò su di me, lancia in mano, scudo in fronte, a studiar l’arme che lui stesso aveva portato, e che ora gli eran avverse, a cercar dove colpire, pur sapendo bene i punti vulnerabili, laddove poter stoccare per strapparmi via la vita.
E così attaccò, e colpì con ira a squarciarmi la gola, e nonostante ciò, la morte tardò a venire, e lui ebbe il tempo d’infamarmi con le sue parole e condannarmi a vagare nell’Ade, e a me non restò che pregarlo, per la sua vita, i ginocchi, i genitori, di non farlo. Eppure lui rifiutò, e lì lo maledissi, e previdi la sua fine, con incredibile veridicità..





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