Sei mesi.
Si toglie gli scarponi, la camicia, i jeans. Lascia tutto sul
pavimento, vicino al lavandino. Gli occhi incontrano per qualche secondo lo
specchio, ma non si sofferma ad osservare il riflesso. Vede di sfuggita una
vasca, un tappeto rosso, una grande finestra da cui entra la luce calda del
tardo pomeriggio. Non riconosce il bagno, è una stanza che non ha mai visto
prima d’ora, ma in qualche modo è familiare, sa che è sua. Quella è casa sua.
Qualche passo sul pavimento freddo ed entra nella doccia. L’acqua è già
calda, il vapore inizia a riempire le quattro pareti di vetro.
Chiude gli occhi entrando sotto il getto. Sente il calore accarezzargli
i capelli, le spalle, le gambe. La stanchezza inizia a scivolare via. Prende un
po’ di shampoo, sempre ad occhi chiusi, alla cieca. Sa dove trovarlo. E sa di
cosa profuma, lo conosce. È suo. Si massaggia i capelli, e poi lascia che il
getto potente porti via il sapone.
Poi lo sente.
Un lieve rumore alle spalle. Passi. Una spinta alla porta socchiusa,
che si spalanca.
E lui non si volta, non si stupisce di non essere solo, non si chiede
chi entra in bagno mentre lui è sotto la doccia. No. L’unica cosa che fa è sorridere.
Sente i passi sempre più vicini, un paio di scarpe lasciate cadere sul
pavimento, il fruscio di vestiti che vengono sfilati di dosso. E un respiro.
Regolare, familiare. Lo conosce, lo conosce bene.
Sente scorrere una delle quattro pareti di vetro, quasi subito si
richiude.
Lo sente. Sa che è lì, dietro di lui. E, improvvisamente, si accorge di
essere felice.
Una sensazione talmente nuova che non è sicuro nemmeno di saperla
riconoscere. Ma, allo stesso tempo, una sensazione familiare, conosciuta, che
profuma di abitudine.
Lascia che un sorriso gli spunti sulle labbra. Ha voglia di voltarsi,
incontrare i suoi occhi, cercare le sue labbra. Ma non lo fa. Resta di spalle,
immobile e leggero.
Sente i palmi delle mani che si posano sulle sue spalle e adesso
l’acqua calda non è più la sola ad accarezzarlo. Lentamente, parte dalle
scapole, arriva ai fianchi, gli accarezza leggermente le natiche e poi risale
in alto, fino ad intrappolare le dita nei suoi capelli. Lo strattona, ma con
dolcezza. Dean si lascia sfuggire un gemito, che nasce piano in gola e si
libera tra le labbra leggermente socchiuse. Sente il respiro cambiare,
accelerare, eccitarsi. Guarda in basso e si accorge che il respiro non è
l’unica cosa ad essere cambiata.
La voglia di voltarsi è diventata incontrollabile, ma quella sensazione
di calore che sente nel petto lo convince a restare immobile. Non è solo
eccitazione, è qualcosa di più. È conoscenza, realtà, presenza: conosce ogni
respiro, ogni movimento, ogni centimetro delle sue mani.
Come la stanza, il sapone… è suo. Tutto quello è suo.
Ed è felice, come non ricorda di esserlo mai stato.
Le mani stanno continuando ad accarezzargli i capelli. Lo tira
leggermente indietro, fino a fargli posare la nuca sulla sua spalla. Dean sente
il getto d’acqua sul viso, l’eccitazione dell’altro premergli alla base della
schiena.
“Oggi mi sei mancato.” si sente sussurrare all’orecchio.
Poi, all’improvviso, il gelo. La sensazione di soffocamento, tutta
l’aria della stanza ad un tratto risucchiata nel nulla. Le mani iniziano a
tremare, la nausea gli travolge lo stomaco.
È sbagliato, è tutto sbagliato.
Si volta di scatto, se lo ritrova davanti e sente il mondo crollare.
“Sam” rantola, ormai senza fiato.
Si svegliò all’improvviso,
annaspando in cerca d’aria. La fronte e la nuca gocciolanti di sudore, la
maglietta completamente attaccata alla schiena. Si mise seduto, con le mani che
ancora tremavano. Ma la cosa che lo impaurì fino a fargli gelare il sangue fu
il gonfiore all’altezza dell’inguine, nascosto sotto le coperte. Si alzò
barcollando, le gambe che a malapena reggevano il suo peso. Si impose di non
guardare. Non guardare l’altro letto, non guardare Sam, non guardare suo
fratello, e si nascose in bagno.
Il primo conato lo scosse. Con la
testa che girava fino a fargli perdere l’equilibrio, si aggrappò alla tazza e
vomitò, pregando di potersi liberare anche della vergogna. Non successe.
Si sciacquò la faccia, moriva
dalla voglia di farsi una doccia, ma quando la vide ricordò subito la
sensazione delle carezze dell’acqua calda e delle carezze di… Dio, non riusciva
neanche a pensarci.
Cercando di non far rumore,
terrorizzato anche solo dall’idea di svegliare Sam e doverlo guardare negli
occhi, scelse qualche indumento a caso dal borsone, si vestì, afferrò le chiavi
e lasciò la stanza.
Tornò qualche ora più tardi, con
due bicchieri di caffè caldo in mano e un po’ di whisky nello stomaco. Trovò
Sam seduto sul letto, impegnato ad allacciarsi le scarpe. Abbassò subito lo
sguardo.
“Dov’eri finito?” chiese suo
fratello sorridendo. “Cos’erano? Due gemelle anche questa volta?”
Dean non rispose, non fece
battute, non rise. Non fece niente di tutto quello che Sam si sarebbe
aspettato. Si limitò a recuperare il borsone dal pavimento, infilarci tutta la
sua roba sparsa per la stanza e ficcarcela dentro.
“Stai bene? Qualcosa non va?”
chiese Sam, improvvisamente preoccupato. E quando ricevette come risposta un
grugnito che riuscì a distinguere a malapena, si alzò e lo afferrò per una
spalla, costringendolo a voltarsi.
“Stai bene?” ripeté. “Dean,
guardami.”
Gli costò uno sforzo sovraumano,
ma alzò gli occhi e li puntò dritti nei suoi. Sul volto, un’espressione
impassibile.
“Che c’è? Sto ben-”
“Hai bevuto?” lo interruppe,
spalancando gli occhi.
“Ho soltanto passato una nottata
di merda,”
“Hai bevuto whisky di prima
mattina?!”
“Lì c’è un caffè bollente per te,
ora datti una mossa. Io ti aspetto in macchina.”
E lo lasciò lì, impietrito, al
centro della stanza.
Una settimana dopo
Quanto tornarono in camera
avevano ancora il fiatone, le armi strette tra le mani e l’adrenalina che circolava
in corpo. Avevano scovato quel covo di vampiri che cercavano da settimane, e si
erano rivelati leggermente più numerosi di quanto si aspettassero.
“Come va la spalla?”
Dean, un’espressione sofferente
sul volto, iniziò a camminare per la stanza reggendosi un braccio. “Maledetti
succhiasangue!” tuonò.
“E’ uscita? Vieni qua, fammi
vedere.” Dean non si mosse, fu Sam ad avvicinarsi. “Fermo.” sussurrò.
Erano uno di fronte all’altro.
Sam gli ispezionava la spalla, Dean fissava il pavimento.
“Va messa a posto.” borbottò il
fratello maggiore, continuando a tenere la testa bassa.
“Ci penso io. Voltati.”
Dean sbuffò e gli dette le
spalle. “Si può sapere cos’hai?” aggiunse Sam.
“Intendi oltre ad una spalla
distrutta e uno squarcio sull’avambraccio?”
Quando Sam, ignorando la risposta
sarcastica di suo fratello, gli posò una mano sotto il collo e con l’altra gli
strinse il braccio, Dean sentì il dolore bucargli la pelle, i muscoli, le ossa.
“Conto fino a tre.” disse Sam. “Sei
pronto?”
Un dolore diverso, portato da un
sogno vecchio giorni che sembravano nient’altro che attimi, gli strinse la
gola. Avrebbe voluto urlare, ringhiare, spaccare qualcosa. Avrebbe voluto
allontanare Sam, le sue mani, i pensieri che portavano con loro.
Lo sentiva. Sapeva che era lì,
dietro di lui. Sentiva il respiro, le mani. Quelle mani che stavano per
aggiustargli la spalla ma guastavano qualcos’altro.
Chiuse gli occhi, si concentrò
sul dolore, quello fisico.
“Vai.” ruggì.
Sentì suo fratello che contava fino
a tre e poi una fitta che era fuoco. Lo bruciava dall’interno, spezzandogli il
respiro. Trattenne un grido, sentì un ringhio crescergli in gola. E, prendendo
a pugni l’aria con il braccio sano, si allontanò.
“La ferita sul braccio...” Sentì la
voce e una mano di Sam che provavano a fermarlo.
“Faccio da solo.” E sparì in
bagno.
Sam aprì il portatile nello
stesso istante in cui l’acqua iniziò a scrosciare al di là della porta. Aveva
il tempo di una doccia per continuare la sua ricerca. Cercò nei siti che
conosceva, in quelli che ancora non aveva studiato. Si annotò i libri che
avevano e che potevano essergli utili, e quelli che non aveva mai sentito
nominare ma che avrebbe cercato nelle biblioteche di tutto il Paese. Scorrendo
velocemente da una pagina all’altra, leggendo quasi distrattamente lo schermo
del computer, si imbatté nel nome del demone dell’incrocio. Si fermò,
immobilizzato da quella sensazione che conosceva più che bene: la promessa
nascosta in un indizio.
Il suo piano era sempre stato
questo: evocare il demone, dopo aver trovato il modo per costringerlo a
sciogliere il patto. Ed aveva passato le ultime settimane a capire se e come fosse
possibile.
Sapeva che non avrebbe dovuto farlo,
sapeva che suo fratello gli aveva chiesto di lasciar perdere. L’aveva
addirittura minacciato. Ma era suo fratello. Non c’era niente che non avrebbe
fatto per lui, niente. E se il prezzo per tenerlo in vita era fare a gara a chi
sarebbe morto per primo, lui era pronto a pagarlo.
Ma quello che lesse, e che avrebbe
poi trovato conferma in altri libri, lo trascinò nello sconforto più profondo. Scoprì
che l’accordo era indissolubile. Aveva sempre pensato che tutti i patti
potessero essere infranti - era la convinzione che l’aveva animato negli ultimi
mesi - ma sembrava che questo non potesse essere nemmeno sfiorato. Aveva
pensato di evocare il demone dell’incrocio e ucciderlo: se muore lui, muore
anche l’accordo. Ma il demone, in realtà, era soltanto un tramite, un
venditore. Aveva un capo, proprio come tutti. Un capo che aveva il contratto di
quell’accordo.
Chi è il capo? Chi detiene il contratto?
Anche se tutto gli suggeriva che
non era possibile uscire da questa situazione, non questa volta, tutto quello a
cui si impose di pensare erano queste due domande.
Due domande a cui doveva trovare
risposta.
Non ne avrebbe fatto parola con
suo fratello, avrebbe indagato da solo e avrebbe scoperto come venirne fuori.
Ecco il piano.
Sentì la porta aprirsi e, con uno
scatto, chiuse il portatile. Dean uscì dal bagno, già vestito. Senza nemmeno
guardarlo e senza rivolgergli parola, si buttò sul letto.
Sam mise da parte tutte le cose
che aveva letto e scoperto negli ultimi minuti, e gli chiese “Come stai?”. In
risposta ottenne un mugolio, ovattato dal guanciale.
Guardò distrattamente l’orologio,
lo sguardo si posò sulla data. Gli sfuggì una piccola risata, a volte si
scordava quanto vivevano al di fuori del mondo. “Lo sai che dopodomani è
Natale?”
Un altro mugolio.
“Come lo vuoi festeggiare?”
continuò. “Come l’anno scorso, che ne dici? Cerchiamo una casa abbandonata,
scegliamo l’albero, lo decoriamo con tutte le stronzate che riusciamo a mettere
insieme, mangiamo schifez-“
“Zitto, Sam.” lo interruppe, la
voce incredibilmente chiara.
“Che significa ‘Zitto, Sam’?” rispose
stizzito. “Oltre a non poterti salvare la vita, non posso nemmeno festeggiare
il Natale con te?”
“Falla finita.”
“Falla finita?! Perché non vuoi? Dimmelo!
Perché sai che c’è il rischio che tra dieci anni non tu sia più qui per poterlo
festeggiare insieme? È questo?”
No, perché questo è l’ultimo. Sarebbe stata la cosa più naturale e
istintiva, urlargli in faccia questa manciata di parole. Una manciata di
verità. Ma non lo fece.
Dean si sollevò sulle braccia,
gli puntò addosso uno sguardo furioso e lo zittì con la voce grossa che lo
salvava sempre quando non sapeva più come venirne fuori. “Perché non me ne
frega un cazzo! Perché non voglio case, alberi e stronzate varie! Non voglio
fingere che vada tutto bene, che siamo una bella famigliola sfigata ma felice. Voglio
soltanto un bar, una bottiglia di whisky e un fratello che non mi rompa i
coglioni con le sue stronzate natalizie!”
Nella stanza calò il silenzio.
Sam abbassò la testa, l’eco delle grida di Dean che ancora gli risuonava nelle
orecchie. Strinse i pugni, vide le mani tremare. Si impose di non crollare, di non
guardarlo, di non rispondere. Si disse che era sconvolto, lo erano entrambi.
“Ora falla finita,” aggiunse
Dean, abbassando il tono della voce. “e lasciami dormire.”
Sam alzò la testa solo quando
sentì il respiro dell’altro cambiare. Solo quando seppe che, alzando gli occhi,
lo avrebbe trovato addormentato e rilassato. Lontano e al sicuro, in quel modo
chiuso a chiave nella sua testa, in cui a lui non era permesso entrare.
Apre la porta di casa con uno strattone e trascina l’abete fino al
soggiorno, seminando terra e aghi per tutta la stanza. Sente i rami pungergli
le braccia, inizia a sudare, e maledice se stesso e il momento in cui ha deciso
che festeggiare il Natale sarebbe stata una buona idea. Non se lo ricorda
nemmeno più perché ha deciso di uscire di casa, scegliere un albero e comprare
le decorazioni. Poi lo sente scendere le scale, si volta e se ne ricorda
subito.
Indossa soltanto un paio di jeans. Ha il petto nudo, i piedi scalzi e
un asciugamano intorno al collo. I capelli bagnati gli danzano intorno al viso
e schizzano le spalle con piccole gocce d’acqua.
“Dean!” esclama appena lo vede. Gli occhi spalancati, sulle labbra un
sorriso più grande di lui. “Che stai facendo?”
Sistema l’albero al centro del soggiorno, si passa le mani sui jeans e
fa spallucce. “Mi sembrava una buona idea.”
“Dean Winchester che si presenta a casa con un abete due giorni prima
di Natale,” dice Sam, avvicinandosi. “chi sei e cosa ne hai fatto di mio fratello?”
Ridono entrambi, si guardano.
“Quest’anno mi concedi l’onore di festeggiare il Natale come si deve?”
continua Sam.
Finalmente di fronte a suo fratello, incastra l’indice in uno dei
passanti dei jeans e lo tira verso di sé. Sente la sua camicia ruvida contro il
torace scoperto, il suo respiro sulle labbra.
Dean gli afferra la mano e la allontana con dolcezza, facendo un piccolissimo
passo indietro. “Sam, sono sporco e sudato.”
In risposta l’altro lo afferra con entrambe le mani e si avvicina
ancora di più. “Perché hai cambiato idea?” sussurra.
Dean evita il suo sguardo, punta gli occhi sul pavimento. Si sente
arrossire. Poi Sam gli posa due dita sotto il mento ed è costretto ad alzare la
testa.
“Sam…”
“Parlami.” insiste.
“Non ho mai voluto festeggiare perché quello che ci aspettava era una
tavola praticamente vuota. Noi due, io e te… e basta.” sussurra. Alle orecchie
di Sam quel sussurro suona come un grido. Lo ascolta attentamente, pende dalle sue
labbra. “Niente genitori, niente parenti, niente tavole imbandite e solo due regali
sotto l’albero. Soli al mondo, come sempre… con la differenza che le luci di
Natale ce lo avrebbero ricordato ad ogni secondo. Avevo paura che ti rendessi
conto di quanto siamo soli, di quanto poco abbiamo.”
“Dean,” mormora Sam, con il cuore traboccante di tenerezza e le mani
sempre più strette intorno ai suoi fianchi.
“Lo so, Sam. È per questo che ho trascinato fin qui questo dannato
albero.” lo interrompe. “So che ci sei e che ci sarai sempre, so che nessuno
dei due sarà mai solo. Quella tavola, questa casa… non saranno mai vuote, avrò
sempre te. Quello che abbiamo non è poco,”
“è tutto.” finisce la frase al posto suo.
“Sei la mia famiglia, Sammy.” Respira e trema. “Tutto quello che ho.”
Le parole non hanno ancora lasciato le sue labbra quando vede gli occhi
di suo fratello diventare lucidi. Ha voglia di abbracciarlo, baciarlo,
affondare le mani nei suoi capelli umidi. Ed è sicuro che tra poco lo farà. Ma
adesso si limita a sorridergli e aggiunge, “Ora finiamola con questi discorsi e
dammi una mano a pulire questo casino.”
Niente risvegli bruschi questa
volta, soltanto gli occhi che lentamente si aprivano e si abituavano alla luce.
Il dolore alla spalla che tornava a farsi sentire e la ferita sul braccio che
bruciava. Continuava a chiedersi il perché. Perché quei sogni, perché loro due,
perché Sam. Ma questa volta la vergogna, l’imbarazzo, l’incredulità, erano
soffocati da qualcos’altro. Questa volta non era difficile fare i conti con quello
che aveva visto e vissuto, in quel momento – non si spiegava il perché -
era difficile abbandonarlo. Forse perché l’unica cosa che riusciva a ricordare
erano gli occhi lucidi di suo fratello. La felicità che ci aveva visto dentro.
E, soprattutto, la serenità che aveva provato lui. Si era sentito sicuro, di se
stesso e di loro due, in pace con il mondo. E quella sicurezza se l’era portata
dietro. Quel Dean Winchester così lontano dalla realtà, che aveva così tanta voglia
di festeggiare il Natale con suo fratello, aveva convinto anche lui.
Con la coda dell’occhio scorse
Sam alla scrivania. Si mise seduto e Sam si voltò, chiudendo il portatile.
Prima che i loro sguardi si incontrassero, altre immagini tornarono con forza
nella mente di Dean. Sam mezzo nudo, appena uscito dalla doccia, con gli occhi
felici e quel sorriso sulle labbra. E, soprattutto, l’effetto che
quell’immagine aveva avuto su di lui. Non poté fare a meno di distogliere lo
sguardo e voltare la testa.
“Tutto bene?” La voce arrivò
dalle sue spalle, ed era intrisa di preoccupazione. Non c’era rabbia, rancore o
rimprovero, solo preoccupazione. “Sei strano, troppo strano. Che c’è, Dean?”
Poi aggiunse “Parlami.”, e fu
come se avesse di nuovo di fronte l’uomo che aveva conosciuto in sogno. La
stessa voce, le stesse parole. Lo stesso Sam, la sua famiglia, tutto quello che
aveva.
Si alzò e indossò il giubbotto.
Prese anche quello di Sam e glielo lanciò.
“Forza andiamo, dobbiamo occupare
una casa e scegliere un albero.”