Hit the Cripple
Prologo
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Aim
Quando James Wilson sbucò
fuori dalla porta che conduceva al tetto, una folata di vento notturno gli
investì la faccia al di sopra della sciarpa slacciata e del cappotto invernale,
avvisandolo che se il suo umore non era proprio roseo, quello degli elementi si
stava seriamente incazzando. Se non fosse stato così irritato, e se non fosse
stato così irritato con House, avrebbe forse iniziato la discussione con
qualche quieto apprezzamento sul tempo, che prometteva pioggia, e sulla pioggia,
che in linea di massima non gli dispiaceva. Invece, siccome era così irritato, e
con House per giunta, sbucò fuori dalla porta con cinque piani di scale nei
polmoni e neanche un’oncia della sua proverbiale diplomazia.
«Che cosa le hai detto?»
«Che starà meglio senza di
me.»
«Oh. Probabilmente è vero»
replicò, tentando un sarcasmo che un po’ per il fiatone e un po’ perché il
sarcasmo era specialità di House gli riuscì alquanto sfiatato.
Dalla sua posizione sopra
la balaustra del tetto, House non gli rivolse uno sguardo. Brutto segno. Era il
gesto che riservava a due stati d’animo, entrambi meno rari di quanto ci si
potesse aspettare: la sofferenza e il senso di colpa. Quale dei due, stavolta?
Stappò la bottiglietta di
Vicodin, mandando giù le due pillole di rito.
Probabilmente entrambi.
«Sei un idiota» gli disse,
alzando la voce più di quanto avrebbe voluto. «Tu non pensi che starebbe meglio
senza di te.»
«Giusto. L’ho mandata via
per capriccio» replicò House, monocorde.
«Tu non hai idea del perché
l’hai mandata via.» E neppure io, aggiunse mentalmente.
House lasciò scivolare
prima una gamba, poi l’altra, giù dal muretto, mettendosi lentamente in piedi.
Continuò a non guardarlo. «Non cominciare» ribatté, con voce atona, anche se
Wilson avrebbe potuto giurare d’aver sentito una nota di supplica insinuarsi tra
le pieghe aspre della sua voce.
«Per
te non è stato un grande sacrificio!»
scattò, annaspando alla ricerca di una giustificazione, una qualsiasi, che
ricomponesse quella storia nella sua testa. Che gli togliesse quella nebbia
dagli occhi ogni volta che cercava di farvi luce. Impresa vana, comunque. «L’hai
mandata via perché tu hai bisogno di essere infelice.»
Aveva dato notizie peggiori
con più tatto.
La risposta lo investì con
più violenza di quanta se ne aspettasse. «Questa
psicologia da quattro soldi la rifili ai tuoi pazienti per farli stare meglio? O
serve a te? Ti piace la gente che soffre?
Ti piace quando ammette
che sta soffrendo?»
«Tu non ti piaci» rispose,
senza davvero rispondere, solo seguendo quel bislacco filo logico che aveva
appena stabilito e in cui non sapeva più se credere. «Ma ti ammiri. È
tutto ciò che hai, e ti ci aggrappi. Hai paura che se cambi perderai quello che
ti rende speciale.» Fece una pausa, guardando la sua gamba. Avrebbe potuto dire
lui in due parole cosa lo rendeva speciale, ed era tutto meno che il dolore.
Concluse, svariati toni di voce più giù: «Essere infelice non ti rende migliore
degli altri, House. Ti rende solo infelice.»
Non si fermò ad aspettare
una risposta che non sarebbe arrivata, e gli passò accanto diretto alla porta.
Un tuono gli rimbombò nelle orecchie nell’istante in cui House gli stringeva il
braccio.
«E il resto?»
«Quale resto?» replicò, con
un sospiro.
«Quello che non hai
menzionato perché pensare che potrebbe essere il motivo ti ucciderebbe di sensi
di colpa.»
«Non…» Wilson aprì la bocca
e la richiuse, come un pesce, senza riuscire a pronunciare una parola. «Non puoi
averlo fatto» mormorò. «Non dirmelo.»
«Ti manderò un fax» sospirò
House, massaggiandosi la coscia lesa.
«Ma… ma perché? Che senso
ha?» Alzò le mani come per mettergliele al collo, o sulle spalle, ma si
afflosciarono sconfitte lungo i fianchi. «Perché?»
«Perché ti amo» rispose
House, rudemente. «E ora vattene» aggiunse, voltandosi verso la balaustra.
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