BEFORE I PULL THIS TRIGGER
BEFORE
I PULL THIS TRIGGER
Milleseicentottantuno.
Tante sono le piastrelle bianche che
tappezzano
le pareti ed il pavimento di questa
cella.
Le ho contate talmente tante volte che
ormai potrei farlo
anche ad occhi chiusi.
Non che di luce ce ne sia molta qui
dentro.
L'unica proviene dal minuscolo
rettangolo chiuso da vetro e inferriate
sulla piccola porta liscia, con
un'unica maniglia. La maniglia che ho
visto una volta sola: quando mi hanno
trascinata qui dentro.
Da quanto tempo sono qui?
E' una domanda pericolosa da porsi per
chi è rinchiuso in una
cella d'isolamento di un manicomio
criminale.
Ti porta lentamente all'esasperazione,
ti corrode il cervello e alla fine darai di matto,
è inevitabile.
No, il modo migliore è cercare di
concentrarsi sulle piccole cose,
i dettagli, per tenere la mente
impegnata. Ecco il perché del conteggio delle piastrelle.
Pazzia.
Insanità mentale.
Schizofrenia.
Non ho mai prestato troppo attenzione
alla terminologia.
D'altra parte è solo questione di
punti di vista.
Chi è il vero “matto”? Quello che
la società o la medicina definiscono tale?
No, a meno che non siate già stati in
un posto del genere, non osate darmi
la vostra versione dei fatti,
non sapete un cazzo di niente di cosa
significhi.
Perciò state zitti ed ascoltatemi.
Mi chiamo Annabelle.
Vorrei poter dire che
gli amici mi chiamano Anne, o Belle.
Ma non ho mai avuto
molti amici.
Dicono che la
depressione in età giovanile sia la peggiore,
che non si guarisce mai
del tutto, anche in età adulta, a meno di non imbottirsi
di psicofarmaci ed
accontentarsi di una vita finta e ovattata.
La mia infanzia e
adolescenza, furono normalissime, come la maggior parte delle
altre bambine e
ragazzine della mia età.
Sì, ero molto più
introversa ed emotiva di loro e spesso tendevo ad isolarmi. Non mi
sentivo mai all'altezza delle situazioni, eternamente fuori posto, in
qualsiasi luogo o contesto.
Dopo il diploma, visto
che la mia famiglia non era abbastanza
benestante da potersi
permettere di mandarmi al college,
dovetti rassegnarmi al
primo lavoro di merda che trovai.
Ed il lavoro più di
merda che puoi trovare, in una città di merda come Pasadena,
California,
per una ragazza di 19
anni che non ha
particolari attitudini,
né ambizioni di carriera,
è fare la commessa in
un ipermercato.
Mi piacerebbe potervi
dire che, pur non essendo una cima in tutto il resto,
quantomeno possedessi
una bellezza particolare.
Beh, sarà ora che vi
togliate dalla testa questi preconcetti del cazzo, imparati
a memoria dai film e
dalle serie tv.
Non sono bella e non
sono neanche brutta.
Sono una ragazza
normalissima.
Quella che tutti i
ragazzi lasciavano come ultima spiaggia
tra le quelle da
invitare al ballo di fine anno.
Ma andiamo con ordine.
Il lavoro mi fa schifo,
ma nella vita qualcosa bisogna pur fare per campare.
'Il lavoro nobilita
l'uomo', si dice.
Cazzate.
Vallo a dire a una come
me, che fa turni di 9 ore al giorno a 6 $ l'ora,
con mezzora scarsa per
il pranzo,
e quello stronzo del
boss - un ragazzo brufoloso e flaccido di neanche 25 anni, che si
sente potente nascosto dietro quella targhetta appuntata alla camicia
con su scritto “Manager”-
pronto a urlarti contro
al minimo passo falso.
Per non parlare della
gente che puzza, i vecchi bavosi che ci provano, le casalinghe
isteriche
che si lamentano dei
prezzi troppo alti, o i disperati pronti a raccontarti la storia
della loro vita
al minimo cenno di
empatia.
Per questo me ne sto al
mio posto in cassa a capo chino, ai clienti non dico più
delle 3-4 parole
indispensabili e in generale tiro a campare fino alla fine del turno.
Di tanto in tanto riesco
a imboscarmi in magazzino, giusto il tempo di una sigaretta.
E' lì che ti ho
conosciuto.
Avevi appena iniziato,
come magazziniere e già tutti ti adoravano.
Eri il ragazzo più
bello che avessi mai visto.
Ma la tua non era una
bellezza convenzionale.
I tuoi occhi color
nocciola sembravano vedere al di là dell'aspetto fisico.
Come se riuscissi a
cogliere la vera essenza delle persone.
E le tue mani, dio, le
tue mani.
Ma era il tuo sorriso
così genuino e disarmante, di chi è stato amato in vita sua,
di chi non ha altre
preoccupazioni al mondo, se non vivere il presente,
godere di ogni momento,
come se fosse l'ultimo.
Ed era questo a
conquistare chiunque incrociasse la tua strada, uomini e donne,
indistintamente.
E quel giovedì senza
capo né coda, si trasformò nel più bello
della mia stupida e
insignificante vita.
Ti avvicinasti e
semplicemente mi chiedesti da accendere.
Iniziammo a parlare del
più e del meno.
Perlopiù ascoltavo te,
non avevo granché da raccontare, io.
Ed ero in balìa del tuo
sguardo e della tua voce, nel giro di pochi minuti.
Avevi la mia stessa età,
ma non eri di Pasadena.
Eri originario di Los
Angeles, ma 2 mesi prima eri partito con degli amici per un viaggio
all'avventura che in teoria sarebbe dovuto durare solo qualche
settimana.
Uno zaino in spalla e la
giusta dose di incoscienza, insieme giraste la California
in treno o – quando i
soldi scarseggiavano – in autostop.
Nel tempo la compagnia
si era sparpagliata, mentre tu avevi deciso
di stabilirti qui per
qualche mese.
“Sembra una città con
del potenziale” mi avevi spiegato, sogghignando.
Da quel giorno in poi,
diventò un appuntamento fisso, quello in magazzino.
All'inizio non ne capivo
il perché, ma era evidente
che ti stessi
affezionando a me.
Appena potevi, venivi
alla mia cassa a salutarmi, qualche volta portandomi una rosa,
rubata dalle aiuole ben
curate delle casette a schiera lungo il viale di fronte,
solo per vedermi
sorridere.
Un giorno finalmente mi
chiedesti di uscire insieme.
“Voglio portarti in un
posto speciale”.
Mi desti appuntamento al
tramonto, all'ingresso del parco naturale di Pasadena,
a pochi minuti dalla
chiusura serale.
Avevo messo il mio abito
più bello e legato i capelli in una treccia,
lasciando fuori solo
qualche ciocca ribelle.
Chi mi avesse vista per
la prima volta, avrebbe perfino potuto considerarmi “carina”.
Sapevo di non esserlo.
Ma guardandomi allo
specchio quella sera, avevo visto per la prima volta il ritratto
della felicità.
Ormai dipendevo da te.
Sentivo che avrei potuto fare qualsiasi cosa mi avresti chiesto,
eri diventato il mio
mondo.
Col senno di poi, non
penso fosse vero amore, quello che provavo
non prendetemi per
un'ingenua.
Era più simile a
venerazione....all'illusione di possedere
finalmente qualcosa di
bello, nella mia vita.
Ma tu non saresti mai
stato di nessuno.
Vagavi da mesi su e giù
per la California, in fuga da te stesso.
Non avresti mai permesso
a nessuno di possederti, nonostante la tua espansività e la naturale
predisposizione a farti benvolere da tutti.
Ma io ero solo una
ragazza sciocca, vissuta per 19 anni ai margini della città
e ai margini della
realtà.
Per questo indossai il
mio vestito più bello e passai ore
davanti allo specchio,
in quel pomeriggio di giugno.
Ma, come ho detto, ero
una povera illusa, perciò non giudicatemi!
Quando arrivai, ti
trovai già lì ad aspettarmi, un piede appoggiato al cancello di
ferro,
una sigaretta accesa in
una mano e l'altra in tasca.
I capelli lunghi stretti
in una coda e lo sguardo che vagava tra i passanti,
aspettando di
riconoscere il mio volto.
“Sei bellissima. Dai,
andiamo. Dobbiamo essere dentro prima che chiudano il parco”
mi prendesti per mano,
guidandomi con passo sicuro.
Dopo aver camminato per
circa mezzora, il sentiero
iniziò ad addentrarsi
nel fitto bosco di abeti secolari, nella zona più a ovest, sulle
colline.
“E' un posto che ho
scoperto per caso. Ti piacerà, vedrai.”
Il sentiero si faceva
sempre più ripido e, in alcuni tratti, ebbi bisogno del tuo aiuto
per salire,
visto che non avevo né
scarpe nè abbigliamento adatto.
Giunti sul crinale, si
intravide una piccola baita di legno,
apparentemente
disabitata e vuota. Il cielo lì sopra era completamente oscurato
dalla fitta vegetazione, ma gli ultimi raggi di sole del giorno,
riuscivano a farsi strada attraverso i rami,
per riscaldare quella
radura.
“Vieni a vedere, è
stupendo al tramonto”
Restai senza fiato.
Al di là della casa si
stendeva una vallata verde smeraldo ed il sole faceva ancora capolino
da dietro le colline, tingendo il cielo di rosso e arancio...
“Sono morta e sono in
paradiso?? Dimmi che è così”
mi voltai verso di te a
guardarti “ti prego, dimmi che non sto sognando”
Mi prendesti il viso tra
le mani e mi baciasti con passione.
Facemmo l'amore quella
sera, abbandonandoci completamente l'uno all'altra,
più e più volte,
finché ogni nostro senso non fu completamente appagato.
“Ti porterò via di
qui. Verrai con me a Los Angeles. Possiamo conquistare il mondo,
insieme”
Ed io ti ho creduto. Ti
avrei seguito anche in capo al mondo.
D'altronde, era molto
più di quanto chiunque mi avesse mai offerto, in tutta la vita.
Dopo quella notte, ne
seguirono molte altre.
Era diventato il nostro
rifugio dal mondo, quella radura.
L'angolo di felicità,
dove due anime solitarie come noi, si erano finalmente trovate.
Forse c'era speranza
anche per me, dopo tutto.
Ma durò poco.
Senza preavviso eri
entrato nella mia vita e senza preavviso ne sei uscito.
Un giorno non ti
presentasti al lavoro. E neanche quello dopo e quello dopo ancora.
Chiesi in giro e mi
dissero che avevi dato le dimissioni all'improvviso, dicendo
che dovevi ritornare a
Los Angeles, dalla tua famiglia.
Non poteva essere vero.
Non volevo crederci. Senza una parola, senza lasciarmi un recapito.
Sparito nel nulla.
Doveva pur essere
rimasta qualche traccia di te da qualche parte, un indizio per
riuscire a ritrovarti. La prova che non fosse stato tutto un sogno.
Per questo tornai alla
radura, su in collina.
Appena arrivai, mi resi
conto davvero che non c'eri più.
Era tutto uguale, eppure
tutto diverso. Non era altro che un mero insieme di terra, alberi ed
erba, nient'altro. Ti eri portato via anche la magia di quel luogo.
Non mi rimaneva più
nulla.
Nemmeno il sole al
tramonto di settembre era più caldo ed accogliente come quello
che ci aveva avvolti,
fino a poche settimane prima.
….......
Me ne tornai alla mia
vita solitaria, come in coma. Vivevo sì, ma dentro ero morta.
Avevi ucciso i miei
sogni, le mie speranze e nel pozzo nero nel quale ero sprofondata,
non percepivo altro se
non echi lontani della realtà.
Iniziai a provocarmi
dolore di proposito, per cercare di sentirmi viva di nuovo.
Quando posavo la lama
del rasoio sulla mia pelle....
...era quello l'unico
istante in cui riemergevo dai miei incubi.
Facevo attenzione a non
entrare troppo in profondità e ad indossare maniche lunghe
anche quando faceva
molto caldo.
Mi ero estraniata da
tutti, in primis dalla mia famiglia,
che assisteva attonita
ai miei inspiegabili silenzi, senza riuscire a trovare una
spiegazione.
Continuai così per
mesi, andando avanti per forza di inerzia, diventando sempre più
brava a nascondere il marcio che si accumulava dentro di me e il caos
dentro la mia testa.
Ero diventata lo spettro
di me stessa.
E la colpa era solo tua.
Tu mi avevi ridotta così.
Mi avevi promesso il
paradiso e invece mi hai lasciata qui, a marcire all'inferno.
Non riuscivo a
dimenticarti, avevo impresso nella mia memoria ogni istante, ogni tuo
sorriso, ogni tuo tocco, ogni tuo gemito, quando eri dentro di me.
Passarono i giorni e le
stagioni, finché un mattino, lungo la strada per andare al lavoro,
una rivista attirò la
mia attenzione, sul bancone dell'edicola.
Era solo una rivista di
musica indie locale, niente di troppo patinato.
Insieme a te c'erano
altri 3 ragazzi nella foto in copertina, vestiti in modo bizzarro
e coperti di simboli dei
quali ignoravo il significato e in basso la scritta a caratteri
cubitali:
30 SECONDS TO MARS.
Ecco il
dottore.
E' uno
nuovo, la dottoressa Valentine deve essere stata trasferita.
Peccato,
non mi dispiaceva quella vecchia zitella acida.
Anche se
non aveva mai capito un cazzo di me. Come nessun altro, del resto.
Questo
nuovo, dice di chiamarsi MacNamara...avrà sì e no 35 anni.
O forse
ne ha di meno, ma portati male.
Basta
guardare il suo pallore e la stempiatura incipiente sulle tempie.
“Di che cosa mi vuoi
parlare, Annabelle?”
Sempre
le stesse cazzate, come da manuale di psicologia.
E' già
il quarto medico curante che mi assegnano.
Ho visto
iniziare ognuno dei precedenti con entusiasmo e li ho visti fallire
miseramente
nel giro
di pochi mesi.
“Perché non iniziamo
parlando della tua famiglia?”
Che cosa
vorresti che ti raccontassi, dottore? Che mio padre mi scopava?
Che mia
madre era una sgualdrina, magari anche ubriacona?
Che
eravamo poveri in canna e costretti a rubare per avere di che
mangiare?
Levatelo
dalla testa.
E
smettila di fissarmi in quel modo.
Facendo
finta di restare impassibile, quando è più che evidente che mi stai
giudicando.
Lo Stato
ti paga per curarmi, senza giudicarmi. Hai studiato e fatto pratica
per questo.
Ma
nessuno di voi, psichiatri del cazzo, ci riesce.
“Te la senti di
raccontarmi cos'è successo il 27 marzo dell'anno scorso, a Los
Angeles?”
No, non
me la sento, quindi vaffanculo.
Non ho
fatto niente di male. Niente. Niente.
E
pensare che....
Erano
già due settimane che girovagavo senza meta nella città degli
angeli.
Finalmente
avevo scoperto dove abitavi e cosa stavi facendo.
Avevi
anche tagliato i capelli corti e messo su muscoli.
Stavi
vivendo il tuo sogno, con la tua band.
Ma
tu avevi distrutto il mio, di sogno.
Mi
avevi illusa e poi scaricata, senza una parola.
Ti
ho scritto una lettera al giorno, da che ero lì, ma non mi hai mai
risposto.
Le
ho recapitate a mano, direttamente a casa tua, cercando ogni volta di
sbirciare dentro
senza
farmi notare.
Quella
mattina mi ero alzata all'alba e passeggiavo sul lungomare quasi
deserto,
poco
lontano dal pulcioso motel nel quale alloggiavo,
quando
un manifesto catturò per caso la mia attenzione: un vostro concerto,
proprio
lì in città la sera successiva.
Era
quella l'occasione che aspettavo.
Ti
volevo. Dovevi essere mio di nuovo, a tutti i costi.
Il tempo non passa mai, qui dentro.
Se solo quella schifosa dell'infermiera mi avesse lasciata in pace,
l'altro giorno,
sarei potuta rimanere a farmi gli affari miei in camera mia,
continuando a scrivere il mio diario
e scontare la mia pena, senza dare fastidio a nessuno.
Invece no, quella doveva mettersi a dare di matto, solo per qualche
graffio.
Stupida puttana!
Ora, otre ad essere barricata qui dentro, devo anche sorbirmi sedute
di psicoanalisi
quasi tutti i giorni e razione doppia di psicofarmaci
che mi somministrano di nascosto, mischiandoli nella minestra o
nell'acqua.
Per questo ho smesso di mangiare, non sono mica scema.
Quelle medicine mi porterebbero via TE, il mio ricordo più bello.
E quell'ultima volta che ho incrociato i tuoi occhi ambrati....
Poco
dopo il termine del concerto, mi intrufolai nel backstage.
Ti
vidi uscire da un camerino, chiaramente docciato di fresco e ancora
elettrizzato per lo show.
Ero
lì davanti a te, ma tu hai fatto finta di niente.
Hai
finto di non conoscermi e ti sei voltato dall'altra parte,
abbracciando
una
ragazza bionda con dei jeans e un top talmente attillati, da lasciare
ben
poco all'immaginazione.
Ti
sono corsa dietro. Ho gridato il tuo nome.
Mi
sono umiliata, pur di riuscire a parlarti.
Ma
quei gorilla della security del locale mi hanno trattenuta e intimato
di andarmene di lì.
Non
poteva essere vero. Perché fingevi di non riconoscermi??? Perché i
tuoi occhi mi guardavano con tanto disprezzo e.....terrore???
“Sono
io!!” Urlavo
disperatamente “Sono
io, Annabelle! Perché te ne sei andato?? Perchè mi hai lasciata
sola? Io ti amavo! IO TI AMAVO!!”
Ma
tu eri già uscito dalla porta sul retro, a passo spedito, tirandoti
dietro
quella
sciacquetta con le codine bionde.
Decisi
di lasciar perdere e che sarei tornata più tardi.
Avevo
visto dov'era parcheggiato il tour bus e lì non ci sarebbero stati i
buttafuori
a
tenermi lontana da te.
Un
paio di ore dopo, eravate ancora tutti là dentro, probabilmente a
sbevazzare
e
ascoltare musica, per festeggiare il successo del concerto.
Me
ne stavo lì fuori, appoggiata al tronco di un albero, in attesa.
Prima
o poi saresti uscito da lì.
Ero
calma.
Ero
lucida.
Ero
pronta.
Proprio
come la colt scintillante che nascondevo dentro la giacca.
***********
“Com'è
andata la prima seduta con la paziente?”
Il dott. Neumann, direttore del Centro di Igiene Mentale Harlech, si
accomodò sulla sedia di pelle nera dietro la sua imponente scrivania
in rovere lucido. Si aggiustò gli occhiali sul naso ed intrecciò le
mani davanti a sé, scrutando l'uomo seduto di fronte a lui
inclinando lievemente un sopracciglio, in attesa della sua risposta.
“Beh,
non mi aspettavo molta collaborazione da parte della ragazza, visti i
precedenti e soprattutto essendo la prima seduta insieme. Ho letto
attentamente il profilo tracciato dalla dottoressa Valentine e la
cartella clinica della ragazza, ma prima di continuare, ci terrei ad
avere il suo punto di vista, così da poter adottare la strategia
migliore...un'unica seduta non mi è sufficiente per avere un quadro
completo.”
“Lei
vuole la mia opinione? Eccola. Quella donna è ancora nella fase di
rifiuto, bisognerà scavare molto più a fondo, per farle prendere
coscienza di ciò che ha fatto. E' ancora convinta di aver avuto
davvero una storia d'amore con l'uomo che ha tentato di uccidere, il
signor Leto. Lo stato di depressione nel quale verteva già da anni,
sfociato nell'autolesionismo, l'ha portata a crederlo. Probabilmente
una somiglianza reale tra Shannon Leto ed il ragazzo conosciuto a
Pasadena, c'era davvero, ma Dio solo sa perché la sua mente l'abbia
portata a pensare che potesse essere stata la stessa persona. Per
fortuna la pistola che aveva era fredda, quindi il primo colpo che ha
sparato ha preso il ragazzo solo di striscio, altrimenti la sua
condanna sarebbe stata il carcere a vita, quanto meno. La avverto da
subito che non sarà facile, far breccia nella sua psiche. Nessuno
c'è mai riuscito prima d'ora e non mi aspetto che ci riesca lei. Ha
manifestato aggressività sin dal primo momento in cui è entrata qui
dentro, quasi 2 anni fa e l'ennesimo episodio di violenza di tre
giorni fa, ci ha costretti a prendere provvedimenti e chiuderla in
isolamento. E' un pericolo per lei stessa e per gli altri, non
potevamo tenerla in reparto. Più volte ha tentato di sottrarre
tranquillanti ed attrezzatura medica, per tentare il suicidio, ma
quei gesti disperati sono solo una richiesta d'aiuto inconsapevole.
Non sono mai andati a buon fine, sì, ma solo per scarsità di
convinzione e determinazione nell'andare fino in fondo. Se vuole il
mio parere, dovrà partire proprio dall'analisi di questi episodi,
per iniziare il percorso di guarigione. Scoprire cosa le passa in
mente, prima di compiere quei gesti. Forse ci troverà un barlume di
consapevolezza.”
Il
dott. Neumann aveva l'aria stanca e rassegnata, mentre pronunciava
queste parole, mentre il dott. MacNamara, da bravo ex studente di
Yale, primo della classe in ogni materia, prendeva diligentemente
appunti ed annuiva di tanto in tanto. Il Direttore non si aspettava
granché da lui, come gli aveva detto a chiare lettere poc'anzi.
Psichiatri di maggiore esperienza e levatura avevano fallito con
Annabelle Summer (*), sarebbe stato già un miracolo se quel neo
laureato secchione sarebbe uscito vivo da quella cella. Lei l'avrebbe
fatto a pezzi psicologicamente.
Un po' gli dispiaceva per lui, in realtà, ma d'altra parte aveva
sempre pensato che un bravo medico si riconoscesse anche dal modo in
cui incassava le sconfitte. In fin dei conti non gli interessava
granché del dottor MacNamara. Avrebbe avuto tutto il tempo per
rifarsi, in futuro, con altri pazienti.
“Bene, la ringrazio signor Direttore, per avermi concesso qualche
minuto del suo tempo.”
“Si figuri. Sono certo che tornerà ben presto da me, per
approfondire il discorso” così dicendo gli porse la mano e
aggiunse “Ora, se vuole scusarmi, stasera c'è il Super Bowl e mio
figlio mi aspetta a casa per guardarlo insieme. Non me lo perderei
per niente al mondo”sorrise e ammiccò, cercando la solidarietà
del giovane medico.
“Certo, certo. La famiglia prima di tutto. Grazie di nuovo e buona
serata a lei.”
Dopo essersi congedato, il dottor Neumann si avviò in fretta lungo i
corridoi, per il solito giro di routine in reparto, prima di uscire.
Giunto nell'ala est, svoltando l'angolo si ritrovò nella stretta
anticamera dalla quale si accedeva alla cella di isolamento. Se
poteva, evitava quel luogo, a meno che non ci fosse costretto.
Nonostante i 23 anni di esperienza come psichiatra ed i 12 anni alla
direzione del Centro, gli faceva ancora un certo effetto.
Quella sera non poté evitare di soffermarsi, visto che lui
era tornato.
Gli dava le spalle, ma l'aveva riconosciuto subito dai jeans
strappati che indossava – come quelli che tanto amava suo figlio
adolescente – ed i capelli castani sparati in aria. Era immobile
davanti alla porta, le mani in tasca, mentre sbirciava l'interno
della cella dalla finestrella senza farsi vedere, come sempre.
“Oh! Signor Leto, di nuovo qui?”
Shannon trasalì.“Direttore! Lo so che l'orario di visita è
finito, ma visto che domani dovrò partire per il tour e starò via
per diversi mesi, volevo passare a vedere come stava....”
“Non si preoccupi, non è un problema. Può venire quando vuole.”
Shannon tornò a rivolgersi verso quel che rimaneva della giovane
Annabelle Summer, raggomitolata su un fianco in posizione fetale, sul
pavimento.
“Ancora nessun miglioramento, Doc?”
“Purtroppo no. Abbiamo un nuovo medico curante, un giovane
stavolta. Crediamo che con un approccio più fresco e più...moderno,
magari....” il direttore spiegò, senza molta convinzione.
“....magari non si risolverà un bel niente, come al solito. Almeno
ha ripreso a mangiare?”
“Temo di no...ultimamente sembra voler gettare la spugna. Si sta
spegnendo poco a poco. Se continua a rifiutare il cibo, saremo
costretti a nutrirla artificialmente, ovviamente. Ma prima dobbiamo
attendere e sperare che si riprenda con le sue forze.”
Guardò il ragazzo con un misto di compassione ed ammirazione. Chi
altro sarebbe riuscito ad andare a trovare quasi tutte le settimane
per oltre 2 anni, la donna che aveva tentato di ucciderlo?
“Ehm...per il bene della paziente, sono costretto a chiederle di
allontanarsi dal vetro. Qualora si svegliasse e la vedesse, non
sappiamo che reazione potrebbe avere...”
“Certo, mi scusi. Me ne stavo andando comunque” Shannon strinse i
pugni e si morse il labbro, abbassando lo sguardo a terra, accigliato
“Non saprò mai il perché, non è vero doc?”
Il dottor Neumann sospirò lievemente e attese un paio di secondi,
scegliendo le proprie parole con cura. “Solo il tempo ci sarà
testimone.”
“Voi strizzacervelli dovete sempre essere così vaghi, vero? Un
semplice 'no' mi sarebbe bastato...”
Poggiò il palmo della mano sulla porta per qualche istante e, dopo
un'ultima occhiata ad Annabelle, si voltò verso il direttore.
“Beh, arrivederci, dottore. Ci rivedremo tra qualche mese.”
“Lo spero...” si strinsero la mano e per un momento tacquero
entrambi, guardandosi negli occhi “Arrivederci e buona fortuna,
ragazzo.”
Shannon si avviò su per il corridoio, puntando verso l'uscita. Il
dottor Neumann lo seguì per un attimo con lo sguardo, prima di
voltarsi di nuovo verso la cella e trovarsi di fronte lei, in piedi
al di là del vetro.
Fissava il punto esatto in cui era stato Shannon, fino a pochi
secondi prima.
Lentamente poggiò il palmo della mano sulla porta, mentre una
lacrima fredda e solitaria scendeva a rigarle il volto.
Negli occhi ancora il riflesso di quel tramonto d'estate.
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NOTE:
Il
titolo è tratto dalla canzone dei My Chemical Romance "Early
sunsets over Monroeville", alla quale mi sono ispirata per questa OS.
(*) Per
chi non lo sapesse “Leto”, in lingua russa, significa “Estate”
(appunto “Summer”)
Dedica
specialissima alla mia Donnah Lexie, a Cimo per avermi spronata e
alle mie lovvatissime #crazyforGOT: Monica e Ilaria <3
Last
but not least, grazie a tutti voi lettori, spero vi sia piaciuta la
mia follia ;)
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