Just a perfect man
Mi svegliai battendo i denti per il freddo.
Mi strinsi nelle spalle, cercai la fonte degli spifferi che mi
investivano mentre rabbrividivo come un pulcino intirizzito.
Mi sembrò tutto gelido e inospitale, troppo silenzioso e
cercai di riconoscere l’appartamento in cui mi ero traferito
appena cinque giorni prima.
Accanto a me il piumino era attorcigliato su sé stesso, mi
lasciava il fianco scoperto e il matrimoniale era vuoto, di lui
rimaneva solo un’impronta sul cuscino freddo.
Mi assalì la malinconia e sospirai stancamente,
puntellandomi con i gomiti, lottai contro la pigrizia per alzarmi in
piedi.
Mi fermai ad osservare la porta della stanza, stretta
d’assedio fra la vecchia libreria in legno
massiccio e un ancor più vetusto baule su cui stava posata
una valigia di vestiti.
Era piuttosto buffo il fatto che, dovendo condividere
l’appartamento con Sebastian, non avessimo ancora concordato
una sistemazione decente per i miei abiti e gli effetti personali.
Mi aspettavano ancora cinque mesi lì e poi chissà.
Non sapevo se avrei trovato lavoro o se me ne sarei tornato nella
campagna dello Yorkshire.
Scacciai quei pensieri, volevo solo alzarmi e prepararmi un
caffè forte per ricominciare un’altra giornata
nella capitale; sicuramente Sebastian mi aveva lasciato i
piatti nel lavello, come promesso.
Il mio coinquilino aveva invitato a cena cinque o sei tizi
semisconosciuti, incontrati qualche ora prima in un bar per un
aperitivo a base di birra o gin and tonic.
Avrei passato la mattinata a rimettere a posto e a fare il lavapiatti
come nei ristoranti all’ultimo grido.
Sbirciai ancora una volta il letto vuoto e pensai al ragazzino che
avevo incrociato in quel disco-pub, due vicoli
più avanti, nel bailam di Brixton.
Doveva essersene andato prima che mi svegliassi.
Ripensai con imbarazzo a quando, appena entrato nel locale, lo avevo
visto insieme ad un suo amico, un tizio che gesticolava e parlava in
maniera logorroica, un tantino troppo effeminato per i miei gusti.
Per almeno un’ora non avevo fatto altro che cercarlo con lo
sguardo, con un moto involontario, e alla fine ci eravamo ritrovati al
bancone.
Volevo semplicemente una birra da sorseggiare e poi contavo di tornare
a casa; avevo perso di vista il mio gruppo ed ero stanco.
Lui era scivolato lì, accanto a me, si era appoggiato ad uno
degli alti sgabelli, comparso dal nulla e silenzioso come una pantera.
Mi chiese da dove venivo, dove andavo e, con una risatina che mi fece
arrossire e irritare, se sapevo dove mi trovavo. Infastidito,
gli risposi che lo sapevo perfettamente e che ero venuto con amici.
Quando mi rivelò che era un locale gay ammutolii
imbarazzato.
Maledissi i miei amici per le loro stupide trovate, pensai che il
ragazzino volesse attaccare bottone con me e sperava che ci stessi.
Borbottai scocciato che non ero gay e che, quando ero entrato, non lo
sapevo.
“Lo so, tesorino, ce lo hai scritto in faccia.”
fu la sua risposta laconica e affettata. Aveva una voce annoiata, quasi
petulante, languida.
Si fece offrire da bere e bevvi anch’io. Dopo aver buttato
giù un’altra pinta, già brillo, feci
per andare in bagno e lui mi seguì.
Ricordo che lo strinsi contro le piastrelle nere del bagno,
sudice, e osservai quegli occhi verdi e brillanti, da strega,
che ghignavano, e in fondo a quelle pupille ardeva una luce strana:
trionfo, di chi sa di aver vinto il gioco.
Si appiattì contro il muro, lentamente mi si
strusciò contro, come un soriano si abbarbica alla gamba del
padrone, suadente.
Realizzai a stento che era la mia prima volta con un uomo,
forse avrei voluto sentire paura, inquietudine ma quello che mi
spaventava era invece il desiderio che brillava nei miei occhi, che
vedevo riflessi nei suoi come in due specchi d’acqua.
Mi sentii rabbrividire quando lentamente il suo dito percorse il mio
collo e scivolò sul petto.
Ripassò più volte quasi mi invitasse ad abituarmi
al suo tocco mentre la sua espressione era mutata, più
rassicurante, intima e quasi innocente, se è possibile.
“N-non
posso….pagarti…io…”
Mi sentii mormorare e lui mi riservò un’altra
risatina, stavolta quasi comprensiva, mentre dolcemente lasciava
scivolare il suo ginocchio fra le mie gambe semi aperte.
Accusai il colpo, mi irrigidii e con impeto lo schiacciai di nuovo
contro il muro, strofinando il bacino contro il suo. Cercai le sue
labbra e le trovai appiccicose; sapevano di ciliegia, rosse
come la ciliegia.
Lui rispose accarezzandomi il palato con la sua lingua, morbida e
scivolosa.
Non volli rimanere lì, quel posto era fetido e
c’era un gran traffico di uomini, coppie che limonavano o
semplici malcapitati che cercavano una cabina bagno libera, senza
speranza.
Lo portai nell’unico posto che ritenevo sicuro: casa mia.
Fui doppiamente in imbarazzo quando mi accorsi di non avere
preservativi e non ricordavo ce ne fossero nel bagaglio. Lui,
con naturalezza, aveva allungato una mano per afferrare il jeans, mezzo
rivoltato, che giaceva per terra, e ne aveva cacciato fuori
uno dalla tasca.
Mi informò poi, candidamente, che ne aveva altri tre, se ne
avevo bisogno e io distolsi lo sguardo come un ragazzino beccato dalla
madre a leggere playboy sotto il letto a lume di torcia.
Lo avevo scopato sul letto, il mio primo uomo.
A ripensarci mi sentii quasi a disagio e rimasi a fissare il soffitto
per un po’, in trance, cercando di cancellare il sapore di
notte che mi inaridiva la bocca.
Poi mi alzai, recuperai i boxer e i pantaloni a rigoni del mio
pigiama. Rovistai nella valigia alla ricerca di una maglietta
pulita e ricordai a me stesso, a mezza voce, di passare in lavanderia.
Improvvisamente sentii la porta del bagno che si apriva con un
familiare cigolio e mi girai istintivamente, stupito e quasi allarmato.
Vidi apparire lui, quello della sera prima, con addosso solo i suoi
jeans a vita alta, sbottonati e con la zip aperta, che gli cadevano
addosso, troppo larghi.
Sembrava che le sue forme fossero troppo minute per riempire il rude
modello da uomo della Levi’s.
In mano stringeva un tubetto di lucido con cui si era ritoccato le
labbra, rosse e piene come ciliegie.
Mi dava le spalle e così ne approfittai per osservarlo
meglio, per ricordare quel corpo che avevo palpato, con cui
però ora non sentivo nessuna familiarità.
Era basso, me lo ricordavo, per far coincidere i nostri bacini avevo
dovuto abbassarmi, ed era sottile di vita e di fianchi, come una donna,
cosa che mi aveva messo molto a mio agio. In realtà la sua
magrezza mi aveva quasi preoccupato, e, in qualche raro momento di
lucidità avevo temuto di schiacciarlo troppo, di fargli
male. Non mi era sfuggito il suo gemito di dolore quando gli ero
affondato dentro e mi aveva stretto i polsi con violenza, come se
volesse trattenere la mia irruenza.
Sul momento non avevo capito, mi ero risentito di questo suo atto di
ribellione e, con un ringhio, avevo continuato a spingere,
strappandogli un grido di dolore.
Intravidi sulle sue labbra i tagli dei morsi che si era procurato
allora e, istintivamente, mi accarezzai i dorsi delle mani in cui lui
aveva piantato le sue piccole unghie laccate di nero.
Seguii i suoi passi fino al vistoso impermeabile argentato che aveva
abbandonato su una sedia dal cui tirò fuori un pacchetto di
sigarette; in quel momento vidi le sue scapole sporgenti avvicinarsi,
la colonna vertebrale, a fior di pelle, incurvarsi e il suo
fondoschiena fare mostra di sé.
In quel momento pensai che non aveva molto delle dolci curve di una
donna, aveva tratti spigolosi, forse le fattezze di una modella brutta,
dalle guance scavate, le ginocchia secche, sui trentotto chili.
Cos’era allora che mi aveva affascinato la sera prima?
Non seppi spiegarmelo e mentre ci provavo lui finalmente si
girò verso di me e mi squadrò dall’alto
in basso, per quanto gli consentiva la sua piccola altezza.
Mi gelò e, per un attimo, rimpiansi di non aver finto di
dormire e di non aver aspettato che se ne andasse di casa indisturbato.
Poi il suo volto si raddolcì, come rassicurato, e con un
gesto fluido e sicuro, a modo suo elegante, sfilò fuori una
sigaretta dal pacchetto abbandonandolo sul tavolino, vuoto.
Soffiò e la accese, ispirando a fondo una prima boccata.
Avrei voluto chiedergli di uscire, ho sempre odiato il fumo, fin da
quando ero bambino;
fuggivo mio padre e il suo alito puzzolente, quando tornava dalla
campagna dove lavorava e, in una sera, consumava un intero pacchetto di
sigarette, a volte anche due. Era un uomo nervoso mio padre,
insoddisfatto, non del suo lavoro o della sua famiglia, di qualcosa, e
né io né la mamma riuscimmo a scoprirne il
perché.
Di sera, dopo cena, si chiudeva in un mutismo fatto di lunghi sospiri e
profonde boccate di fumo e teneva le finestre chiuse finché
l’aria non si faceva pesante, quasi irrespirabile.
Una sola volta mi era capitato di rimanere con lui in quella camera a
gas, appena undicenne, e da quel momento ero sempre fuggito via, in
camera mia.
Da allora avevo sempre evitato i fumatori, avevo costretto tutti i miei
amici a non fumare in mia presenza se non in spazi molto ampi e ad una
distanza ragionevole dal mio naso, lo stesso avevo fatto con le mie ex
e l’ultima, che avevo appena lasciato dopo tre anni di
fidanzamento, aveva persino smesso di fumare grazie a me.
Eppure non ebbi il coraggio di chiedere ad un perfetto sconosciuto con
cui avevo scopato la sera prima di spegnere la sigaretta, tanto
più che mi sentivo a disagio, nei miei tremendi pantaloni a
righe, e non sapevo cosa dire.
Decisi di dare voce ai miei pensieri con un tono che mi
suonò tremendamente sciocco e puerile:
“Non pensavo che saresti rimasto a dormire.”
“Erano solo poche ore, dovevo passarle in qualche
modo.”
rispose, masticando le parole e con loro il filtro della sigaretta che
gli scivolava fra i denti.
Rimanemmo in piedi, lui a guardarmi, io a sfuggire i suoi fari verdi
animati da una punta di divertimento.
Cominciai a chiedermi stupidamente cosa lo aspettasse una volta fuori
dal mio appartamento, e dalla mia vita perché sapevo che non
lo avrei più incontrato, chi fosse, se lavorava o se
studiava, come mi sembrava più probabile. Mi venne anche lo
scrupolo che potesse essere minorenne, aveva le fattezze di un
diciassettenne e cercai una smentita tornando a fissarlo, ansioso.
Non so come, sembrò afferrare al volo il motivo della mia
agitazione:
“ho ventidue anni.”
lo guardai incredulo, non sapendo se credergli. Forse si prendeva gioco
di me sebbene non ci fosse traccia di ironia nella sua voce melliflua.
A corto di idee, cercai di intavolare una conversazione nel
più banale dei modi:
“Non ci siamo presentati. Sono Andrew. E
tu…”
“Pensavi che fossi una puttana?”
Ammutolii ancora una volta, mi sentii bruciare in volto per la vergogna
e mi immaginai paonazzo, cosa che mi fece arrossire ancora di
più.
Aveva letto i miei pensieri con una precisione sconcertante e per un
momento ero tentato di rispondergli con sincerità. Temetti
di averlo offeso eppure lui sembrava rilassato, assolutamente a suo
agio, mentre finalmente muoveva a passo deciso verso il letto e si
andava a sedere sul bordo.
“Scusami, non volevo offenderti…”
“Non mi hai offeso. Ogni tanto capita.”
Da come lo disse sembrò quasi che ci fosse abituato, che gli
capitasse quasi tutti i giorni.
Lo osservai per un po’ fumare a grandi teatrali boccate, le
gambe accavallate, la schiena rigidamente eretta, piegando
graziosamente il collo a destra e a sinistra mentre percorreva con
sguardo vagamente interessato i quadretti a fiori attaccati alle
pareti, qualche acquerello di poco valore di un canale veneziano, un
paio di vasi di gerani semi appassiti sulla finestra con le tendine
bianche e merlettate. Di mio non c’era nulla, solo qualche
libro di economia, un manuale di statistica e contabilità,
una calcolatrice scientifica e una matita appuntita, tutto appoggiato
sul piccolo scrittoio a muro, subito sotto la finestra.
Era tutto anonimo, ordinario, noioso. La mia vita era noiosa, a lui era
bastato uno sguardo per capirlo, quanto a me, erano serviti ventotto
anni e quelle poche ore per constatarlo.
Non mi dette il tempo di dirgli neppure una parola. Non saprei spiegare
come me lo ritrovai davanti, a pochi centimetri dal mio viso, con la
sigaretta semi consumata fra le labbra che mi solleticava il naso,
volevo starnutire. Non rispondevo più della mia bocca che
rimaneva lì, semi aperta, mi sentivo un perfetto idiota e la
saliva mi schiumava in gola; dovetti ingoiare tutto, lo
starnuto e la saliva.
“Me la tieni un istante?”
mi domandò con una dolcezza insinuante e avvicinò
la sua bocca alla mia che si spalancava meccanicamente.
Appoggiò delicatamente il mozzicone fra le mie labbra che si
chiusero a stringerlo per evitare che la cenere mi bruciasse la lingua.
Lo sentii aspirare dal filtro e poi una nuvola di fumo mi
investì facendomi tossicchiare ma mi sforzai di mantenere la
sigaretta fra i denti, di non farla cadere per terra.
Il ragazzino nel frattempo aveva lasciato la presa e si stava infilando
la sua maglietta.
L’odore acre del tabacco bruciato mi faceva lacrimare gli
occhi e mi dava la nausea ma mi rifiutai di lasciarla andare, forse per
dimostrare qualcosa a me stesso o a lui. Ero solo confuso, spaurito,
come un bambino, ubriaco senza aver bevuto una goccia dopo sei ore di
sonno.
Lui si passò le mani fra i capelli, un caschetto spettinato,
cercando di portarli dietro l’orecchio, di mettere a tacere i
ciuffi ribelli e i capelli elettrizzati.
Mi salutò con un cenno e, con l’impermeabile
indosso, lasciò la camera con la naturalezza di chi esce da
casa propria per andare a fare una passeggiata.
Ci misi ancora un minuto per realizzare che se ne era andato e che il
fumo mi stava soffocando.
Presi la sigaretta con due dita e, sputacchiando in aria, cercai un
cestino dove buttarla.
Infine aprii la finestra per far prendere aria alla stanza e quasi mi
sembrò di intravedere la sua figuretta che si infilava nel
sottopassaggio della tube, una scintilla d’argento fra il
grigio marroncino delle giacche a vento londinesi.
********************
Era la prima volta che rimanevo a casa da solo con Cody ed ero
orgoglioso di me.
Il bambino era stato buonissimo, aveva fatto i compiti, non si era
rimpinzato di schifezze anzi aveva fatto una merenda leggera, mi aveva
raccontato del suo ultimo viaggio a Parigi con la mamma e mi aveva
avvisato che sarebbe arrivato il papà a prenderlo per
passare un pomeriggio con lui.
Aveva già progettato di andare a pattinare sul ghiaccio e a
prendere un gelato, poi sarebbero andati al cinema a vedere un film di
pirati, un altro di quelli della nuova serie con Johnny Depp.
Ne avevo parlato con Helena e, dopo una lunga serie di discussioni
interrotte, portate avanti nei ritagli di tempo o in orari assurdi, a
notte fonda o all’alba, finalmente lei aveva decretato che
dovevo conoscere Brian. Non mi spiegavo perché mai avesse
ritardato così tanto il nostro incontro, come se temesse che
fra noi potesse scoppiare una lite o che tutto potesse andare storto.
Me lo aveva descritto come una persona molto garbata, estremamente
educata, amichevole anche se riservata, dai gusti difficili e dagli
umori variabili.
Avevo appreso, con grande stupore, che era una specie di rockstar,
cantava e suonava la chitarra in una famosa band amata da folle di fan
e abbastanza nota a livello internazionale.
Helena mi aveva raccontato come era stata difficile per lei accettare
che il marito era spesso fuori, specie durante la gravidanza e che non
era riuscito a seguire molto i primi passi di Cody; Brian Molko non
aveva tempo per fare il padre.
Lei si era fatta carico di tutto e alla fine aveva avuto tutto: si era
conquistata la sua pace, la custodia del figlio, la casa di Londra.
Ma, con grande sollievo, avevo appreso che fra i due correvano ottimi
rapporti, che la convivenza era pacifica nei limitati momenti in cui si
riuniva la famiglia per amore del figlio, e che Brian rispettava gli
orari e le scadenze con una precisione ammirevole.
Sembrava talmente perfetta la loro intesa che qualche volte ero
arrivato a chiedermi perché mai si fossero separati.
Molto spesso avevo assecondato il desiderio di Helena di rimandare
l’incontro in parte per compiacerla ma soprattutto
perché l’idea di incontrare Brian Molko,
l’uomo perfetto, mi dava una certa ansia.
E non potevo nascondere, almeno a me stesso, una punta di gelosia
quando sentivo la mia nuova compagna parlarne in tono così
lusinghiero.
Le avevo strappato la promessa che, per il primo incontro lei ci
sarebbe stata e così, quel giorno, lui aveva promesso di
venire un’oretta prima che iniziasse il film, giusto per
scambiare due parole.
Ebbi un fremito quando udii lo scampanellio della porta e Cody
abbandonò la nostra partita a scarabeo per andare ad aprire
la porta. Io attesi ancora qualche minuto, in ascolto.
Lo sentii esclamare con entusiasmo “mamma!” e poi
“papà” e udii la voce eccitata, quasi
infantile di Brian che lo chiamava amorevolmente per nome e lo
sollevava da terra deliziando il bambino.
Ritenni di aver concesso loro abbastanza tempo per i saluti e mi avviai
rapidamente all’ingresso per fare la mia parte.
Brian distolse la sua attenzione dal figlio, gli occhi ancora brillanti
per la gioia e mi sorrise apertamente, con grande cordialità
e simpatia, cosa che mi fece subito una buona impressione.
Ma quando osservai meglio quel verde brillante il sorriso
svanì rapidamente dalle mie labbra lasciandomi basito. Mi
parve di conoscere quegli occhi, come se richiamassero un verde
altrettanto intenso, ma troppo lontano perché potessi
ricordarmi dove lo avevo veduto.
Erano simili ad un profumo esotico che si affaccia alla memoria ma che
la mente è incapace di ricostruire.
Helena per un attimo aveva osservato la scena con sollievo poi,
allarmata dall’ombra sul mio volto, aveva invitato Brian a
sedersi in salotto dove Cody lo attendeva, smanioso di mostrargli i
disegni fatti con i pastelli ad olio nell’ultima settimana.
Io li avevo seguiti tremendamente inquieto e Molko aveva elegantemente
glissato sul mio strano comportamento sorridendo e precedendomi in
salotto.
Ma stavolta avevo avvertito una sorta di fastidio, lo avevo trovato
affettato e cerimonioso, quasi falso.
Ci sedemmo sul divano, Helena si rifugiò in cucina
annunciando che avrebbe preparato un thé e aveva invitato
Cody a seguirla per preparare i vassoi di biscotti.
Il bambino, un po’ a malincuore, attirato solo dalla
prospettiva di muphins e altri dolcetti, ci aveva lasciati da soli, a
tu per tu.
“E così lei è Brian.”
“Il padre di Cody, si. Per piacere diamoci del tu.
Tu sei An…forse Antony? Devi scusarmi, ma non
ricordo il tuo nome.”
“Andrew. Andrew Packard.”
“Pensavi fossi
una puttana?”
“Si” mormorai convinto, rispondendo alla
voce di lui che risuonava come il suono attutito di un gong.
“Cosa?” Brian mi scrutava con uno sguardo
interrogativo, sinceramente all’oscuro di quanto mi stesse
accadendo.
Io per conto mio continuavo a sentire la sua voce che parlava e
ripeteva quelle poche parole come un eco lontano. Sentivo montare
l’agitazione ma mi sforzai di rimanere calmo e tranquillo,
gli regalai un sorrisino tirato mentre conficcavo le unghie nel cuscino
del divano, di fianco alla mia coscia, dall’altro lato e al
riparo dal suo sguardo.
“Scusami, non volevo offenderti…”
“Offendermi? E perché mi avresti
offeso?” ridacchiò lui in risposta, ma ancora una
volta il suono di quella risata mi sembrò quanto di
più falso e artificioso ci fosse sulla faccia della terra.
Cominciò ad invadermi la nausea, sentivo odore di fumo, un
fumo soffocante che mi terrorizzava, ingoiai ancora una volta sperando
di cancellare uno strano sapore amaro che mi insudiciava la bocca.
Mi costrinsi a sorridergli per sdrammatizzare ma mi
uscì solo una risatina isterica, che smascherava
il mio malessere. Vidi Brian farsi più vicino, con aria
preoccupata, mentre smetteva la maschera di allegria, vidi le sue
sopracciglia inarcarsi ma alla sua faccia apprensiva si sovrapposero
altre immagini, noia, apatia, malizia, sottile divertimento.
“Ogni tanto capita, eh?” commentai e
sentii un fondo di amarezza in quelle parole.
Non capivo perché ma quest’uomo mi dava la nausea.
Ormai ero praticamente certo di averlo già incontrato anche
se lo ricordavo ragazzino, saranno stati almeno vent’anni fa.
Lui recepì il messaggio perplesso, come era naturale che
fosse; non gli ricordavo nulla.
“Sigaretta? ” proposi e lui
accettò con un cenno. Poi, mentre mi alzavo a recuperare il
pacchetto di Helena dalla mensola in alto - troppo in alto
perché Cody potesse raggiungerlo, come d’accordo
– commentò, cercando di dare una parvenza di
normalità alla nostra conversazione.
“Helena mi aveva detto che non fumavi.” Notai che
si rilassava, accavallando le gambe – sottili, da donna, me
le ricordavo ancora più magre! –
distendeva la schiena e stendeva le braccia larghe sui cuscini
– il colletto della camicia sbottonato, il collo bianco, le
clavicole, un tempo tanto evidenti, scomparivano- .
Risposi prontamente, con una sicurezza feroce come se lui volesse o
potesse veramente contraddirmi:
“Infatti la sto offrendo a te. Tu fumi.”
“Te lo ha detto Helen?”
“No.” Rise, divertito, come se gli avessi appena
raccontato una storiella e io sorrisi educatamente cercando di non
indugiare troppo sui tratti del viso – un tempo
più spigolosi, si erano addolciti con
l’età – sulla capigliatura
corta, praticamente rasata – erano neri, lunghi e quasi
stepposi al tatto, capelli malati, rovinati da un qualche trattamento,
una tintura – sulle labbra piccole e rosee, illuminate da un
filo di lucido – non c’era traccia delle ciliegie
turgide che avevo assaporato – piuttosto finii a fissare la
fantasia variegata del tappeto persiano che dava un tocco di antico al
design minimale della casa.
“Hai indovinato.” Mentre si sporgeva per prendere
il pacchetto.
Finalmente emersero Helena e Cody dalla cucina, a toglierci
dall’imbarazzo; lei portava un vassoio con del
caffè, del thé , un bricco di latte e la
zuccheriera, il piccolo, un piatto di dolcetti al miele, biscotti al
cioccolato o al burro e qualche pasta di mandorle al limone.
“Allora Andy, tesoro, di cosa stavate parlando?”
La sua dolcezza e le sue attenzioni mi riempirono di orgoglio e
finalmente cominciai a calmarmi e a schiarirmi le idee. Cody mi
invitò a prendere il vassoio di biscotti e non appena ebbe
le mani libere si arrampicò sul divano, andandosi a sedere
vicino a Brian, stringendosi al suo fianco.
Il padre nel frattempo aveva appoggiato il pacchetto su bracciolo,
abbandonando l’idea della sigaretta.
Helena gli versò del caffè, senza zucchero, senza
offrirgli nient’altro, un gesto tanto abitudinario che mi
fece ripensare a quanta complicità ci fosse fra i due.
Non ebbi il tempo di risentirmi, Brian rispose serenamente, giocondo,
accarezzando la testa del figlio e facendogli il solletico sul collo,
come si solletica un cucciolo:
“A dir la verità, ci siamo detti poco.
Per lo meno adesso ci diamo del tu.”
“è già qualcosa”
scherzò Helena e, fra le risate e il divertimento generale,
l’atmosfera sembrò finalmente riscaldarsi un
po’.
*******************
Ci eravamo intrattenuti circa una mezz’oretta a parlare delle
solite formalità, del mio lavoro, del suo, di amici che
potevamo aver avuto in comune – lui sembrava
finalmente ricordare qualcosa, forse pensava ci fossimo incrociati in
passato tramite amici di amici – come avevo
conosciuto Helena.
Non aveva reagito quando gli avevo parlato del mio primo soggiorno a
Londra, a ventotto anni, dei miei trascorsi di mancato
studente a Brixton – dove ci eravamo incontrati
– e di come avessi messo la testa a posto dopo la
morte di mio padre, quando avevo venduto terreno e fattoria, avevo
investito in borsa e su qualche talento artistico e adesso gestivo una
rete di gallerie d’arte in America e facevo affari in tutto
il mondo, con risultati piuttosto soddisfacenti.
Brian sembrò rassicurato dalla mia posizione di benessere
economico, come se si fosse posto, come primo problema, la
necessità di garantire al figlio uno stile di vita
all’altezza del suo, nei suoi giorni migliori.
La cosa mi intenerì ma questo non mi impedì di
avvicinarlo, poco prima di uscire, mentre Helena seguiva Cody nella
preparazione del suo zainetto in vista di “un favoloso
pomeriggio con papà”.
Quando attirai la sua attenzione eravamo entrambi in attesa, nel
vestibolo, ciascuno immerso nei propri pensieri. Sparai a bruciapelo,
non avevamo tempo da perdere.
“Noi ci siamo già incontrati.”
“Si, lo penso anche io. Ma non saprei dire
quando.” Replicò, pensieroso, tornando
ad osservarmi come se questo potesse aiutarlo a ricordare.
“Io mi ricordo.” Buttai lì, sforzandomi
di mantenere un tono neutro.
Perché l’idea di dirglielo mi agitava
così tanto?
Lui si fece più interessato, sinceramente colpito e forse
anche preso di sorpresa.
Mi fece un cenno, un chiaro invito a continuare, mentre io cercavo le
parole.
“Abbiamo scopato nel mio appartamento, a Brixton.
Era giugno. Vent’anni fa.”
“Oh, e faceva bel tempo?” cercò di
sdrammatizzare dinanzi alle mie affermazioni dette con la
serietà profetica di un oracolo. Mi sentii in
dovere di ridacchiare, ancora una volta non del tutto sincero.
“Questo spiega tutto” aveva poi commentato,
tranquillamente, come se gli avessi raccontato di un picnic con Helena
e il piccolo la prima settimana maggio.
“Tutto cosa?”
“Non potrei mai ricordare tutti quelli con cui ho
scopato.” Aggiunse con naturalezza e accolse Helena e il
piccolo nel vestibolo con un incantevole sorriso, alieno da
spacconaggine o derisione.
Cody subito sgusciò via, infilò la porta di casa
e si precipitò giù per le scale, giocando a
rincorrere l’ascensore che scendeva lentamente.
Lui fu più rapido di me; aiutò la mia donna ad
infilare il cappotto con delicatezza, con la sua solita eleganza
varcò la porta lasciando che fossimo noi a chiudere,
chiamò l’ascensore e ci precedette, avviandosi per
le scale. Helena dovette richiamarmi, dovevo avere davvero
un’espressione stupida sul volto:
“Direi che è andata bene.” Commentò,
sollevata.
“Oh si” riuscii a mugugnare io.
Brian Molko, l’uomo perfetto.
“Me la tieni
un istante?”
Disclaimer
soggetto
inventato, personaggi che non corrispondono assolutamente alla
realtà,
tutto frutto della mia fantasia, tanto per cambiare.
Non ci lucro
sopra, altrimenti adesso non starei qua.
Angolo
dell'autrice
Titolo adattato da
una splendida canzone di Lou Reed "Perfect Day" che consiglio a tutti.
Soggetto non molto
originale, scritta a notte fonda come vuole mater nostra ispirazione
(tanto per essere romantici, solo un pochino), davvero nulla di
speciale e forse troppo pathos.
Poi, in fondo in
fondo, sono contenta di averla scritta.
è un
tentativo di rappresentare un Brian "idealizzato", come
commentavamo con la Nai , uno di quelli che mi
hanno affascinato e che continuano ad affascinarmi in questa sezione.
Chissà se sono
riuscita nell'impresa...
Neal C.
|