…
PERCHÉ LE PUPILLE
ABITUATE A COPIARE INVENTINO I MONDI SUI QUALI GUARDARE
John
avrebbe sbuffato, ne era certo. Poteva quasi vederlo, coperto dal
lenzuolo
perfettamente liscio fino al torso, incastrato sotto alle mani.
Conservava
ancora l’abitudine di dormire come un tronco rigido, come se
avesse la
consapevolezza di doversi alzare da un momento all’altro per
una missione, o
per salvare la vita all’ennesimo commilitone ferito. Le mani
spesso
artigliavano la stoffa, come se cercassero un appiglio sulla
realtà per non
sprofondare nei sogni.
Poteva
quasi vederlo e non gli andava di buttarlo giù dal letto
solo perché aveva
dimenticato le chiavi per la centesima volta. Si fermò
davanti al 221, come se
non lo avesse mai osservato in precedenza, e alzò lo
sguardo, lasciandolo
vagare sugli angoli degli edifici vicini. Le telecamere erano sette,
delle
quali tre lo avrebbero certamente ripreso: due dal lato del 221 e una
dall’altra parte della strada. Non sarebbe stato un problema,
comunque. I
fratelli al governo – se non addirittura loro stessi governo
– avevano una
certa utilità, in determinate situazioni. Tornando a
guardare casa sua, esaminò
la finestra del primo piano, che portava all’appartamento
della signora Hudson
– a quell’ora la padrona di casa si appisolava
davanti ad EastEnders, e se
avesse fatto effrazione nel suo appartamento, lei sarebbe riemersa dal
dormiveglia prendendosi uno spavento terribile. Meglio scartare
l’ipotesi della
finestra del primo piano. Arrampicarsi sul tubo di scolo e sulla
grondaia per
arrivare al secondo piano – dritto dritto nel B di Baker
Street – sarebbe stata
una buona idea, se non avesse riportato diverse ferite in seguito ad
uno
scontro non del tutto amichevole con un gentile ospite armeno, che
ancora gli
pulsavano sottopelle. La spalla non sarebbe stata in grado di
sostenerlo e il
ginocchio contuso non avrebbe facilitato le cose. Meglio tentare lo
scasso,
rapido e indolore. Tirò fuori la carta di credito,
studiò la serratura ancora
un istante, preferì usare la fibbia sottile del cappotto. Un
po’ troppo
sottile, non faceva abbastanza presa e non esercitava la giusta
pressione.
«Le
dispiacerebbe prestarmi una forcina? Sono rimasto fuori casa»
chiese ad una
passante con il suo sorriso più cordiale. Quella lo
guardò inorridita e
affrettò il passo, stringendosi nella giacca di velluto.
Già, lo zigomo
spaccato in due. A lui non creava particolari problemi, ma
apparentemente, agli
altri non faceva lo stesso innocuo effetto. Accigliato,
sbuffò forte. L’idea di svegliare
John era sempre più appetibile, e stava proprio per comporre
il suo numero,
quando con la coda dell’occhio colse la donna che gli era
passata davanti,
impegnata a gesticolare agitata nella sua direzione, mentre parlava con
un
ufficiale – uno yarder sottopagato con moglie divorziata a
carico e figlio
adolescente dalla ribellione facile. Allergico ai gatti, a giudicare da
come
aveva preso a starnutire all’avvicinarsi della donna
– aveva notato dei peli
fulvi sulla sua giacca, quando le era passata accanto. Alzò
gli occhi al cielo
e riprese a maneggiare la serratura con la carta di credito, che gli si
deformava sempre di più tra le mani. Avrebbe dovuto
procurarsene un’altra – non
sarebbe stato difficile sfilarla dal portafoglio gonfio di Mycroft,
dopotutto.
«Tutto
bene, signore?»
«A
meraviglia» rispose chino sulla serratura, ignorando
completamente l’agente e
il suo tono affatto autoritario. Le telecamere dischiusero i loro occhi
meccanici, il poliziotto gli appoggiò un palmo sul braccio e
lo interruppe.
«La
prego di seguirmi alla stazione di polizia, se non le è di
troppo disturbo»
aggiunse, con un ghigno deformato sul volto.
Raddrizzata
la schiena, il ragazzo lo guardò con freddezza e ripose gli
scadenti attrezzi
del mestiere nelle tasche. Ricordarsi di portare sempre una forcina con
sé,
appuntò mentalmente.
«Abito
qui, agente. Se vorrà essere così gentile da
aiutarmi a rientrare, sarò
propenso a non ritenerla un fallimento totale (come tutti i suoi
colleghi) più
di quanto io abbia fatto in precedenza»
Il
volto dell’uomo assunse una curiosa tonalità color
prugna, i pugni si
contrassero in una stretta nervosa e il collo si sollevò
impercettibilmente, in
un patetico gesto di fierezza.
«Qualora
dimostrasse ostilità sarò costretto ad arrestarla
per tentato scasso e
resistenza a pubblico ufficiale»
«Conosco
la legislazione inglese e a quanto pare la conosce persino la sua ex
moglie,
che sa perfettamente che il suo modo per arrotondare le entrate
è illegale. Pensa
di continuare a spacciare per poterle pagare gli alimenti per altri,
diciamo,
otto anni?»
L’agente
sentì le gambe cedere, la sua carnagione assunse una
tonalità pericolosamente
bluastra, il suo “non ne ha le
prove”
risultò essere un balbettio sommesso.
«Beata
ignoranza», replicò il ragazzo, armeggiando con il
telefonino e trattenendo a
stento una risata.
Portò
il cellulare all’orecchio dopo aver composto il numero di
John – tutto questo
casino per il suo apparentemente non abbastanza raro altruismo, ecco a
cosa
servivano i sentimenti.
«Informazione gratuita: il numero selezionato
non è attivo»
Il
poliziotto colse la voce registrata e sogghignò, pregustando
lo scatto secco
delle manette intorno a quei polsi sottili.
«Se
mi concede un istante…» Il volto del ragazzo si
accigliò appena, nell’udire il
tono metallico che non aveva nulla di roco o vagamente sonnacchioso,
come
invece immaginava sarebbe stata la voce di John. Non poteva aver
sbagliato
numero. Lo ricompose, aspettò che partisse la chiamata,
avvicinò il telefono
all’orecchio.
«Informazione gratuita: il numero selezionato
non è attivo»
L’agente
allargò ancora di più quel sorriso volgare e
tamburellò le dita grassocce sulla
coscia, in attesa. La situazione gli era chiara: si trattava di uno dei
soliti
scassinatori da quattro soldi, solo un po’ più
svitato degli altri. Poteva aver
tirato a casaccio riguardo alla sua attività di spaccio
– molti criminali lo
fanno per cercare un motivo di ricatto con gli agenti più
deboli – e senza
neppure rendersene conto, aveva indovinato.
Compose
un altro numero e attese di sentire la voce tagliente del fratello, ma
poi
Mycroft avrebbe mandato qualcuno a prenderlo e la situazione si sarebbe
chiarita. Poi avrebbe tenuto il muso a John per una settimana,
così da fargli
imparare che è scorretto togliere la sim dal telefono solo
per non essere
disturbati durante il sonno. Una voce femminile riemerse dal torpore
con
un’imprecazione che di femminile aveva ben poco, nulla che
potesse avere a che
fare con suo fratello.
«Accidenti»
imprecò, ricomponendosi subito dopo. «Immagino di
doverla seguire in caserma e
dimostrare che io risieda effettivamente qui. Si pentirà di
questo suo eccesso
di zelo – nulla di personale, ma a quest’ora avrei
potuto controllare il
processo accelerato di decomposizione dell’osso femorale
umano.»
Nel
frattempo tentò di mettersi in contatto con Lestrade, ma la
voce metallica era
sempre quella – secondo lei il numero non esisteva, e la
tentazione di lanciare
il telefono dall’altra parte della strada gli stava montando dentro.
Raddrizzò le falde del
cappotto, si schiarì la voce e fronteggiò
l’agente con il suo viso migliore.
«L’ispettore
Lestrade sarà felice di testimoniare a mio favore. Mandi una
pattuglia a
prendermi e si sinceri che non venga Anderson, potrei voler tentare la
fuga. Io
aspetterò qui» concluse sorridendo platealmente.
L’agente
si stupì – Lestrade era sul serio uno dei suoi
superiori e lo spaventava che
quel guastafeste lo conoscesse, lo spaccio era pur sempre un reato
– e si
allontanò piccato, prendendo il cellulare dal giaccone.
Il
ragazzo ne approfittò allora per cercare velocemente un
sassolino sul
marciapiede e, trovatolo, lanciarlo contro la finestra
dell’appartamento.
Niente. Controllò ancora il poliziotto con la coda
dell’occhio – scuoteva la
testa al telefono e parlava piano – e ne tirò un
secondo, un terzo, un quarto.
Niente. Provò a bussare di sfuggita alla finestra della
signora Hudson, ma
ricordò improvvisamente che la sorella di tanto in tanto la
invitava a passare
un po’ di tempo con lei.
«Arriveranno
a momenti» lo interruppe l’agente.
John
doveva essere uscito, non c’era altra spiegazione. Forse
aveva tentato la
riconciliazione con Sarah ed era andato a farsi venire il torcicollo
sul suo
scomodo divano in similpelle, più probabilmente era andato a
controllare che il
programma di disintossicazione della sorella procedesse come da
scaletta. E la
signora Hudson era con tutte le probabilità a spettegolare
insieme alla sorella
sull’ennesima Connie Prince o a commentare la scelta di abiti
indossati dalla
futura regina d’Inghilterra.
Per
la prima volta (seconda, al massimo) nella storia di Scotland Yard, la
pattuglia arrivò dopo pochi minuti, arrestandosi proprio
accanto ai due uomini.
Lestrade non c’era, ma per fortuna nemmeno Anderson era
all’interno dell’auto.
I due salirono e si chiusero la portiera alle spalle,
l’agente pregustando il
riconoscimento in ufficio, il ragazzo appuntando mentalmente di tenere
il muso
a John per molto più di una settimana.
In
una decina di minuti, si trovò seduto su una sedia di
scomoda plastica, in un
ufficio depresso e deprimente, con le pareti tinteggiate troppo tempo
prima e
una lampadina fulminata. La scrivania era abbastanza ordinata, vecchia
almeno
di quattro anni – il piano consunto in prossimità
dello spigolo era
inequivocabile segno di rapporti chilometrici stilati durante svariate
ore di
straordinari (la macchinetta del caffè era proprio accanto
all’entrata
dell’ufficio e dimostrava anch’essa un avanzato
stato di usura, anzi, era rotta).
Il cestino era pieno di bicchieri di carta e alcuni documenti avevano
una chiazza
scura in alto a sinistra, che si era mangiata le prime lettere della
frase. Il
suo processo deduttivo venne interrotto dall’arrivo
dell’ispettore, un uomo
sulla cinquantina con una testa di capelli grigi e una smorfia di
stanchezza
sulle labbra sottili. Avrebbe potuto riconoscere Lestrade anche solo
dal passo
appena strascicato, o dal leggero odore di naftalina che esalava dalle
sue
cravatte –meno forte da quando il rapporto con la moglie era
terminato, visto
il passaggio delle cravatte dall’armadio ad una misera
valigia.
«Ora
che hai detto ai tuoi yarders da quattro soldi che stavo solo cercando
di
entrare nel mio appartamento, puoi farmi riaccompagnare a casa
– non ho
intenzione di perdere neppure un istante» disse il ragazzo,
alzandosi con un
fruscio di stoffa.
«La
prego di sedersi, signore» si sentì rispondere
dall’ispettore, che prese a
rigirarsi in mano una penna – nervosismo, confusione.
«Andiamo
Lestrade, non vorrai davvero…»
«Ero
stato informato della cosa, ma non credevo facesse sul serio. Si sieda,
tanto
per cominciare»
L’ispettore
sospirò stancamente e allungò le braccia sulla
scrivania, sgranchendo il collo
con uno schiocco improvviso.
«Lestrade,
ti ordino di smetterla!»
Questi
scosse la testa, poi avvicinò la sedia alla scrivania,
perplesso.
«Sul
serio, la smetta lei! Io non la conosco e non l’ho mai vista
prima. Se ha la
gentilezza di calmarsi, ora, procedo con l’identificazione.
Lei è?»
Il
ragazzo vacillò un poco, prima di tornare a sedersi con
un’espressione
indecifrabile sul volto.
«Il
mio nome è Sherlock Holmes»
L’ispettore
stava aspettando che l’archivio informatico terminasse
l’analisi dei nominativi
e, di tanto in tanto, spiava di sottecchi quello strano individuo che
gli stava
davanti. L’agente Kirchner aveva riferito di un uomo sulla
trentina, alto,
magro, occhi chiari e ossa sporgenti, oltre ad uno zigomo aperto in
due.
Cappotto lungo, guanti neri e lingua affilata, che diceva di conoscere
bene
l’ispettore Gregory Lestrade, oltre ad un certo Anderson
della scientifica, che
pareva avere molto in antipatia.
Da
parte sua, Holmes aveva dedotto gli spostamenti di quel cretino
d’ispettore (che
si ostinava a fingere di non conoscerlo) di tutta la passata settimana,
oltre
alla marca di materassino sul quale aveva dormito e il tipo di panino
che aveva
scelto al distributore circa sette ore prima. Aveva deciso di
assecondarlo,
perché i testardi come Lestrade andavano presi con la giusta
dose di distacco.
Doveva esserci un motivo per il suo comportamento, una ragione di una
certa
importanza che metteva in pericolo lui, i suoi amici o il suo lavoro in
qualche
modo. Forse c’erano delle microcamere – non aveva
avuto occasione di
verificare, comunque – o più probabilmente era per
un agente sospetto di cui
l’ispettore non si fidava. Avrebbe approfondito
l’indagine in seguito – aveva
pochissimi dati, e non era auspicabile in nessun caso fare uso di
troppa
fantasia tralasciando gli elementi davvero importanti – e
decise di reggere momentaneamente
il gioco senza fare domande.
Il
computer annunciò con un trillo che la ricerca era stata
portata a termine, e
che non erano state trovate corrispondenze tra il signor Sherlock
Holmes ed il
221B di Baker Street. Anzi, il domicilio dell’uomo non era proprio presente
nell’archivio informatico, e
non fu possibile per l’ispettore rintracciare
un’altra eventuale residenza.
Nell’appartamento tirato in causa risultava vivere solamente
un uomo, un
militare in congedo che lavorava da poco come pediatra, in sostituzione
ad una
dottoressa in congedo di maternità. Lestrade scorse con il
mouse su e giù più
volte, cercando qualcosa di vagamente compatibile tra i due estremi
della
ricerca, ma a giudicare dalla sua espressione esasperata e dallo
sbuffare
ripetuto, non risultava essercene alcuna. Eppure doveva ammettere che
quel
volto non gli era del tutto sconosciuto, come se gli fosse passato fra
le mani
proprio poco tempo prima.
Sherlock
Holmes smise di guardare in giro e bloccò le lame fredde dei
suoi occhi sul
volto dell’ispettore, che lo stava osservando da un
po’. Quel volto,
dannazione. C’era qualcosa in lui, negli occhi quasi
trasparenti e circondati
da un accenno di occhiaie, negli zigomi glabri e taglienti, nel sangue
rappreso
e nelle ombre violacee sotto le ciglia.
«Ha
l’aria di uno che non vede un letto da secoli,
ispettore»
«Probabilmente
potrò concedermi il lusso di una dormita solo una volta
svenuto per la
stanchezza e trascinato in ospedale, ma non creda di avere
un’aria migliore»
Holmes
sorrise appena. «Nessuna corrispondenza, suppongo»
«Ovviamente
suppone il giusto, visto che sa bene di non risiedere in
quell’appartamento»
«Speravo
che la tua arguzia superasse quella dei tuoi sottoposti, Lestrade, ma
sono
costretto a ricredermi. Non ti dispiacerà perciò
se ti suggerisco di telefonare
a John e farti dire che condividiamo un appartamento – ti
dirà anche che sono
disordinato e che non faccio mai la spesa»
«Stavo
per farlo» grugnì in risposta
l’ispettore «e comunque poteva chiamarlo lei
è
risparmiarsi questa gran odissea»
«Arguzia
è anche capire che a volte i cellulari non funzionano e che
le persone non sono
reperibili»
Lestrade
alzò gli occhi al cielo come un attorucolo di bassa
categoria e compose il
numero che gli era comparso sullo schermo del computer e che risultava
essere intestato
a quel John Watson di cui si faceva un gran parlare.
L’ispettore articolò poche
parole, con la voce ruvida della carta vetrata. Si strappò
una pellicina
dall’unghia e la soffiò lontano, mentre Holmes
faceva sempre più fatica a
rimanere lì seduto, con il rumore del tempo sgocciolante nel
cervello, veloce,
prezioso, angosciante. Non sentiva più parlare
l’ispettore, non coglieva parole
sulle labbra che si arricciavano e si stiravano in una sequenza di
rapidi
passi. Era come se l’audio del film fosse stato
d’improvviso impostato sull’opzione
“mute”.
L’ispettore
riagganciò la cornetta con un movimento brusco, si
schiarì la voce, attese che lo
sguardo di vetro di Holmes tornasse a splendere.
«Dieci
minuti e il signor Watson sarà qui. Non teme di essere
smascherato?»
«Vai
a prenderti un caffè, Lestrade, a quanto pare la stanchezza
danneggia quel
povero neurone che ti ritrovi. Assicurati che non soffra di solitudine,
vai»
Il
signor Watson arrivò in dolce compagnia: di una donna e un
bastone. Aveva gli
occhi spessi come fondi di bottiglia, i capelli di chi non si rassegna
al
rientro in società e sporte gonfie di sonno accucciate sotto
alle ciglia. Non
era stato svegliato dalla telefonata alle quattro del mattino,
poiché non si
era mai addormentato. Una mano gentile lo teneva appena per una manica,
quasi a
sincerarsi che rimanesse con lei, con i suoi capelli morbidi e il suo
profumo
di femmina, nel brusio rassicurante del mondo, nella monotonia della
vita
normale.
Normale,
che impareggiabile ed insopportabile noia – Holmes non ebbe
bisogno di
guardarsi alle spalle per capire tutto questo, la sua immagine mentale
era
persino più vivida della realtà. Finalmente John
lo avrebbe riportato a casa,
avrebbe gentilmente sfiorato le dita della donna, le avrebbe agganciate
al
manico di una brutta borsa color nocciola e se ne sarebbe andato con
lui.
Lestrade
si era presentato, scompigliandosi con imbarazzo la zazzera folta
mentre
chiedeva scusa per l’ora indecente e per il disturbo e per la
macchinetta del
caffè rotta e il riscaldamento soffocante.
«Ci
siamo già conosciuti, ispettore» gli strinse la
mano la donna, sorridendo
stancamente. Lei sì, lei dormiva. «Sarah Sawyer,
del Bethlem Royal Hospital.
Abbiamo denunciato la scomparsa di un nostro paziente qualche giorno
fa»
Sawyer, Sawyer
pensò l’ispettore, senza ricordarsi di quel volto
che sembrava essersi
appassito troppo in fretta. La scomparsa di un paziente mentalmente
instabile –
perché era i matti, che curavano al Bethlem –
doveva averla provata molto.
«Non
abbiamo ancora avuto notizie» improvvisò lui,
«ma controllerò personalmente non
appena sarà finita questa storia assurda. Lui è là» e indicò oltre
la soglia del suo ufficio, in cui la figura alta di un uomo stava
immobile come
un disegno sulla carta.
«Vuoi
che ti accompagni?» domandò lei a colui che la
teneva a braccetto.
Appoggiato
al bastone, l’uomo scosse la testa e prese ad avanzare con il
ritmo sincopato
di un singhiozzo, separandosi dalla donna. L’ispettore lo
precedette in ufficio
e chiuse loro la porta alle spalle.
«Allora,
dottor Watson » Holmes rimase con il mento sulle dita e
attese lo schiocco
scocciato che le guancie di John avrebbero certamente prodotto, gonfie
e subito
svuotate di aria riciclata «conosce
quest’uomo?»
Le
sue guancie non si gonfiarono, ma gli occhi smerigliati si posarono
sulle linee
aguzze e bianche del giovane taciturno e percorsero più
volte le diagonali
taglienti del mento, del naso, degli zigomi – quella brutta
ferita avrebbero
dovuto medicarla giorni prima.
«Il
suo nome è Sherlock Holmes e lo abbiamo trovato mentre
tentava un effrazione nella
sua casa. Sostiene di condividere l’appartamento con
lei»
Il
ragazzo rimase muto anche se tirato in causa, con espressione beata sul
volto –
presto John sarebbe scoppiato a ridere chiedendo se tutto quel silenzio
significasse che era arrivato in paradiso, avrebbe domandato a Lestrade
il
motivo di quello stupido scherzo e gli avrebbe ricordato che il primo
di aprile
doveva ancora arrivare. Il dottor Watson fece qualche passo avanti e si
passò
una mano sul viso con espressione perplessa. Le sua dita indugiarono
ancora
qualche istante sulle sopracciglia, poi un sospiro pesante gli
sfuggì dalle
labbra.
«Non
ho mai visto quest’uomo prima, ispettore»
Holmes
sciolse i nodi delle sue dita e portò il volto in fronte al
dottor Watson, con una
scintilla di confusione ardente nelle iridi.
I
suoi neuroni friggevano, pericolosamente prossimi al corto circuito. Le
sinapsi
si trasmettevano a vicenda messaggi assurdi e inverosimili, la facciata
algida
del suo viso era incrinata da uno spasmo all’occhio destro,
che cercava di
controllare con un massaggio leggero delle dita.
«Non
è divertente, John Watson. Smettila subito!»
gridò, facendo cadere a terra la
sedia da cui si era alzato d’improvviso. La prospettiva che
fosse solo uno
scherzo diventava però sempre più remota e Holmes
se ne rendeva conto. Il volto
del dottore era un’autostrada di sentimenti, plastilina tra
le dita calde delle
emozioni, che lo modellavano in una maschera di dispiaciuta confusione,
come se
stesse tentando davvero di riconoscere l’uomo che lo
fronteggiava.
«Potresti
essere quello di sempre, per favore?»
«Io…
Mi dispiace, ma non la conosco. Non so chi–»
«John»
si avvicinò Sherlock. Lestrade scattò in avanti,
ma il dottore lo fermò. «No»,
disse.
Lasciò
che Sherlock gli togliesse il bastone dalle mani e corresse appena il
peso –
alleggerì la gamba zoppa e la piegò un poco.
«Di
questo non hai bisogno, con me. Ricordi?»
L’altro
deglutì, capendo sempre meno di quella situazione. Il
cognome non gli era certo
sconosciuto –un certo Mycroft Holmes era spesso in tv su
delega del primo
ministro – ma quegli occhi trasparenti non li aveva visti
proprio mai. Non li
avrebbe dimenticati, altrimenti.
«Il
tuo blog è pieno dei nostri casi (e di errori ortografici
che puntualmente ti
correggo). Ricordi, John?»
Il
dottore rabbrividì. «Co–come sa che ho
un blog?»
A
volerla dire tutta, John non era neppure mai stato una cima in
ortografia –
ricordava ancora il cimitero di croci rosse sui dettati in seconda
elementare.
«Se
non ti conoscessi, direi che un uomo che soffre di zoppia psicosomatica
è
sicuramente seguito da un terapista e che questo preme
perché il suo paziente
tenga un diario – ma siamo nell’era della
tecnologia, e dunque gli consiglia un
blog. Ma visto che ti conosco non ho bisogno di queste deduzioni
elementari»
«E’
vero?» chiese Lestrade, con i capelli che quasi si mangiavano
le sopracciglia.
John deglutì nuovamente. Aveva bisogno di un accidenti di
bicchiere d’acqua,
iniziava a sentire tanti piccoli puntolini che gli pizzicavano sul
volto e
nella gola. Dov’era Sarah?
«Ho
un blog che non ho ancora iniziato, ma il resto»
tossì piano, guardando con
attenzione Holmes «il resto è tutto vero»
«Certo
che è vero! E adesso ne ho abbastanza, è
ridicolo»
Holmes
spalancò con veemenza la porta – Lestrade si
slanciò immediatamente
verso di lui, seguendolo nel
corridoio del commissariato. Non ce ne sarebbe stato bisogno, comunque,
perché
Sherlock s’imbatté in Sarah e
s’immobilizzò. La donna trasalì
– era rimasta
fuori dall’ufficio, con il cappotto tra le braccia incrociate
e le palpebre
pesanti di chi è stato preso per i capelli e sbattuto nella
realtà
all’improvviso.
La
sua mano curata scattò sulle labbra pallide, il
respirò le si troncò in gola.
«Sherlock»
sussurrò, «sei qui…»
Il
ragazzo non rispose, non reagì. I suoi occhi non avevano
più nulla di
trasparente – ora sembravano pozzanghere rese torbide dal
pesticciare dei
passanti. Con l’occhio clinico che le era proprio, Sarah
intuì che la
situazione era talmente critica da poter degenerare da un istante
all’altro. La
ferita che si era provocato sul volto – ed era pronta a
scommettere che ne
avesse altre sugli avambracci e sul ventre – indicava che
l’assenza dei farmaci
lo aveva provato molto – ma per arrivare a questa conclusione
era sufficiente
notare le falangi, in preda ad un tremolio impercettibile ma costante.
John
e l’ispettore si erano fermati poco dietro ai due, senza
capire. Come potevano,
Sherlock e Sarah, conoscersi? Perché Holmes ora si stringeva
le braccia addosso
e non sapeva più guardare il mondo?
Sarah
appoggiò delicatamente un dito sotto al mento del ragazzo e
gli fece sollevare
il volto – gli sussurrò qualche parola
rassicurante mentre lo conduceva alle
sedie allineate al muro. Lui si afflosciò su quella plastica
dura, come un
orsacchiotto con la segatura bagnata – un giocattolo
abbandonato in favore
dell’ultimo modello di robot meccanizzato. Lei
tornò sui suoi passi e si
accostò a Lestrade.
«E’
lui, ispettore. L’uomo di cui abbiamo denunciato la scomparsa
dal Bethlem, è
lui»
Sherlock
Holmes era un paziente dell’ospedale psichiatrico Bethlem
Royal di Londra, ritenuto
uno degli istituti migliori del Paese. Era sotto la tutela diretta
della
dottoressa Sawyer, che se ne prendeva cura con dedizione . La
schizofrenia era
nata e cresciuta con lui, era stata sua compagna fedele e talvolta,
paradossalmente,
unico appiglio sulla realtà. Passava le giornate alla
finestra, sipario su
ricordi che non aveva mai vissuto, fatti di omicidi da risolvere,
poliziotti
invariabilmente idioti e avventure al limite del possibile. Viveva in
quella
mente con un collaboratore fidato – un’anima che a
lui si era legata,
preferendolo al bastone che si trascinava dietro. L’acerrimo
nemico (nonché
fratello) Mycroft Holmes era un volto importante del governo inglese
–
probabilmente visto in prima serata durante qualche dibattito fatto
tacere dal
telecomando. L’ispettore Lestrade era una fotografia sul
giornale che improvvisamente
aveva preso vita, Molly era una paziente dell’ospedale che
conosceva molto bene
l’uso di bisturi e microscopio - la madre della ragazza, Mrs.
Hudson, preparava
sempre dei dolcetti favolosi. Il temibile ma mai-del-tutto-inatteso
Moriarty era Richard Brook, l’attore cui i
genitori di mezza Inghilterra affidavano ogni sera il sonno dei loro
dolci bambini.
Era un mondo che gli altri non vedevano, ma ciò non
significa che non esistesse
davvero.
Sarah
si sincerava sempre che Sherlock prendesse i farmaci – non
tenevano alla larga tutto
quel marasma di gente mezza inventata, ma almeno riuscivano ad
impedirgli di
aprirsi tagli un po’ ovunque sul corpo. Talvolta si fermava
ad ascoltare le sue
avventure e a farsi guardare con superiorità – lui
era convinto che volesse
portargli via il caro amico, l’anima condivisa, quel John
Watson di cui parlava
sempre.
L’uomo
con cui lei si sarebbe sposata di lì a qualche mese.
In
realtà Sarah aveva fatto, inconsapevolmente,
l’operazione contraria. Sherlock riceveva
spesso le
visite di quel vecchio militare, ostinato a portarsi appresso un
bastone di cui
non aveva bisogno – non volevi
neppure
vederlo per sbaglio, quello, quando stavi con me…
John
era rimasto colpito dalla storia del paziente di Sarah, aveva
continuato a
pensarci per tutta la settimana, vedeva cadere dal cielo quegli occhi
di pioggia
tra la pioggia un po’ più grigia di Londra. Si era
seduto al computer, con le
mani frementi di quando si è troppo pieni per riuscire a
scrivere davvero
qualcosa. Aveva zoppicato per la stanza, in attesa che smettesse di
piovere e
che Sarah rientrasse. Si era preparato una tazza di tè e se
ne era rovesciato
addosso almeno la metà. La pioggia non aveva intenzione di
cessare, Sarah si
sarebbe fermata in ospedale ancora per qualche ora. John
afferrò il giaccone e
scese in fretta le scale, come se la zoppia fosse scomparsa in un colpo
solo.
La
prima volta che andò a trovarlo, Sherlock non lo
guardò neppure in faccia. La
seconda volta, gli lanciò un’occhiata in tralice e
gli ordinò di prendergli il cellulare
(nella tasca dei suoi pantaloni). Dovette arrivare la sesta volta,
prima che Sherlock
gli ricordasse con occhi brillanti
e finta
svogliatezza – hai la memoria di un
colino, John Watson – della volta in cui avevano
rischiato di saltare in
aria in quella maledetta piscina – John non
ascoltò mai più Stayin
alive allo stesso modo, dopo il
suo racconto. Ognuno di essi era talmente vivido che gli sembrava di
averli
vissuti davvero. Aveva persino iniziato ad aggiungere dettagli prima
che
Sherlock stesso li menzionasse. Forse significava che era schizofrenico
anche
lui?
Alla
decima volta, John tornò a casa dimenticando il bastone
nella stanza di Sherlock,
che lo nascose e non glielo fece trovare mai più.
All’undicesima volta, il
bianco desolante del suo blog si era riempito di pagine e pagine di
casi
incredibili.
Alla
quindicesima, John si era presentato con un cliente.
«Te
l’avevo detto che il mio blog era molto più
seguito del tuo, a nessuno
interessa il tempo di coagulazione del sangue canino. Lavorerai grazie
a me»
rise John.
Sherlock
lo squadrò indispettito e ignorò il cliente, che
si guardava intorno con aria
perplessa e un po’ timorosa.
«Quelli
noiosi non li voglio più, gliel’hai detto, vero?
L’ultimo è stato atroce.
Forza, mi stupisca» e con un volteggio della vestaglia si
lasciò cadere in
poltrona.
Sarah
sorrise dallo spiraglio della porta socchiusa. Alla fine, la cura
giusta per Sherlock
l’aveva trovata davvero.
-
Sono
troppo provata per dare chiarimenti, ma se qualcosa
non vi risultasse chiaro, contattatemi pure.
Sarò felice di schiudermi al mondo.
Il
Bethlem Royal Hospital esiste davvero!
Questa
fanfiction partecipa allo Sherlothon con il prompt
“telecamere”
|