La pioggia battente imperversava
come se non ci fosse un domani, mentre i miei stivali schiaffeggiavano
l’acqua
producendo un rumoroso ciaf.
L’ombrello era pressoché inutilizzabile, viste le raffiche di vento che
mi
colpivano ogni volta svoltassi l’angolo, e conscia di essere zuppa fin
dentro
le ossa, l’avevo richiuso sbuffando, continuando poi a correre con la
mia
ventiquattr’ore sulla testa.
Della capitale inglese si poteva
dire di tutto. C’era chi provava un amore sviscerato per quei lampioni
in stile
vittoriano, chi si perdeva tra le immensità dei suoi parchi; c’era chi
addirittura preferiva percorrerla in bicicletta, assaporandone l’aria
libera
dalle polveri sottili. Io mi ero sempre schierata dalla sua parte, dal
lato
della città inglese, perché mi aveva fornito il trampolino di lancio
per
evadere da quella monotonia che era la mia vita. Adesso però, dopo
essermi
recentemente trasferita dall’Italia e dopo aver quasi finito tutti – e
dico tutti – i cambi d’abito che mi ero
portata in valigia a causa del mal tempo che non smetteva di colpire
Londra da
almeno una settimana intera, forse stavo lentamente cambiando le mie
preferenze.
M’imbucai di corsa nella stazione
di Lancaster Gate, cercando di non scivolare sul pavimento zuppo
d’acqua e mi
affannai a frugare nelle tasche del cappotto di tweed, alla ricerca
della
Oyster card per passare al tornello prima che si formasse una fila
chilometrica
dietro di me.
Purtroppo le mie tasche erano come
la borsa di Mary Poppins.
Tirai fuori le cartacce di vecchi
scontrini, il mazzo di chiavi del mio monolocale a Regent Park, persino
una
vecchia caramella appiccicaticcia, ma non c’era verso di estrarre il
portadocumenti con l’abbonamento ai mezzi pubblici. Nel frattempo
l’acqua mi
gocciolava dai capelli corti, tagliati poco prima di trasferirmi, e
rotolava
direttamente lungo la spina dorsale, accompagnata da un intenso brivido
di
freddo.
«Can
I…?»
Una voce alle mie spalle mi fece girare di scatto e, come avevo
sospettato, una
piccola fila di persone si era formata dietro l’unico tornello occupato
dalla
sottoscritta.
Imprecai mentalmente e mi scostai
di lato, non mancando di rifilare un’occhiataccia a quell’omaccione
panciuto e
impaziente. «Sorry.»
Già, sorry un corno!
Nel frattempo cercai quella
maledetta card anche nella ventiquattr’ore, che però non voleva saperne
di
aprirsi. Cominciavo a perdere davvero la pazienza. Quella mattina era
cominciata davvero male e rischiava di finire ancora peggio. Lo studio
Abbot&Abbot di Londra era situato al centro di Regent Street,
vicino
all’incrocio con Oxford Street e per raggiungerlo avrei dovuto
percorrere una
decina di fermate della Tube.
Se solo avessi trovato quella
stramaledettissima tessera…
«Eccola!»
gridai
sprizzante di gioia, tenendo tra pollice e indice l’oggetto della mia
agognata
ricerca. Ovviamente era finita nell’unico misero buchino nella fodera
del
cappotto ed era scivolata sempre più in basso, costringendo la
sottoscritta ad
improvvisarsi contorsionista del circo di Montecarlo.
Soddisfatta di aver finalmente
ripreso in mano la mia vita, afferrai la tessera e la passai sul
lettore
magnetico, facendo scattare le porte e dirigendomi verso l’ascensore.
«Wait,
please…!»
implorai, dirigendomi verso le porte che stavano per chiudersi. La mia
giornata
non poteva susseguirsi in modo peggiore di quello. Ci mancava solo che
perdessi
anche la corsa dell’ascensore e, con quella, la probabile metropolitana
che
passava ogni cinque minuti.
Una mano si frappose tra le
porte, incrociando il lettore ottico e facendole riaprire. Col fiatone
e con
ancora addosso i brividi di freddo, entrai nell’abitacolo e lasciai uno
sguardo
di ringraziamento al mio salvatore.
La mia attenzione si posò su un
ragazzo poco più grande di me, vestito di un completo gessato grigio
con il
soprabito abbinato. Il primo pensiero che mi sovvenne fu Affascinante,
ma ben presto cominciai a ricevere la visita del mio
coinquilino preferito. Il mio Cervello.
Cominciamo
bene, Ven. Sei qui da nemmeno una settimana e già metti il belloccio in
giacca
e cravatta al primo posto. Vuoi o non vuoi finire lo stage col massimo
dei
voti? Vuoi o non vuoi diventare socia dello studio?
Devo
ricordarti tutto?
Aveva perfettamente ragione, e io
stupida che ancora mi facevo condizionare da queste turbe
adolescenziali che
avrebbero solamente peggiorato la situazione. Ero arrivata a Londra
unicamente
per il master, per lavorare in uno degli studi di legge più famosi
della
capitale inglese, e non mi sarei fatta distrarre da nulla.
Strinsi saldamente il manico
della mia ventiquattr’ore e cercai di ignorare lo sguardo perforante di
quel
ragazzo che mi aveva gentilmente lasciato aperto le porte. «Thanks,» mormorai,
tentando di rimanere più normale possibile.
Non dovevo dare alcun segno
d’interesse, altrimenti avrebbe avuto via libera per provarci con la
sottoscritta. In quella grande città dovevo avere cent’occhi, mica uno.
Una
bella ragazza come me non passava di certo inosservata.
Ma
soprattutto una ragazza con un Gran Cervello.
Hai detto bene.
Il ragazzo in giacca e cravatta
mi fissò con quei suoi grandi occhi azzurri e per un attimo mi sentii
profondamente a disagio. In effetti, era da parecchio tempo che non mi
concedevo un’uscita con qualcuno che non fosse Robbeo il mangia-caccole
o
quell’altro decerebrato del fidanzato di Cel. Avevano provato più volte
ad
appiopparmi qualcuno, ma Venera Donati era di gusti difficili – anzi,
impossibili! – e per accontentarmi non bastava certo un bel visino o un
paio di
occhi azzurri come quelli del ragazzo di fronte a me.
In risposta al mio ‘Grazie’, lui
mi sorrise, poi le porte dell’ascensore si spalancarono dopo un dlin-dlon e il fiume di gente si riversò
nei cunicoli che conducevano alla banchina dove sarebbe passata la Red
Line di
lì a pochi minuti. Cercai di uscire senza essere spintonata troppo, ma
con
sollievo sapevo che la cavalleria inglese non era solo una diceria. Al
contrario di Roma, dove i ragazzi più erano vecchi e più ti avrebbero
schiacciato con i loro stivali firmati pur di accaparrarsi il posto
sulla scala
mobile, a Londra si offrivano anche di cederti quello a sedere.
Ero rimasta sorpresa appena
arrivata, ma adesso ci stavo pian piano facendo l’abitudine.
Please mind the
doors. Doors closing.
La voce metallica di una donna
avvertì la chiusura delle porte automatiche della Tube, così mi
affrettai a
salire sul vagone senza accorgermi che la Oyster mi era scivolata dalla
tasca
del cappotto di tweed. Me ne resi conto solo quando le porte si stavano
chiudendo e fui presa dal panico. La tessera andava passata sia
all’entrata che
all’uscita dei tornelli, e se me la fossi persa sarei rimasta bloccata
nella
Tube a discutere per ore con gli addetti della vigilanza.
Sarei sicuramente arrivata in
ritardo al mio appuntamento.
Allo stesso tempo, però, se fossi
riuscita a uscire dal vagone per raccogliere la tessera, avrei perso la
corsa e
sarei comunque arrivata tardi. Rimasi totalmente imbambolata a fissare
la
banchina inumidita dalla pioggia che i passanti si erano trascinati
dalla
strada quando, con un movimento agile e veloce, vidi il ragazzo in
giacca e
cravatta raccogliere il portadocumenti ed entrare nel vagone prima che
le porte
si chiudessero.
Mi si avvicinò trionfante e mi
porse l’astuccio con la Oyster dentro.
«Thanks,
again,»
dissi imbarazzata, visto che era la seconda volta che mi salvava dalla
mia
perenne sfortuna che sembrava perseguitarmi sin da quando ero atterrata
a
Londra.
Il ragazzo mi sorrise ed io
ricambiai il gesto, ricordandomi sempre di non dare troppa confidenza
perché
avevo un obiettivo ben chiaro in mente e non potevo permettermi alcuna
distrazione. Afferrai il portadocumenti e lo misi in tasca, anche se
subito
dopo preferii riporlo nella ventiquattr’ore visto lo spiacevole
incidente di
prima. Mi sentivo lievemente osservata dal ragazzo che si era
improvvisato mio
cavaliere per ben due volte, poi quando vidi che si era liberato un
posto a
sedere, preferii tirare fuori la mia copia di Mucchio
d’ossa e continuare a leggere dal capitolo dodici.
Nonostante tentassi di tenere il
segno con un dito, di tanto in tanto il mio sguardo vagava su quel
misterioso
ragazzo di poche parole. Era vestito molto elegante, questo valeva una
decina
di punti da parte della sottoscritta. Dopo aver passato l’intera
adolescenza
tra pantaloni a bracaloni, mutande di fuori, magliette talmente larghe
e
sbrindellate che avrebbero potuto improvvisare un tendone da circo, ero
diventata amante del buon vestire.
Notai che preferiva portare un
po’ di barba incolta, il che non guastava. Mi sentii notevolmente in
sintonia
con quel tipo, almeno apparentemente incarnava proprio il mio uomo
ideale.
Devo
forse ricordarti cosa siamo venuti a fare?
No! Aveva ragione il mio Cervello
ed io dovevo dargli retta. Il tempo per l’altro sesso lo avrei trovato
in
seguito, ora avrei dovuto pensare solamente alla mia carriera perché
era quello
che desideravo più al mondo. La famiglia, come tutto il resto, sarebbe
venuta
in seguito.
Next
Stop: Oxford Circus. Annunciò
la voce metallica
dell’alto parlante, così riposi il libro nella valigetta e mi apprestai
ad
uscire.
Il misterioso ragazzo sembrò non
fare caso alla mia presenza, così fissai lo sguardo sulle luci del
tunnel che
sferzavano a gran velocità davanti ai miei occhi. Avrei dovuto
impegnare tutta
me stessa per far bella figura in ufficio. Avevo ideato già un piano,
un
modello di comportamento che sicuramente mi avrebbe fatta spiccare nel
mezzo
della infinita bolgia che c’era allo studio.
Per il tirocinio alla
Abbot&Abbot eravamo stati assunti in cinque, e i miei quattro
‘adorati’
compagni tirocinanti non facevano altro che trasformare ogni mia
giornata allo
studio più infernale di quelle precedenti.
C’era in particolare una ragazza
giapponese, Yuki, che ogni volta che mi vedeva, tentava sempre di
mettermi i
bastoni tra le ruote, non solo metaforicamente. Era Miss Perfezione, la
maledetta, e il mio primo giorno di tirocinio mi aveva fatto lo
sgambetto
davanti a tutti ed io avevo finito col rovesciare il caffè sulla giacca
del
tailleur.
Una bastarda maledetta, ecco
cos’era.
L’unica mia vera rivale, perché
gli altri tre ragazzi erano più che altro figli di papà di Cambridge
che
passavano la maggior parte del tempo a fumare nei bagni e cazzeggiare
con la
macchina fotocopiatrice. Alla fine del tirocinio, lo studio avrebbe
offerto a
uno di noi il posto fisso come avvocato ed era una di quelle occasioni
che
capitano una volta nella vita.
La metro si fermò alla fermata di
Oxford Circus, mentre le porte scorrevoli si aprivano con una lentezza
disarmante. Strinsi la valigetta e posai il piede sulla banchina umida
di
pioggia per poi dirigermi ai tornelli e uscire finalmente in strada.
Prima di abbandonare il vagone,
però, non riuscii a fare a meno di lanciare un’ultima occhiata al
ragazzo in
giacca e cravatta. Mi guardava.
Tentai di rimanere impassibile,
nonostante mi avesse palesemente beccata a fissarlo, e mi diressi verso
l’uscita, preparandomi psicologicamente all’umidità che avrei trovato
una volta
all’aperto. Fortunatamente lo studio si trovava nelle vicinanze, quindi
non
avrei dovuto bagnarmi più di quanto non lo fossi già.
Passai la Oyster sul lettore
elettrico, dopodiché mi appropinquai a salire le scale che davano sulla
piazza.
Numerose persone mi sfilavano di fianco, precedendomi nella camminata,
ed io
maledissi mentalmente le mie gambe corte e il mio scarso metro e
sessanta.
Avere origini siciliane non
contribuiva certo alla fretta con cui si procedeva lì in città.
Una volta fuori dalla Tube,
respirai l’aria pungente di quella giornata ottobrina e piovosa.
Fortunatamente
l’acquazzone si era acquietato, lasciando il posto ad una lieve
pioggerellina.
Mi guardai intorno e riconobbi immediatamente Regent Street, con i suoi
grandi
e lussuosi negozi, così mi immisi nella strada principale alla ricerca
della
sede della Abbot&Abbot.
Il mio passo era spedito
sull’asfalto, nonostante gli stivali col tronchetto mi dessero
leggermente
fastidio. Non ero abituata a vestire in modo così elegante, ero sempre
stata
una ragazza da ‘tuta e scarpe da ginnastica’, invece mi ero ritrovata
ad
indossare completi per andare in ufficio, vista la concorrenza spietata
che
girava tra i tirocinanti.
Non lo avrei ammesso davanti a
nessuno ma, ahimè, l’aspetto contava molto per il mondo del lavoro.
Passai davanti alla vetrina di Burberry e mi specchiai nel riflesso,
rimanendo incantata a fissare un trench piuttosto elegante che avrei
volentieri
indossato. Peccato che costasse quanto l’affitto del mio monolocale.
Sconfitta,
tornai a camminare in direzione dello studio, ma mi accorsi di essere
seguita.
Inizialmente feci finta di nulla,
continuando a passeggiare impassibile e stringendo la valigetta
nervosamente,
poi tentai di guardarmi alle spalle.
Con la coda dell’occhio riuscii
ad intravedere il ragazzo in giacca e cravatta. Che diavolo voleva da
me?
Calma
Ven, non lasciarti prendere dal panico. Non ti si addice.
Diedi ascolto al mio caro
Cervello e proseguii senza dare alcun segno di preoccupazione. Regent
Street
era una delle strade più famose e affollate di Londra, era normale che
venisse
percorsa da un infinito numero di persone.
Non dovevo affatto preoccuparmi,
visto che quel tipo non mi aveva minimamente rivolto la parola
nonostante mi
avesse aiutato per ben due volte.
Anzi, era pure un gran maleducato!
Ripassai mentalmente la strategia
da adottare contro Yuki, visto che quella ragazza sarebbe passata
addirittura
sopra a suo padre pur di scavalcarmi nella corsa al posto fisso, e
ignorai il
barbuto dietro di me.
“Che poi non è nemmeno tutta ‘sta
bellezza,” mi ritrovai a pensare, accavallando il caso di Thomas
Crawford agli
occhi blu dello sconosciuto della metro. Era impossibile riuscire a
pensare
lucidamente con tutti quei pensieri che mi vorticavano nella testa, ma
per
fortuna ero quasi giunta a destinazione.
Imboccai una traversa di Great
Castle Street e mi diressi verso un appartamento signorile dove aveva
sede lo
studio. Mi sistemai il soprabito di tweed, sentendolo ancora umido
della
pioggia di quella stessa mattina, poi ravvivai un po’ i capelli a
caschetto e
mi decisi ad entrare.
Prima di varcare la soglia, però,
lanciai un’occhiata in direzione di Regent Street e per poco non ebbi
un
attacco cardiaco quando vidi il ragazzo in giacca e cravatta
sorridermi, mentre
si avvicinava con passo deciso.
Okay, quella non era
affatto una coincidenza.
Ignorai palesemente quel gesto
amichevole che mi aveva rivolto e mi fiondai di corsa all’interno dello
studio,
sperando vivamente che non mi seguisse fin lì.
«Sei
arrivata, finalmente.»
La voce fastidiosamente acuta di Yuki
mi sorprese non appena misi un piede all’interno del suo territorio.
Era la
persona più odiosa che conoscessi, persino peggio della fidanzata del
mangia-caccole.
Era incredibile come quell’ameba
di Romeo Ciuccio, incubo della mia vita sin dall’età di dodici anni,
fosse
riuscito a, punto primo, sopravvivere tutti questi anni, punto secondo,
a
trovarsi uno schianto di ragazza che nemmeno i suoi sogni più arditi
avrebbero
potuto partorire.
Devo
ricordarti il QI di Annalisa?
A tutto c’era una spiegazione, in
fin dei conti.
«È
piovuto tutto il giorno, ho trovato dei rallentamenti nella Tube,» le
dissi,
anche se non avevo alcuna ragione di darle delle spiegazioni.
Un suo sopracciglio alzato fu
sufficiente a farmi capire che non gliene poteva importare nulla.
Certo, ero
l’unica dei tirocinanti che si serviva dei mezzi pubblici per andare a
lavoro.
Tentai di ignorarla e di
concentrarmi sul vero motivo per cui mi ero fiondata all’interno della
palazzina neanche fossi inseguita da un’orda di cani randagi. Mi voltai
appena
e attraverso la porta a vetri riuscii a scorgerlo mentre saliva gli
scalini
dell’ingresso.
Oddio, ma che voleva?
Possibile che mi avesse inseguita
fin lì solo per chiedermi di uscire? Che si fosse fatto tutta quella
strada per
un misero appuntamento?
«Chi
è quello?»
se ne uscì Yuki, fissando fuori dalla porta. «È
carino.»
«Non
farlo entrare!»
la avvertii, ma non sapevo se mi avrebbe dato retta.
Nel frattempo mi tolsi il
soprabito di tweed e lo misi sull’appendiabiti, lisciando le pieghe
della gonna
e sistemandomi meglio. Un fuggevole sguardo allo specchio mi diede la
conferma
che somigliavo ad un pulcino caduto in un pozzo, ma ebbi l’accortezza
di
aggiustarmi il mascara colato sotto gli occhi.
“Ma quindi lui mi ha vista in
questo stato pietoso?” realizzai in ultimo, sentendomi davvero una
sciocca.
«Miss
Donati, buongiorno.»
La voce di Mr. Abbot, nonché uno
dei due fratelli proprietari dello studio legale più importante di
Londra, mi
si presentò davanti con il suo solito charm e il completo impeccabile
color
grigio chiaro. Quell’uomo incarnava tutto ciò che avrei voluto essere,
tranne
il sesso ovviamente. Era bello, affascinante, un avvocato di successo e
una
persona di buone maniere e gentile.
«Buona
giornata a lei, Mr. Abbot,»
risposi, lisciandomi i capelli che ancora non ne volevano sapere di
stare in
piega.
«Ha
trovato difficoltà a venire allo studio, stamane?» mi
domandò sempre gentile e
premuroso.
Stavo per rispondere con
altrettanta cordialità, quando con la coda dell’occhio vidi Yuki che
aveva
fatto entrare lo sconosciuto in giacca e cravatta.
Maledetta! Lo aveva fatto apposta
ed io me lo sarei dovuto aspettare da una persona infima come quella.
Stai
calma, Ven. Ancora non sai cosa quel tipo vuole da te.
E se mi chiedesse il numero di
telefono davanti al mio capo? No, sarebbe l’umiliazione peggiore della
mia vita
e mi giocherei il posto fisso allo studio.
Non poteva accadere. Ero andata
via di casa con l’unico scopo di lavorare alla Abbot&Abbot e cinque
anni di
sacrifici, più un master in Diritto penale comparato non potevano
essere
gettati al vento.
«Ehm…
no…»
temporeggiai, per poi incrociare lo sguardo del ragazzo-stalker che
sembrava
non avere alcuna intenzione di lasciarmi in pace.
Come una furia, mi precipitai
verso di lui a passo sostenuto, prima che potesse avvicinarmi e
screditarmi
davanti a tutti gli altri miei colleghi. Forse apparii un po’ scortese
agli
occhi di Mr. Abbot, ma dovevo salvarmi il cosiddetto posteriore e
mettere fine
a quella farsa che era cominciata quella stessa mattina.
Il tipo mi fissò sorpreso, ma non
ebbe il tempo di dire nulla che gli afferrai il braccio e feci per
condurlo
fuori dalla porta, senza la minima gentilezza. Se voleva il mio numero
di
telefono, non c’era alcun bisogno di chiederlo davanti al mio capo.
«Che
fai?»
chiese lui, sbigottito.
«Te
ne devi andare, ora,»
tuonai, sperando che Mr. Abbott non avesse visto la mia poca mancanza
di
professionalità. «È
uno studio privato, non puoi fare così.»
«Così,
come?»
domandò divertito.
Ah, se la rideva anche!
«Ho
capito cosa vuoi, ne discutiamo fuori di qui!»
«Hai
qualcosa da nascondere, Spaghetti-Girl?»
s’intromise anche la giapponese
bastarda.
Le mimai un ‘Taci’ che avrei
volentieri accompagnato con qualche bella espressione colorita che
avevo
imparato recentemente da quel troglodita calciatore fidanzato della mia
migliore amica. Leonardo Sogno: un nome, un programma.
Purtroppo Mr. Abbott era rimasto
a fissarmi incredulo, mentre si chiedeva quale razza di svitata aveva
assunto
per il suo tirocinio. Nel frattempo il ragazzo-stalker non la finiva di
ostentare un sorriso sfacciato che non faceva altro che farmi saltare i
nervi
più del dovuto.
Gentilmente tolse la mia mano
dalla sua giacca firmata e lisciò la porzione che avevo sgualcito col
fervore
delle mie azioni spropositate di poco prima.
«Zio
Henry,»
disse poi, rivolgendosi all’uomo alle mie spalle.
Sbiancai in trentatré secondi
netti, elaborando solo troppo tardi le evidenti somiglianze tra il
giovane che
mi perseguitava e il proprietario di tutta la baracca. Yuki sogghignava
sotto i
folti baffi che pensava di aver tolto dall’estetista, mentre io non
avevo
nemmeno il coraggio di voltarmi.
Sapevo che un fired!
urlato da Mr. Abbott non me lo
avrebbe tolto nessuno. Ero rovinata.
Soltanto
tu potevi scambiare il nipote del tuo capo per uno stalker!
Oh, non ti ci mettere anche tu
adesso!
«James!»
sorrise
l’uomo, andando in contro al ragazzo e abbracciandolo con calore. «Ti
aspettavo
per questo pomeriggio.»
«Sì,
ho fatto prima,»
si giustificò. «Il
treno da Canterbury è passato stranamente in orario.»
Cercai distintamente di
mimetizzarmi con la tappezzeria dell’ingresso, ma lo sguardo azzurro
brillante
di Mr. Abbott mi immobilizzò sul posto.
«Conosci
già una delle nostre tirocinanti?» disse al nipote, indicandomi.
Quel tale di nome James si
allargò in un sorriso sincero. «Ho
avuto questo onore.»
Lo zio rimase molto perplesso, ma
non ci fece caso. Se avessi saputo che il ragazzo era niente poco di
meno che
il nipote del mio capo, avrei tentato di tutto per non fare un’infinità
di
figure di merda davanti a lui.
«È
una ragazza brillante, una promessa. È italiana, sai?» e
tentai di
non arrossire dopo tutti i complimenti che Mr. Abbott stava elargendo,
facendo
diventare Yuki livida di rabbia.
«L’ho
capito dal suo accento, anche se ha una pronuncia quasi impeccabile,»
sorrise il
tipo.
«Bene,
bene,»
disse compiaciuto il vecchio avvocato. «Spero
proprio che andiate
d’accordo, anche perché non è escluso che vi faccia collaborare d’ora
in poi.»
«Zio,
non sono arrivato allo studio nemmeno da un giorno e già vuoi
sobbarcarmi di
lavoro?»
ridacchiò il ragazzo, trascinandomi in una risata finta come una
banconota da 3
sterline.
Il vecchio Abbott sorrise. «A dire
il
vero, mi è capitato un caso interessante tra le mani di recente e
vorrei proprio
vedere come ve la cavate,»
propose ed io continuai ad ascoltarlo.
Dentro di me non potevo che
gioire come una bambina al parco giochi, mentre Yuki si contorceva le
budella
dalla rabbia. Avevo rischiato il licenziamento, questo dovevo
ammetterlo, ma in
compenso ora potevo addirittura occuparmi di un caso vero e proprio,
anche se
avrei dovuto dividerlo con il bellimbusto.
«Beh,
non voglio stare qui ad annoiarvi. Torno in ufficio, ne parleremo
meglio quando
si presenterà l’occasione. Buona giornata e buon lavoro.» Così
Mr.
Abbott si congedò e mi lasciò da sola a specchiarmi nelle iridi
azzurrine di
quello strano ragazzo che avevo incontrato per caso quella mattina
sulla Tube.
La mano del destino alle volte
aveva un modo davvero curioso di agire, di muovere dei fili e di
tirarne degli
altri.
«Non
mi sono ancora presentato a dovere,» disse lui, sorprendendomi. «Piacere,
James
Abbott. Per gli amici Jamie.»
Gli strinsi la mano con
decisione, dopotutto si trattava pur sempre di un collega. Certo, il
suo
sorriso e quel suo sguardo erano disarmanti, ma io ero una
professionista, non
più una ragazzina alla sua prima cotta. Ero impassibile come un blocco
di
ghiaccio.
«Piacere
mio. Vènera.» sospirai,
marcando l’accento sulla prima ‘e’ del mio insolito nome.
Jamie, come da copione, spalancò
gli occhi dalla sorpresa nel sentire la particolarità del mio nome di
battesimo
ed io pensai subito che scoppiasse a ridermi in faccia.
Non sarebbe stata la prima volta,
dopo tutto.
Invece mi sorprese. «Bel
nome, mi
piacciono quelli particolari,»
sorrise. «Sento
già che sarà un piacere lavorare con te. Sei un tipetto niente male,
suppongo.»
Avrei voluto rispondergli per le
rime, ma dovevo mantenere un certo contegno. Ormai ero un avvocato e
non
sarebbe stato professionale perdere le staffe.
«Spero
che tu sia bravo a parole tanto quanto ad attaccarti ai cavilli
procedurali,
altrimenti dovrò sobbarcarmi tutto il lavoro,»
sghignazzai, sentendo di aver
fatto centro. «Ora
scusami, ma devo lavorare.»
Dopodiché mi avviai alla
scrivania sentendo gli occhi di Jamie incollati alla schiena. Sorrisi
dentro di
me e pensai che dopo tutto la giornata non era iniziata poi tanto male.
***
Eccomi qui con una nuova originale (che
pizza! ndr. i lettori)
Questa storia mi frullava da tempo in testa, precisamente da quando è
entrato il personaggio di Venera nella originale a 4 mani Come in un
Sogno. Diciamo che l'ho inquadrata subito, e che mi sarebbe piaciuto
molto fare uno spin-off su di lei perché è determinata ed adoro il suo
carattere. Come ho detto nella presentazione, non è affatto necessario
aver letto CIUS per capire di cosa si parla, perché si svolge in un
futuro ben lontano.
Beh, questo prologo introduttivo ci presenta il carattere della
protagonista, che è molto determinata e ci consente di dare uno sguardo
anche alla sua vita lavorativa nella capitale inglese e ci presenta
alcuni suoi colleghi.
Uno in particolare.
Ovviamente questo personaggio è ispirato ad una persona reale, cioè la
mia Wife, nonché beta, nonché tuttofare. I love u! Ovviamente il
capitolo è dedicato anche alle altre mie Crudelie, che mi supportano
sempre. Vi lovvo girls!
Spero proprio che vi susciti almeno un po' di curiosità. Ci rileggiamo
al prossimo capitolo :33
Kiss, Marty
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