NDA:
Niente, eccoci col primo capitolo.
Ne ho già pronti altri, che caricherò subito nel
caso vedessi che questa storia sta cominciando a piacere.
Quindi fatemi sapere, eh! ♥
[Crack Pairing]
[Grimmjow x Tatsuki]
[Lavi x Rukia]
[Ichigo x Linalee]
[Kanda x Orihime]
[Debit x Riruka]
[Tyki x Lust]
[Starrk x Neliel]
[Soi Fon x Hisagi]
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CAPITOLO 1 – Circolo vizioso
And I find it
kinda funny
I find it kinda
sad
The dreams in
which I'm dying
Are the best
I've ever had
I find it hard
to tell you
I find it hard
to take
When people run
in circles
It's a very,
very mad world
Mad world
E in un certo senso lo trovo
divertente
In un certo senso lo trovo
triste
I sogni in cui sto morendo
Sono i migliori che abbia mai
avuto
Trovo difficile dirtelo
Trovo difficile accettarlo
Quando la gente corre in
circoli viziosi
È davvero, davvero un
mondo pazzo
Un mondo pazzo
[Mad World
– Gary Jules]
Grimmjow
Jaegerjaques si piegò sulle ginocchia e scoppiò
a ridere fragorosamente nel vagone della metropolitana praticamente
deserto, a
parte un anziana signora seduta a parecchi posti di distanza da lui,
anziana
signora che non lo notò neanche. Con tutta
probabilità era sorda come una
campana.
Tenendo
l’indice della mano sinistra come segnalibro, si
passò la destra tra i capelli lisci, liberi dal gel e
piuttosto lunghi, di un
singolare colore azzurro, così come i suoi occhi. Era un
colore che incuriosiva
le donne orientali, a quanto pareva, per questo li teneva
così. In fondo le
donne rappresentavano la sua linfa vitale, i suoi soldi,
così come la sua
rovina.
Ma
in quel momento, solo in compagnia di una povera
vecchia che aveva ormai passato da un pezzo l’età
in cui poteva essere definita
una rappresentante del suo sesso, le donne erano l’ultima
cosa che gli passava
per l’anticamera del cervello, perché era
impegnato in tutt’altro.
Allentandosi
il nodo della cravatta rigorosamente bianca
su una camicia nera, riaprì il volume, grosso appena quanto
la sua mano,
tornando alla pagina in cui si era interrotto a causa di una battuta
particolarmente divertente.
Fly it.
Un
manga praticamente sconosciuto, pubblicato
direttamente in formato tankōbon
con
una tiratura minima, possibilità quasi – anzi,
togliamo pure il quasi – nulle
di sfondare su una qualche rivista alla Jump.
A prima vista poteva sembrare l’ennesimo shōnen
sportivo con qualche battuta più demenziale che comica, ma
fin dal primo momento
in cui gli era capitato in mano il
secondo volume, quel fatidico secondo volume, per lui era stato
qualcosa di
molto di più. Ed era partito alla disperata ricerca degli
altri volumi, cinque
in tutto fino a quel momento, talmente rari che si era visto costretto
a pagare
una cifra pari a una notte di servizio completo per ottenere il primo
numero ad
un asta su eBay.
Nemmeno
lui si sapeva spiegare cosa ci trovasse di
particolare in quel manga, tanto che nella sua classifica personale
aveva
scalzato classici come Dragon Ball
e Ken il guerriero, diventando
indiscutibilmente il primo, il suo preferito. Sarà forse
stato il protagonista,
così svogliato e menefreghista, col suo umorismo cinico e
disilluso, che in
ogni capitolo si vedeva costretto per cause di forza maggiore a unirsi
a questo
e a quell’altro club sportivo della sua scuola media, facendo
puntualmente
vincere la partita, la gara, la competizione, in cui si trovava
coinvolto. Quel
piccolo protagonista dotato di un enorme talento sportivo, il cui nome
era Shū, in omaggio al
“generale cieco”, che
al posto di essere cieco però era miope, e che quindi non
poteva realizzare il
suo sogno di diventare pilota.
Saranno
stati anche i disegni molto, molto buoni per i
suoi gusti, semplici e puliti, ma incisivi. Le espressioni dei
personaggi
rendevano a pieno i loro stati d’animo, e soprattutto quelle
comiche erano
davvero da spanciarsi dalle risate.
Era
un manga leggero e divertente, che a chi lo leggeva
con attenzione, però, offriva degli spunti di riflessione
più profondi. Più di
una volta si era ritrovato a chiedersi chi fosse quel Kano Miyoshi
autore del
suo manga preferito, che non si era mai mostrato in pubblico. Doveva
essere un
tipo interessante. Avrebbe voluto il suo autografo sul quel tanto
agognato
primo numero.
Nello
stesso momento in cui formulò quel pensiero, le sue
labbra si piegarono in un sorriso ironico rivolto a se stesso, sorriso
che più
di una volta aveva letteralmente steso più di una cliente
del night-club in cui
lavorava. Anche quel sorriso di cui l’aveva dotato la cara
mammina natura era
la sua linfa vitale, la sua arma di seduzione. Senza, forse, non
avrebbe
riscosso lo stesso successo come host e qualcosa di più in
una camera
d’albergo.
Il
suo sorriso si allargò.
Come
se un tipo come lui, una puttana fatta e finita che
vendeva il proprio corpo senza un briciolo di orgoglio, sarebbe potuto
andare a
dei raduni di appassionati di fumetti a chiedere autografi a destra e a manca.
Arisawa
Tatsuki posò il pennino sul basso tavolino pieno
di trucioli di gomma e di tempera, sbuffando sfinita.
Aveva
bisogno di prendersi una pausa prima di continuare
ad inchiostrare, oppure per la stanchezza avrebbe finito per combinare
un gran
casino. Barcollando tra le pile di cartacce e di volumi che usava come
riferimento, raggiunse il frigorifero e ne tirò fuori un
cartone di succo di
frutta all’ACE, su cui istintivamente aveva disegnato un
cappello con due
faccine, una sorridente, una un po’ meno. Ne bevve un lungo
sorso, facendosi
cadere accidentalmente qualche goccia sul mento, e poi sulla maglietta
di
parecchie taglie più grandi che indossava. Guardò
per qualche secondo la
macchia arancione che le si andava formando sul bavero, poi
alzò le spalle con
noncuranza e ritornò alla sua posizione di lavoro portandosi
dietro la
confezione di succo, chiudendo l’anta del frigorifero con un
colpo di gomito.
Con
delicatezza, come se si fosse si fosse trattato di
pagine di un manoscritto antico in procinto di sgretolarsi,
spostò le tavole
che aveva già finito di inchiostrare e quella ancora
incompleta, e tirò a se il
computer portatile che l’accompagnava in ogni secondo della
sua misera
esistenza da reclusa.
Arisawa
Tatsuki era ciò che la società avrebbe definito
senza tanti complimenti una hikikomori.
Otaku
incallita, per di più. E pure una mangaka
fallita.
Un
rifiuto ambulante insomma, anzi, neanche ambulante,
perché lei non girava da nessuna parte, se non nel suo
piccolo bilocale che
poteva a malapena permettersi.
Eppure
non era stato sempre così. Una volta... una
volta correva come il vento. E non
in quel circolo vizioso che si faceva sempre più stretto.
Appoggiando
la testa a una mano, allungò l’altra verso il
pacchetto di patatine che aveva aperto il giorno prima e che non si era
neanche
presa il disturbo di chiudere, per poi leccarsi le dita e asciugarsele
sulla
maglietta, prima di spostarle sul touchpad. Con un paio di click
aprì sia il
browser di Internet Explorer che quello di Mozilla Firefox. Col primo
si
collegò al suo indirizzo di posta elettronica, e
notò che il suo editore le
aveva mandato una e-mail in cui le chiedeva di chiamarlo appena avesse
potuto
per una questione di lavoro.
Chissà
cosa diavolo voleva, si chiese con un brivido.
Parlare con le persone al telefono la metteva a disagio, ma con lui era
costretta a farlo, per fissare le scadenze per le consegne e tutto il
resto. Si
erano anche visti faccia a faccia, un paio di volte. Gli incontri non
erano
durati che pochi minuti, ma questo le era costato altrettanti giorni di
sonno
rintanata sotto le coperte per riprendersi dallo shock di aver parlato
direttamente
dopo secoli con un altro essere vivente che non fossero i piccoli ragni
che
ogni tanto le venivano a fare una visitina mentre faceva la doccia.
Scrisse
una veloce risposta e poi chiuse la finestra di
Internet, appuntandosi mentalmente che appena avesse potuto, ovvero
appena ne
avesse trovato la voglia e il coraggio, avrebbe dovuto fare quella
benedetta
telefonata.
Poi
finalmente si dedicò a Mozilla, santo browser che
salvava le ultime sessioni risparmiandole l’immensa fatica di
fare ogni volta
il log in.
The Black
Order of the Soul Society, meglio conosciuta come The
BOSS.
Era
una sorta di social network in cui si era trovata
coinvolta senza neanche rendersene conto. The
BOSS ti attirava a se e ti risucchiava nel suo mondo
“oscuro”come il colore
del suo layout, e tu ti trovavi a sentire il bisogno di accedere ogni
santo
giorno, ogni santo momento libero. Era come una droga.
La
cosa migliore di tutta quella “organizzazione”, era
l’assoluto anonimato che garantiva. Perfino password e
indirizzo di posta
elettronica che servivano per la registrazione erano forniti dal social
network
stesso. Non era richiesta nessuna informazione personale, non la data
di
nascita, non un’immagine del profilo, neanche il nome, solo
un nickname
modificabile in qualsiasi momento. Non era facebook.
Era
semplicemente l’unico luogo in cui Tatsuki riusciva a
tirare fuori la vera se stessa, quella sotterrata sotto strati e strati
di
fogli A4 e retini, e sommersa dall’inchiostro per la G pen.
TheGrimReaper
era entrato in chat giusto in quel momento, lesse con un
sorriso appena accennato.
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