Asylum
Asylum
John ha imparato parecchie cose dalla guerra.
Ha imparato che le suture si fanno in fretta, più irregolari
possibili, più veloci possibili, perché sono sempre meglio cinque cicatrici
ributtanti, che un uomo morto.
Ha imparato che non esistono uomini, esistono solo divise di
diverso colore, che bisogna sparare senza pensare che il sangue del nemico
scorre come il tuo, che ogni goccia versata sarà solo dolore.
Ha imparato che l’alcool vale più dell’acqua, perché con
quello, nonostante la speranza svanisca, tiri avanti e t'illudi, e dimentichi
–se sei fortunato.
Ha imparato che Marconi è il salvatore, perché in alcuni
momenti la radio è l’unica cosa in grado di coprire i pensieri che neanche le
pallottole possono allontanare.
Ma soprattutto ha imparato che ogni uomo deve avere un
rifugio, almeno uno.
E, certo, contano quelli sul campo, quelli in cui i
“terroristi” non possono raggiungervi, in cui potete finalmente bere, tacitare
il ringhio della fame e far sospirare le membra su una sedia.
Perché se c’è una cosa che in Afghanistan non manca è il
sudore.
Una cosa che spesso manca invece è un rifugio, un rifugio
d’umanità.
C’è chi ha animaletti –non solo gattini, ma persino
lucertoline sono vezzeggiate e trattate con cura.
C’è chi ha una foto –e la memoria che volta alto sul suono
delle bombe.
C’è chi ha la preghiera –con i denti stretti e gli occhi
spalancati, affidandosi ognuno nelle braccia del loro misericordioso Signore.
C’è chi ha la rabbia –la vendetta che soffoca la paura
tremante negli occhi.
E poi ci sono i cosiddetti ingenui, quelli che credono –vogliono disperatamente credere- in un
futuro migliore, sono lì per quello e rimarranno lì per quello, mentre il loro
grande cuore –se sono fortunati- esploderà in un’unica pallottola o, come la
maggior parte delle volte, pomperà a vuoto lasciando che il terreno arido
brilli sotto il colore vermiglio.
John Hamish Watson, MD del battaglione d’India, 5°
Reggimento dei Fucilieri di Northumberland, non era stato lì per nessuno e
tutti quei motivi.
Sua sorella, al tempo, gli aveva dato del pazzo, arrivando a
colpirlo, ma dopo la sua partenza continuava a sostenere il suo eroismo e
quanto lui in verità volesse solo salvare vite e non toglierle, non era un
mostro, dopotutto il suo ruolo era quello di medico.
John non ha mai negato, né confermato.
Perché sapeva che anche sua sorella in fondo conosceva la
realtà di ciò che gli era accaduto.
In Afghanistan hai un fucile, qualsiasi sia il tuo grado o
ruolo.
Hai un fucile e il tuo compito è sparare, se è necessario.
Quindi John Watson era lì per salvare vite, sparare “se
necessario” e…
Se lo chiede ancora, se lo chiede quelle notti in cui si
sveglia di soprassalto convinto che una pallottola gli abbia appena sfiorato
l’orecchio.
Si chiede cosa c’è dopo quella “e”, ma non lo sa
precisamente.
A lui piaceva.
Non la guerra in sé, non i morti, non il sangue secco sugli
stivali.
A lui piaceva stare lì e fare quello che faceva.
Perché il rifugio di John Watson erano i sorrisi, i sorrisi
dei suoi commilitoni il giorno dopo.
Il rifugio di John Watson era la gamba zoppicante ma non
amputata.
Il rifugio di John Watson era vedere la vita.
Quei mesi in Afghanistan erano stati più ricchi di vita che
tutti i suoi precedenti anni in Inghilterra.
Avrebbe saputo descrivere meglio l’andatura stramba del sovraintendente
Bradley, che la festa dei suoi ventun’anni.
Mai il sangue era corso tanto facilmente nelle sue vene
quanto in quei mesi.
Gli occhi profondi delle donne, i gechi negli stivali, i
sospiri di fine giornata, l’Afghanistan stesso era stato il rifugio della sua
intera vita.
Ma a nessuno è concesso di vivere –vivere davvero- per sempre.
John Watson si era beccato una pallottola nella spalla e
come incentivo una bella febbre encefalica.
Aveva finito per passare più tempo in ospedale che in campo,
poi aveva ricevuto un magnifico foglietto di “congedo con onore” e uno sputo di
pensione.
John Watson aveva acquistato tremori intermittenti e una
patologia psicosomatica.
John Watson aveva perso il suo rifugio.
O almeno così pensava
prima di incontrare Sherlock Holmes.
***Angolino del cambia-colore***
Ehilà, è da un po’ che non mi faccio vedere su questo
fandom, ma come avevo giustamente previsto la Sherloton organizzata dallo SFI
(ognipubblicitàoccultaqui http://sherlockfest-it.livejournal.com/
) mi ha sbloccato e portato a scrivere… bhe, questo xD
Io faccio parte del team Canon ed ho scritto per il prompt
“rifugio”, sconvolgendolo più che completamente.
Ho già trattato il binomio John-Afghanistan nella mia shot In Afghanistan lo chiamano pugno sul cuore
ma non mi ero concentrata su questo aspetto, non mi ero concentrata sul perché
John rimane lì, ma più sui precedenti.
Comunque, sto divagando e ho delle note da fare!
1)Mi sono resa conto che “uomini con una divisa di un altro
colore” fa molto De Andrè “La guerra di Piero”. Ora, non era quello il mio
intento, ma una citazione e un cuoricino a Faber ci stanno sempre <3
2)Se qualcuno non lo sapesse, Marconi è l’inventore della
radio e io, dopo aver recentemente visto “Good Morning, Vietnam” (film che
consiglio a tutti, perché Robin Williams è quasi più straordinario del suo
solito), ho capito quanto questo oggettino potesse essere così importante per i
soldati.
3)”John Hamish Watson, MD del (disciolto) battaglione
d’India, 5° Reggimento dei Fucilieri di Northumberland” è il grado militare di
Watson nel Canone e in Hound (della BBC) John dice di appartenere al 5°
Reggimento dei Fucilieri di Northumberland.
4)Il finale riprende il famosissimo e, a mia opinione,
adorabilissimo “Nothing happens to me” di John in Stud.
5)Asylum in inglese vuol sì dire “manicomio”, ma anche “ricovero,
rifugio, asilo”. Quindi sì, intendete il termine in entrambi i sensi xD
Ho finito, non vi tedio più, sono stata anche veloce questa
volta! *si auto complimenta*
Per concludere ringrazio tutti quelli che hanno
letto/ricordato/preferito/recensito la mia precedente storia sul fandom Caos Ammaestrato.
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