Due mesi.
Non ne avevano più parlato. Ogni
tentativo di Sam di affrontare l’argomento era caduto nel vuoto. Suo fratello
non voleva parlare, non voleva discutere, a volte non voleva neanche guardarlo
negli occhi. Andava avanti fingendo che non fosse successo nulla, che le loro
labbra non si fossero mai toccate, che non gli restassero solo due maledetti
mesi di vita. Fingeva di non avergli mai detto che non voleva morire, che non
voleva lasciarlo.
Sam lo vedeva bere, mangiare,
indagare per i casi che li tenevano occupati. Lo vedeva addormentarsi e
calmarsi nel sonno, per poi svegliarsi sempre più cupo, sempre più arrabbiato,
sempre più restio a guardarlo negli occhi.
E tutto questo lo stava uccidendo.
Dean lo stava uccidendo.
Lentamente, come un coltello che
affonda piano nella carne.
In alcuni momenti, Sam sembrava
soffocare sotto il peso della colpa: non solo non stava riuscendo a salvare suo
fratello, ma aveva anche macchiato di vergogna tutto quel poco che era rimasto.
Pregava di poter tornare indietro, di poter rivivere quel giorno, quella mattina,
e fermarsi prima di afferrargli la testa e baciarlo. Ma in altri momenti,
attimi in cui si lasciava andare e scordava le bugie, non desiderava altro. Non
si pentiva, non rimpiangeva quei pochi secondi di verità – forse gli
unici della sua vita – e pregava soltanto di poterlo rifare. Ancora una
volta, una soltanto.
Lo studiava giorno dopo giorno,
provava a leggere ogni sfumatura del suo volto, ogni ombra dei suoi sorrisi strafottenti
e delle sue battute sarcastiche. Analizzava ogni tentativo di Dean di tenerlo
lontano, di costruire muraglie tra di loro, di fargli capire che era sbagliato.
Era tutto sbagliato. Quello che avevano fatto, quello che erano diventati. Quello
che avevano desiderato essere.
Tutte le volte che provava a
parlargli, o si chiudeva in se stesso o lo interrompeva iniziando a sbraitare.
Ma questi momenti di contrasto, di battaglia, di lite, Sam riusciva a superarli.
Quello che invece non riusciva nemmeno ad affrontare erano i silenzi. Quegli
attimi in cui niente sembrava cambiato, dove tutto sembrava sospeso in quel
bacio. Quando si passavano una birra e le loro dita si toccavano. Quando Dean
si svegliava e – per un breve istante, appena aperti gli occhi - lo guardava
come aveva sempre desiderato essere guardato. Quando la stanza era immersa nel
silenzio, disturbato soltanto del rumore della doccia e dal pensiero di suo
fratello nudo sotto il getto dell’acqua, così vicino ma sempre così lontano. Quando
i loro occhi si cercavano e si trovavano, e capivano – entrambi, insieme,
nello stesso momento e con la stessa intensità – che niente era
sbagliato. Perché non erano fratelli, non erano uomini, non erano cacciatori.
Erano la stessa anima.
Sam giocherellava con il
bicchiere pieno d’acqua posato sul tavolo, guardava senza vederlo il menù che
la cameriera gli aveva portato con un sorriso, e parlava sottovoce con il
cellulare premuto sull’orecchio. Aveva contattato un cacciatore conosciuto
tanti anni prima, in Louisiana, che gli aveva accennato di una sacerdotessa hoodoo
fuori Shreveport che poteva essere d’aiuto. Perché non gli importava quali
erano i termini dell’accordo, non gli importava tornare nel buio dal quale Dean
l’aveva tirato fuori. La sola cosa che aveva importanza era provarci, trovare
un modo, cercare di tenere in vita suo fratello.
Dean finì di fare il pieno di
benzina ed entrò nel locale a passo svelto. Riconobbe Sam da lontano, aveva
scelto il tavolo più appartato. Stava parlando a telefono, con le sopracciglia aggrottate
e l’aria tesa. Capì subito che era in corso l’ennesimo e inutile tentativo di
salvargli la vita e ingannare il patto, ma era stanco di discutere e decise di
fingere di non aver visto niente.
Un’altra finzione, una delle
tante.
Lasciò cadere il giornale sul
tavolo, Sam alzò la testa e riattaccò, con un mezzo sorriso che fingeva
innocenza. Evitò lo sguardo del fratello, decise che era più facile dedicarsi
al quotidiano. Lesse a bassa voce.
Cicero, Indiana. ‘Uomo morto in un tragico incidente domestico.’
“Quindi?” sbuffò Sam.
“E’ caduto sulla sua sega
elettrica.” rispose, sedendosi e guardandosi intorno.
“Non mi sembra uno dei nostri
casi.”
“Invece potrebbe.” Lo guardò
dritto negli occhi, sulle labbra una smorfia arrogante che voleva somigliare ad
un sorriso.
“Okay, va bene.” Capì subito che
c’era qualcosa che non gli stava dicendo. “Cosa c’è sotto?”
Dean non rispose. Abbassò lo
sguardo, iniziò a ispezionare il menù.
“Aspetta…” Improvvisamente tutto
fu chiaro. “Cicero, giusto? Come quel paese in cui ti fermasti per quanto
– un week-end? – mentre io e papà eravamo in Orlando a far fuori
quella Banshee? Quando, nove anni fa?”
“Otto.”
“E io dovrei mettermi in viaggio
per cosa? Per farti rivedere una ragazza qualunque con cui hai passato una
notte qualunque?”
“Lisa Braeden.” Alzò
improvvisamente lo sguardo, puntandoglielo addosso. “E non era una ragazza
qualunque, era un’insegnante di yoga. Capisci?”
“Certo, capisco.” Scosse la
testa, sorrise amaramente, allontanò il bicchiere ancora pieno che si rovesciò
sul tavolo. “Lo fai per me, eh? Lo fai per vedermi impazzire, per farmi capire
come stanno le cose, per mettere in chiaro quello che non potrò mai avere?”
“No.” L’espressione arrogante era
scomparsa, era rimasto solo Dean, il suo Dean. Quello che avrebbe voluto dirgli
Sì, lo faccio per te. Lo faccio per non
vederti distrutto, per non farti soffrire, per lasciare nella tua vita quel
minimo di normalità che ti meriti e che io ti strapperei via. E invece
disse soltanto: “Muoviti a ordinare.”
Lasciò al motel Sam, che lo
guardava allontanarsi con la migliore delle sue facce da cucciolo smarrito, e
si diresse verso la casa di Lisa. Si ricordava esattamente dove abitava e nel
tragitto dette un’occhiata veloce in giro per capire se davvero ci fosse
qualcuno o qualcosa che richiedeva il loro aiuto. Parcheggiò, raggiunse la
porta e suonò il campanello.
Lisa apparve qualche secondo
dopo, con un’espressione allegra e accogliente, che cambiò nell’istante in cui
in suoi occhi incrociarono quelli dell’uomo.
“Dean!” esclamò, e la sorpresa
stampata nello sguardo raggiunse anche la voce.
“Lisa.” ricambiò il saluto. “Ero di
passaggio e non ho saputo resistere.” Rise.
Lei non ricambiò, continuava a
guardarlo confusa, un sorriso imbarazzato stampato sulle labbra. “Wow… Dean
Winchester!”
“Esatto.” Sfoderò una delle sue
migliori espressioni, e questa volta anche le labbra della ragazza si aprirono
in un sorriso.
“Ti va di entrare? C’è un po’ di
confusione, ti avverto!”
Mentre Dean varcava la porta, si
aspettava una cucina da pulire, divani in disordine, magliette dimenticati
sulle sedie, ma la confusione che trovò fu di tutt’altro tipo. Il soggiorno, la
cucina e il giardino sul retro era pieni - traboccanti - di bambini e genitori.
Madri soprattutto, che lo squadrarono da capo a piedi appena entrò nella stanza.
“Quello è Ben,” disse Lisa,
indicando un tavolo in giardino. “mio figlio. Oggi è il suo compleanno.”
Mio figlio?! Dean tossì, quasi si strozzò con la sua stessa saliva.
Ben stava scartando i regali, con
un sorriso da bulletto e un gruppetto di ragazzine che lo circondavano. Si
liberò della carta e trovò un cd degli AC/DC. Il viso gli si illuminò e iniziò
a scatenarsi fingendo di suonare la batteria.
“Davvero un bel bambino,” disse
Dean, schiarendosi la gola. “complimenti.”
In quel momento una mamma chiamò
Lisa. Si voltarono entrambi e Dean si ritrovò a guardare una donna stanca e
provata, con una bambina attaccata a una gamba, che fissava il pavimento a
testa bassa.
“E’ la moglie dell’uomo che è
morto qualche giorno fa?” chiese d’istinto, senza pensare.
Lisa lo guardò aggrottando le
sopracciglia. “Come…?”
“L’ho letto sul giornale
stamattina.” spiegò.
“Beh, ex moglie in realtà… ma sì,
è lei. Poverine, sono ancora sotto shock. Ti dispiace se le raggiungo?”
“Figurati, se preferisci che me
ne vada, non c’è probl-“
“No no,” lo interruppe. “resta.”
E gli sorrise.
I minuti che seguirono Dean li
trascorse guardandosi intorno, abbuffandosi di pizzette, facendo domande in
giro, e studiando quel bambino. Ben. C’era qualcosa nello sguardo, nel modo in
cui si muoveva e parlava con la gente. Era così… familiare. E ogni volta che lo
guardava nasceva qualcosa alla bocca dello stomaco. Una sensazione, un pezzo di
puzzle da mettere a posto. Fu quando vide la torta e contò le candeline che
quella sensazione prese forma.
Un’ora più tardi, Dean lasciò la
festa. Lisa lo pregò di tornare quella sera, dopo che aveva messo a letto Ben.
E lui, quando il buio aveva ormai inghiottito il quartiere, si presentò di
nuovo a casa sua. Era seduto nell’Impala, immobile. Guardava la porta di quella
casa e non si decideva ad avvicinarsi e bussare. Non aveva cenato, aveva lo
stomaco chiuso. Continuava a rivedere davanti agli occhi quel bambino, i suoi
capelli biondo scuro, i suoi occhi verdi, le candeline sulla torta. Aveva
trascorso quelle ore di solitudine vagando per il paese. Aveva fatto qualche
domanda, osservato genitori e bambini, ma tutto quello che aveva scoperto era
che non c’era niente di soprannaturale. Gli abitanti sembravano a posto, non
succedeva niente di strano, non c’erano odori o indizi che lo riportassero a
vecchi casi. A quanto pare aveva ragione Sam, quell’uomo era davvero morto per
un incidente.
Sam.
Il nome arrivò con un pensiero
come tanti, ma gli restò in testa. E, senza neanche accorgersene, si ritrovò
con il cellulare in una mano. Cliccò sull’ultima chiamata fatta e se lo portò
all’orecchio. Non sapeva nemmeno perché lo stava facendo, sapeva soltanto che
ne aveva bisogno. E questo bastava.
“Dean?” Rispose dopo appena due squilli. “Stai bene?”
“Sì.” disse, un sussurro che si
sentiva a malapena.
“Novità sul caso? Hai bisogno che ti raggiunga?”
“Non c’è nessun caso. “ sospirò.
“C’è un bambino.”
“Cosa?” Il tono cambiò dopo qualche secondo, passò dal preoccupato
al rassegnato. “Quanto hai bevuto?”
“Lisa ha un bambino. Otto anni.
Sembra la mia copia in miniatura.”
Silenzio dall’altra parte. Dean
avrebbe dato qualsiasi cosa per essere lì con lui, guardarlo negli occhi e
leggerci dentro ogni pensiero. “Sam?”
“E’ tuo?” chiese, la voce spezzata.
“Non lo so, glielo sto per
chiedere.”
Ancora silenzio. Un silenzio che
sembrava schiacciare entrambi.
“Allora fallo.” E riattaccò.
La seguiva su per le scale.
Seguiva il suo fondoschiena fasciato da un paio di jeans aderenti, ad essere
sinceri. Sentiva la testa leggera, svuotata. Sentiva vibrare ogni parte del suo
corpo.
Non era suo. Ben, quel bambino
che gli somigliava così tanto, non era suo. A quel punto, si chiese addirittura
se tutta quella somiglianza ci fosse davvero. Forse voleva vedercela lui, forse
sperava che non fosse tutto lì, quello che lasciava. Forse desiderava lasciare un’eredità
che non fosse soltanto un’auto, un diario, una giacca di pelle e un arsenale
chiuso nel bagagliaio. Forse aveva sperato di essere qualcosa di più.
Lisa chiuse a chiave la porta
della camera da letto, si portò l’indice sulla bocca facendogli segno di fare
silenzio e gli sorrise. Dean ricambiò, alzando un angolo della bocca. Si mangiò
con pochi passi i metri che li dividevano, le posò le mani sui fianchi e la
attirò verso di sé. La baciò, cercando di perdersi in quel bacio. Perdere se
stesso, gli ultimi mesi, la sua vita, la sua morte. Lisa gli si strusciava
contro, solo un sottile strato di cotone a dividere la sua pelle dalle mani di
Dean.
“Sei addirittura meglio di come
ti ricordavo.” sussurrò lei, mordendogli il labbro inferiore.
Quel piccolo morso e quelle
parole bisbigliate tra un bacio e l’altro raggiunsero le orecchie di Dean, gli
solleticarono la pelle, arrivarono dritte nei jeans. Si rese conto che le sue
mani erano sempre più agitate, i suoi baci sempre più affamati, e la sua
erezione scalpitava nei pantaloni, strusciando sull’inguine di lei. E, mentre
Lisa lo spingeva sul letto e iniziava a sfilargli la camicia, un pensiero gli
inondò il corpo e la mente: era sollievo, puro e appagante sollievo. Era con
una donna. Una bellissima donna che lo stava spogliando e che si lasciava
spogliare. E tutti i dubbi che aveva avuto negli ultimi mesi stavano svanendo
insieme ai suoi pantaloni.
Lasciò che una mano scivolasse
tra i suoi lunghi capelli neri, l’altra le accarezzava il fianco e giocava con
le mutandine. Lisa, a cavalcioni su di lui, si abbassò e gli avvicinò le labbra
all’orecchio.
“Mi sei mancato.” disse, leccandogli
il lobo.
Dean chiuse gli occhi con forza
quando arrivò il primo flash.
Sente il getto d’acqua sul viso,
l’eccitazione dell’altro premergli alla base della schiena.
“Oggi mi sei mancato.” si sente sussurrare
all’orecchio.
La voce di Sam che copriva quella
di Lisa, che copriva i suoi pensieri ormai impazziti, il suo sollievo appena
nato, il suo respiro accelerato. Quella voce che copriva tutto. Le mani di Sam
che scacciavano quelle di Lisa e prendevano il loro posto. Ed erano più grandi,
più sicure, più… sue.
Si lasciò sfuggire un gemito. Era
sofferenza, incredulità, confusione. Ma Lisa lo scambiò per tutt’altro. Riprese
a danzare con più foga sul suo corpo, le mutandine che si strusciavano sui
boxer. Dean scosse la testa, cercò con tutte le sue forze di scacciare suo
fratello dalla sua mente e da quella stanza. Afferrò Lisa per i fianchi, aggrappandosi
a quel meraviglioso corpo di donna e, con un ruggito, la sollevò e la lasciò
cadere sul letto. Adesso era il corpo della ragazza ad essere intrappolato dal
suo, e il sorriso sulle sue labbra morbide e carnose era ancora più luminoso.
La sua voce leggera continuava a sussurrargli parole che gli arrivavano dritte
in mezzo alle gambe. Si sollevò leggermente, facendo forza sulle braccia.
Guardò in basso, si godè la visione della linea delle sue spalle morbide, le
braccia le mani le labbra che cercavano lui, i seni che chiedevano di essere
toccati e baciati. E lui ubbidì. Portò le labbra umide sui capezzoli, lasciò
che la lingua li accarezzasse, che i denti lasciassero piccoli morsi, mentre le
mani viaggiavano, stringevano, mangiavano.
“Dio, Dean…” sussurrò Lisa,
mentre lasciava cadere la testa all’indietro, stringendo il cuscino. “…le tue
mani.”
E subito, come se fosse stato
sempre in agguato, come se avesse voglia e fretta di ricomparire, arrivò il
secondo flash.
Sam ridacchia, ma smette quando sente le
mani di Dean intrufolarsi nel colletto della camicia.
“Dio, Dean…” sussurra, la testa che
lentamente si lascia cadere all’indietro. “…le tue mani.”
“Shh” lo zittisce. E continua a premere le
dita sulla sua pelle.
“Shh” la zittì, forse con troppa
irruenza. Lei cercò i suoi occhi verdi per capire il tono brusco della sua voce,
ma non li trovò: erano troppo impegnati a non scavare nei ricordi. Ma vide le
labbra che si avvicinavano ai fianchi, la lingua che accarezzava lentamente ogni
centimetro della sua pelle. Tornò a sorridere e a gemere. Dean incastrò tra i
denti il bordo delle mutandine e, con un unico morso, strappò.
“Cazzo, Dean!” gridò Lisa, non riuscendo
a trattenersi. “Dio mio-“
La voce le morì in gola quando
lui, con due dita, la trovò bagnata.
“Ti prego,” lo supplicò. “Per
favore.”
E ancora una volta, per una
manciata di secondi, la voce di Sam arrivò da qualche ricordo nascosto e si
sovrappose a quella della ragazza. Dean riusciva a sentirne una soltanto. Quella
maschile, bassa e raschiata. Quella familiare, calda… sua.
Lasciando andare le dita, si
piegò sulle braccia e si avvicinò al suo volto. La guardò negli occhi.
“Zitta.” sussurrò. E, con
un’unica spinta, entrò.
Lisa fu costretta a mordersi la
lingua per non urlare. Strinse ancora più forte le lenzuola, cercando un
appiglio, qualcosa di solido, qualcosa che non stesse tremando insieme a lei.
“Oh, Dean…”
Lui spingeva, sempre più forte, a
occhi chiusi. Perdendosi nei gemiti e nel suo nome sussurrato ad ogni spinta.
Sentiva unghie che gli graffiavano la schiena, mani che gli stringevano le
natiche, dita che gli accarezzavano la pelle. Non voleva aprire gli occhi, non
voleva la realtà.
Sente i palmi delle mani che si posano sulle
sue spalle e adesso l’acqua calda non è più la sola ad accarezzarlo.
Lentamente, parte dalle scapole, arriva ai fianchi, gli accarezza leggermente
le natiche e poi risale in alto, fino ad intrappolare le dita nei suoi capelli.
Lo strattona.
Ruggì. Un suono profondo che gli
nasceva in gola. Un suono animale, carico di rabbia e piacere. Sentì il corpo
di Lisa cambiare e tremare sotto di lui: strinse le gambe intorno ai suoi
fianchi, si aggrappò alle sue spalle nascondendo la testa nell’incavo del suo
collo.
Dean spinse ancora più forte,
ancora a occhi chiusi. E la seguì in quel piacere.
Quando lei gemette e chiamò il
suo nome, lui combatté con la voglia di farlo. Di chiamarlo.
L’unico nome che aveva in testa.
L’unica persona che voleva. L’unica parola che voleva tra le labbra.
Sam.
Sam guardava scoraggiato lo
schermo del portatile, si passava tra le mani la scatolina di cibo cinese senza
decidersi a mangiare. Aveva lo stomaco chiuso. C’era un’altra scatola sul
tavolo: piccola, marrone, un po’ sporca, con una sua piccola foto chiusa
dentro. Pensò a come si fosse sentito Dean, dieci mesi prima, con quella merda
tra le mani. Cosa lo avesse portato a prepararla, a sotterrarla, ad usarla.
Forse erano proprio gli stessi pensieri che adesso riempivano la sua testa.
Forse era proprio la stessa disperazione.
Ma non riusciva a decidersi. Non
riusciva a prendere il cappotto, afferrare la Colt e affrontare il demone
dell’incrocio. Facendolo, sapeva che avrebbe tradito suo fratello, che lo
avrebbe deluso. Ma sapeva anche che era l’unica cosa che gli restava da fare,
l’ultimo disperato tentativo.
Il cellulare squillò
all’improvviso, il cibo gli cadde dalle mani. Lesse il nome sul piccolo schermo
e rispose subito, senza fermarsi a pensare cosa poteva averlo spinto a chiamare.
“Dean? Stai bene?”
“Sì.” Lo sentì a malapena. E quella voce, quel sussurro, ebbe il
potere di gelargli il sangue e fargli pensare al peggio.
“Novità sul caso? Hai bisogno che
ti raggiunga?”
“Non c’è nessun caso. C’è un bambino.”
“Cosa?” All’inizio fu solo
confusione, poi se lo immaginò seduto nell’Impala, una bottiglia di whisky
mezza vuota in mano, la testa lasciata cadere all’indietro sul sedile, e
diventò scettico. “Quanto hai bevuto?”
“Lisa ha un bambino. Otto anni. Sembra la mia copia in miniatura.”
Perse la voce, non si ricordava
più come si fa a parlare, come escono le parole e formano le frasi. Non
riusciva a pensare, a respirare. Aveva soltanto la forza di desiderare:
desiderava essere lì con lui, guardarlo negli occhi. Solo questo.
“Sam?”
La voce di suo fratello, un misto
tra preoccupazione e urgenza, lo svegliò dal torpore.
Chiuse gli occhi, strinse i
denti, poi parlò, sperando che la voce non lo tradisse, che non rivelasse che
si stava sbriciolando. “E’ tuo?”
“Non lo so, glielo sto per chiedere.”
Ancora quella sensazione, le
parole non c’erano più, la voce sparita.
Un ultimo sforzo, un ultimo
respiro, prima di riattaccare.
“Allora fallo.”
Non riusciva a trovare ordine nei
suoi pensieri, non riusciva a restare calmo. L’unica convinzione lucida, sicura,
a fuoco, era: l’ho perso, l’ho già perso per sempre. Trascorrerà i giorni che
gli restano con lei, con loro. Con la sua famiglia, sangue del suo sangue.
Proprio come finora ha fatto con me.
Pensava a quel bambino – sicuramente
sveglio e adorabile, sicuramente bello come il sole, bello come Dean – e
l’unica cosa che vedeva era un ostacolo in più, una muraglia in più, l’ennesima
maledizione che li divideva.
All’improvviso si sentì in colpa,
una colpa che riuscì a spezzargli il respiro. Suo fratello stava morendo. Stava
per lasciare questa vita, questo mondo, per scendere agli inferi. E Dio solo
sapeva quanto non se lo meritava. Si meritava, invece, la felicità che forse
quella donna e quel bambino potevano dargli.
Fu questo il pensiero che lo fece
muovere.
Si pulì le mani sporche di terra
sui jeans e controllò che la Colt fosse al suo posto, incastrata tra la cintura
e la schiena. Si guardò intorno, controllò con un’occhiata la fine della
strada, camminò sul posto. Si bloccò quando sentì un rumore alle sue spalle.
“Bene, bene… il piccolo
Winchester.”
Sam si voltò e si ritrovò faccia
a faccia con una ragazza, con un bel corpo e una cascata di capelli scuri. Stava
sorridendo.
“E’ davvero un piacere
conoscerti.” Fece una piccola pausa, poi riprese a parlare. “Cosa posso fare
per te, piccolo Sam? Ma prima dimmi, come sta tuo fratello?”
Lui, senza muovere un muscolo,
rispose con calma, ignorando l’ultima domanda. “Ho saputo che sei molto brava a
stringere patti.” Lei ridacchiò, e quel suono gli accapponò la pelle. “Ne
voglio fare uno anch’io.”
“Dimmi pure, caro. Ma lo sai che
non posso fare niente per lui, vero? Non lo posso liberare, lo sai?”
“Ecco il mio patto.” Con un unico
movimento, fluido e veloce, Sam sfilò la Colt dai pantaloni e gliela puntò
addosso, dritta in mezzo agli occhi. “Tu mi dici chi detiene il contratto di
mio fratello e io non ti faccio un buco in testa.”
La risata del demone risuonò per
tutta la strada. “Davvero, Sam? E’ questo il tuo piano?”
“Dimmi il nome e dove posso
trovarlo.”
“Una curiosità… quanti proiettili
ci sono dentro quell’affare? Perché sono speciali e molto preziosi, giusto?”
La verità è che i proiettili
erano soltanto due. E Dean non l’avrebbe mai e poi mai perdonato per averne
sprecato uno così, per uccidere o anche solo minacciare un inutile demone
dell’incrocio.
“Dimmi il nome e dove posso
trovarlo.” ripeté, ignorandola.
“Ti voglio far riflettere su una
cosa…” Iniziò a camminargli intorno, lentamente, e con lo stesso ritmo Sam la
seguiva, senza staccarle gli occhi e la pistola di dosso. “Hai mai pensato a
cosa vi ha portati fin qui? Hai mai pensato che forse vi state uccidendo a
vicenda?”
“Zitta!”
“Siete così impegnati a salvarvi
la vita ogni volta che potete… così presi da tutto questo grande, assoluto,
enorme amore fraterno… che non avete ancora capito che siete ognuno il punto
debole dell’altro.”
“Ho detto stai zitta!”
“E’ il tuo tallone d’Achille,
piccolo Sam. E tu il suo.”
“Ho detto
chiudi-quella-cazzo-di-bocca!” urlò, la Colt che gli tremava tra le mani.
“Devi lasciarlo andare, Sam. Ti
assicuro che sarà facile, te lo prometto. Sarai forte, sarai capace. Vivere
senza tuo fratello maggiore attaccato alle chiappe che ti comanda a bacchetta
sarà addirittura piacevole, fidati. Sarà un sollievo.”
“L’ultima possibilità.” Si
avvicinò di un passo, il metallo della Colt si scontrò con la fronte del
demone. “Dimmi chi è.”
“Lascialo andare.” sussurrò.
“Dimenticalo.”
E Sam sparò.
Dean lasciò la macchina nel
parcheggio, davanti alla porta del motel. Sentì il motore spengersi e perdersi
nel silenzio della notte.
Entrò nella stanza, posò la
pistola sul tavolo, si tolse subito giubbotto e scarpe. Lo vide, disteso sul
letto, vide la sua schiena, e sentì qualcosa sciogliersi nel petto. Qualcosa di
caldo, doloroso ma allo stesso tempo piacevole. Qualcosa come voglia di
piangere.
Lo raggiunse, si sdraiò dietro di
lui.
Alzò un braccio e glielo posò sul
fianco, circondandogli la vita.
Affondò la testa nei suoi capelli,
respirò il suo profumo.
Realizzò quanto si fosse sentito
vuoto e solo fino a quel momento.
Ora era tutto dove doveva essere.
Non c’era bisogno di nient’altro, non esisteva nient’altro. Non c’erano le sue
fughe, i suoi silenzi. Non c’erano gli occhi supplicanti di suo fratello, la
sua rabbia e la sua pena. Non c’era nessun patto, nessun motivo per non
trascorrere tutta la vita insieme. Così, proprio così. Non c’era Lisa, e la sua
voce che sussurrava il suo nome. Quella voce che gli chiedeva di restare, di
non lasciarla di nuovo. E lui che si allontanava, si rivestiva e scappava. Lui
che rispondeva: mi dispiace non posso, ti metterei in pericolo, ti rovinerei la
vita, tra qualche mese sarei costretto a lasciarti di nuovo. Lui che invece
pensava soltanto: il mio posto non è qui.
Sam era sveglio. L’aveva sentito
parcheggiare, aprire la porta, avvicinarsi. L’aveva sentito raggiungerlo sul
letto e abbracciarlo. E adesso sentiva il suo respiro pesante, il suo torace
contro la schiena, le gambe appoggiate alle sue. E, sulla pancia, una mano
tremante. Si mosse e ci posò la sua. Gliela strinse, più forte che poteva.
Prese un respiro profondo e gli
entrò nel naso un odore nuovo. Profumo di donna.
Capì che veniva da suo fratello,
dai suoi vestiti, dalla sua pelle.
Smise di pensare perché faceva
troppo male.
“Era tuo?” chiese, un terremoto
al posto del cuore.
“No.” rispose. “Non c’era niente
di mio.”