Raggio di Sole

di Blue Drake
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Capitolo 35

3 marzo 1965 – TILLYMORGAN Aberdeenshire - "Nelle mani di un dio perverso"

 

 

Accadde tutto una mattina. Una normalissima, fresca mattina di quasi primavera.

Dormivo, beato, su di un altro comodo letto che avevo costretto con la forza Derek a cercare, sulla nostra solita strada senza meta. Si stava infinitamente bene, quel giorno. Ricordo che, persino il tenue bruciore alla schiena, era scomparso. Sognavo ruscelli freschi e lavanda profumata.

Un istante prima, la mia mente era immersa in quel dolce e speziato profumo. L'istante successivo sbarravo gli occhi, sconvolto e mezzo - per non dire completamente - nudo, sotto lo sguardo canzonatorio di alcuni uomini, armati di pistole automatiche.

 

 

Nella confusione che infuriava, sia nella mia testa che nel mondo reale, osservai, con la coda dell'occhio, il mio compagno di viaggio. Il suo corpo era teso, vibrava leggermente. Nonostante la situazione fosse palesemente a nostro sfavore, riuscivo a percepire chiaramente il suo istinto che premeva, per liberarsi da invisibili catene imposte e fare qualcosa, qualunque cosa, pur di uscire da quel pasticcio colossale.

La verità è che non c'era assolutamente nulla che, né lui né io, potessimo fare. La verità è che eravamo spacciati, e questo lo sapeva Derek così come lo sapevo io. Ci avevano appena ritrovati. Non ho idea di come, ma erano lì, di fronte a noi, ed avevano delle espressioni che non promettevano nulla di buono. Molto probabilmente, non ci avrebbero pensato su due volte a liberarsi di noi, se solo gliene avessimo fornito un qualsiasi pretesto.

 

 

Non dissi una sola parola. Venimmo trascinati giù dal letto, invitati - poco gentilmente - a rivestirci, e nuovamente trascinati, questa volta fuori, ed al volo - letteralmente - dentro un paio di furgoni. Avrei voluto, almeno, potermi fare tutto il percorso fino a Londra assieme a lui. Ma quella gente era sempre molto previdente ed accorta. Ci separò, per evitare possibili complicazioni.

Che ci crediate o meno, mi scoprii, d'un tratto, ad essere in pensiero per lui. Non facevo che domandarmi se gli avrebbero fatto del male. Il fatto che fosse ferito e nelle mani di gente con poca cura per la salute del prossimo, non contribuiva certamente a rassicurarmi.

Il tragitto fu angosciosamente lungo, scomodo e sconfortante. Una vera agonia. Captavo, qua e là, i discorsi strampalati e poco rispettosi degli uomini che ci avevano prelevato. Un pensiero, amaro, si fissò nella mia testa: ero nuovamente alla mercé di gente che mi disprezzava. Perfino i faticosi ed estenuanti giorni, passati su strade sconosciute e senza troppe comodità, ora sembravano simili ad un'oasi di pace, in confronto allo stare rinchiuso in compagnia di gente che si prendeva gioco di me, insultandomi più o meno apertamente. Come se loro, e ciò che facevano ogni giorno, fossero invece rispettabili e degni di lode. Certo: loro distruggevano i sogni, i progetti, la vita delle persone. Ma erano scusati, perché lavoravano per una causa giusta. Ma giusta per chi? Non per Peter. Lui, di certo, di tutti questi "nobili" progetti, poteva benissimo farne a meno. Avrebbe continuato a vivere la sua vita, tra alti e bassi, ma pur sempre di vita si trattava. Invece era stata distrutta, troppo presto, come probabilmente quella di decine, centinaia, forse addirittura migliaia di altri uomini e donne. E perché, poi? Perché tutto questo? Tutt'ora non sono riuscito a trovare una risposta a questa domanda. Solo mille altre domande, senza soluzione.

 

 

Finii, come prevedibile, nell'ennesima camera chiusa a chiave. Stavolta però, forse per timore che me la svignassi di nuovo, me ne avevano assegnata una con le sbarre alle finestre - ALLA finestra: una sola, ed anche piccoletta -

Non mi aspettavo nulla di buono da quel soggiorno forzato. Ed infatti, le mie aspettative si rivelarono fin troppo esatte. A parte il fatto che ero certo mi avrebbero trascinato fuori, da un momento all'altro, per qualche inutile interrogatorio, con il solo ed unico scopo di divertirsi con me. Invece, ancora una volta, mi sorpresero, inviandomi direttamente un paio di loro fidati uomini: servizio in camera! Che gente deliziosamente gentile e premurosa.

 

 

Due, tre, forse quattro giorni più tardi - ho perso il conto dopo le prime trentasei ore - quando mi era ormai chiaro che mai, in nessun modo, sarei uscito da quel posto - non vivo, per lo meno - mi capitò di ricevere un'ulteriore visita.

La ignorai, come avevo già ignorato le cinque o sei precedenti. Questa volta però non si trattava degli "ottimi" soldatini omofobi dell'Agenzia, ma di qualcuno che non riconobbi - o non volli riconoscere - immediatamente.

Si avvicinò, silenziosamente, alla scomoda brandina sulla quale stavo raggomitolato, con gli occhi persi nel piccolo scorcio di paesaggio esterno. Solo quando le mie orecchie ne percepirono il timbro vocale, mi irrigidii, appallottolandomi ancora più strettamente.

«Jules...»

No. Non dovevo ascoltare. Non VOLEVO ascoltare. Doveva essere un'altra, stupidissima illusione. Non poteva essere vero.

Un'ombra si mosse, fermandosi al mio fianco. Mi sentii osservato. Rabbrividii, a quel contatto indesiderato, e cercai di nascondere il volto fra le braccia, illudendomi di scomparire, come uno struzzo.

«Jules... Che cosa ti hanno fatto?»

Di nuovo. Quella maledetta voce, insistente, non voleva proprio darmi pace. Tentai di scacciarla, girandomi verso il muro e cercando di ignorarla. Ma quella non si diede affatto per vinta.

«Hey...»

Mi sentii sfiorare un braccio e trasalii, tremando come una foglia. Nonostante avessi tentato di opporre resistenza, fui costretto, da una forza esterna, a risollevare la testa.

Il mio sguardo, stravolto, incrociò il suo. I suoi occhi erano ancora trasparenti, esattamente come li ricordavo. Mi ritrassi bruscamente, come scottato dal suo leggero tocco. Lui mi guardò con tristezza e, forse, rabbia.

Era arrabbiato con me? Perché? Che cosa potevo aver fatto, stavolta, per farlo arrabbiare? Non lo ricordavo. Non ricordavo proprio nulla, a dire il vero...

 





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