AUTORE: Yukino
TITOLO: A modo mio
FANDOM:RPF My Chemical Romance
CANZONE SCELTA: Piazza Grande
GENERE: Introspettivo/Romantico (Niente drammatico notate?Sono fiera di
me!)
RATING: Giallo
AVVERTIMENTI: Slash, AU, Gerard che parla. No davvero, parla davvero
TANTO, praticamente non fa altro, quindi è DAVVERO un avvertimento.
NOTE: Sono due capitoli più epilogo, tutto già scritto, quindi non
preoccupatevi, tempo una settimana e avrete tutto. Questa fic partecipa
al contest di Parsifal in omaggio a Lucio Dalla, come vedete la canzone
scelta è Piazza Grande e allo stato attuale delle cose non ho ancora
idea di che posizione occuperò. La canzone che canta a un certo punto
Gee è The end, dei My Chem. Oh beh, la riconoscerete tutti suppongo, ma
non si sa mai XD.
A MODO MIO
CAPITOLO PRIMO
Santi che pagano il mio pranzo non ce n'è
sulle panchine in Piazza Grande,
ma quando ho fame di mercanti come me qui non ce n'è.
Dormo sull'erba e ho molti amici intorno a me,
gli innamorati in Piazza Grande,
dei loro guai dei loro amori tutto so, sbagliati e no.
A modo mio avrei bisogno di carezze anch'io.
A modo mio avrei bisogno di sognare anch'io.
Era un azzurro così limpido e intenso che Frank avrebbe davvero voluto
racchiuderlo in una scatola, per poi tirarlo fuori nelle giornate di
pioggia, guardarlo e ricordarsi che esistevano ancora cose del genere.
Un cielo tanto azzurro da far male agli occhi, un sole che accarezzava
dolcemente i contorni delle case e dei palazzi, la musica che si alzava
lenta e dolce nell’aria.
Era la musica che l’aveva così colpito inizialmente, spingendolo a
svoltare in un quel vicolo stretto, seguendolo fino a che non si
ritrovò in una piazza che ancora non aveva visitato. Era convinto di
aver visto ogni angolo di quella città, la città che sarebbe stata la
sua casa per un tempo indefinito, quello che gli ci si sarebbe voluto
per stancarsi e trasferirsi da un’altra parte, probabilmente.
E ora che finalmente aveva trovato quella piazzetta suggestiva, piena
di palazzi d’epoca che si affacciavano in un grande spazzo, nel mezzo
del quale capeggiava una fontana, si ritrovava a guardarsi attorno
curioso, cercandone la provenienza.
La piazza non era deserta, tutt’altro. Poteva sentire il
chiacchiericcio dei ragazzi che si stendevano al sole, nello spiazzo
erboso che circondava la fontana, il gorgoglio dell’acqua accompagnava
il rumore delle risate e la musica faceva da sfondo a un quadro
decisamente rilassante e piacevole.
Non faceva per lui tutta quella quiete, tuttavia non poté fare a meno
di pensare che forse invece era proprio quello di cui aveva bisogno,
quello che cercava rifugiandosi così lontano da casa, dall’altra parte
dell’America, in una città totalmente all’opposto di quella in cui era
cresciuto. Se fosse stato un po’ più appassionato d’arte e di
architettura probabilmente avrebbe adorato infilarsi in ogni anfratto,
curiosando dentro ogni chiesa ed entrando in ogni palazzo. Non che non
lo facesse ugualmente, ma a lui più che l’arte interessavano le
persone. Qui ne aveva incontrate davvero poche, ancora, ma non poteva
fare a meno di notare come il loro modo di vivere fosse diverso da
quello a cui era abituato, come affrontavano gli stessi problemi con
una mentalità totalmente differente. Era affascinante studiare le
persone, Frank ci si era sempre perso dietro. Per quello gli
interessava tanto capire chi stesse suonando. Si avvicinò lentamente al
palazzo da cui gli sembrava provenisse il suono e lo vide. Era seduto
sugli scalini di pietra, gambe incrociate, chitarra appoggiata con
noncuranza sopra di esse, jeans e maglietta nera, logori e stracciati
entrambi. Non fu certamente quello a colpirlo, tuttavia. I capelli neri
scivolavano davanti agli occhi, in un onda scura che celava il viso, la
testa chinata per seguire gli accordi. Un grosso cane, probabilmente un
incrocio con un lupo e chissà che altro, alzò la testa non appena lo
sentì arrivare, e fu in quel momento che il ragazzo alzò il viso. Non
era la bellezza in sé; era il modo in cui lo sguardo si posò su di lui,
quasi volesse divorare l’intera sua figura e poi arrivato alla carne
volesse passare all’anima. Erano le labbra sottili ma piegate in un
sorriso gentile e un po’ storto, era il naso da folletto che arricciò
quando il sole gli finì contro gli occhi, era la pelle pallida che
contrastava così magnificamente con il nero che lo circondava. Era il
modo in cui iniziò a cantare quando lo vide.
Iniziò lentamente, quasi sussurrando le parole, vivendole in un modo
che non aveva mai sentito o visto, con tutto il viso, con tutto il
corpo.
Adesso venga uno, vengano tutti, a questa tragica vicenda
strofinatevi il volto per eliminare il trucco, il peccato è risparmiare
quindi infilate in fretta quel vestito nero, mischiatevi alla folla
potreste svegliarvi e notare che siete qualcuno che in realtà non siete
se guardate nello specchio e non vi piace quel che vedete,
potrete trovare la nostra prima mano, quello che sembra essere me
quindi, signore, radunatevi e baciate questo addio e
incoraggiate quei sorrisi, e poi dividetevi, potrete volare
Era come se una mano gli stesse stritolando lo stomaco, era come se
quel ragazzo avesse preso la sua fottuta vita, tutto quello che
sentiva, tutto quello che provava di notte, stretto nel suo letto
aspettando la pace che solo il sonno poteva dargli, e glielo stesse
gettando addosso.
Un'altra contusione, la traccia audio del mio funerale, ha la
mia dimissione
un'immensa mancanza, voi avete conservato delle file di sedie frontali
a quei penitenti, quando cresco non voglio essere proprio niente.
Non conosceva le parole o la melodia, ed era effettivamente stranissimo
considerato tutto, ma in quel momento non ci fece caso. Era occupato a
farsi trascinare via dalla voce alta e pulita, che scendeva di tono per
diventare un gemito suggestivo e poi si alzava, sottolineando parole e
dando profondità alla canzone.
Si, si si, ho detto si, avanti
metti la tua mano nella mia, dimmi che tu, dimmi che un giorno,
se riesci a sentirmi, semplicemente camminerai via.
Quando cominciò quello che doveva essere il ritornello, crebbe di tono,
diventando alta e intensa, quasi gridando, facendogli venire l’assurda
voglia di correre da lui e farlo, afferrargli la mano e semplicemente
urlare, piangere, ridere, lasciare andare tutto.
Rimase immobile quando la melodia finì e il ragazzo posò la mano sulle
corde, fermando la loro vibrazione e limitandosi a guardarlo.
Fu il cane che ruppe quello strano intreccio di sguardi, correndo verso
Frank scodinzolando allegro, guardandolo con occhioni speranzosi.
Frank si riscosse e passò una mano sul pelo morbido, sorridendo quando
l’animale posò le sue zampe sul suo petto, letteralmente saltandogli
addosso per avere più coccole.
Quando alzò lo sguardo sul ragazzo, si accorse che stava sorridendo.
Era un sorriso che gli illuminava gli occhi, riempiendo le guance tonde
di fossette e storcendo lievemente la bocca. Non riuscì a non trovarlo
dannatamente adorabile.
-Come si chiama?- chiese Frank, avvicinandosi al ragazzo e sedendosi al
suo fianco. Non aveva niente da fare dopo tutto, in più per sua stessa
ammissione gli piacevano le persone, quindi perché no?
Il ragazzo alzò le spalle, ancora col sorriso sulle labbra.
-Non so, non sono mai riuscito a deciderlo, così ogni giorno lo chiamo
in modo diverso, cercando di capire quale nome gli piace di più.-
Frank alzò un sopracciglio, questo era il discorso più strano e
ridicolo che avesse mai sentito.
-Sai che è una cosa assurda vero?- lo informò ad ogni buon conto, sia
mai che il ragazzo ritenesse normale fare una cosa del genere.
L’aveva detto con una tale tranquillità che pareva pensarlo.
L’altro si mise a ridere, guardando il cane e accarezzandogli la testa.
-Tranquillo ne sono consapevole.- rispose, guardandolo poi di
sottecchi, gli occhi verdi appena visibili da sotto la cortina di
capelli nerissimi.
-Devo chiamare anche te con un nome diverso ogni giorno?- aggiunse poi,
sorridendo come se il pensiero in realtà lo divertisse enormemente.
Frank restituì il sorriso, ritrovandosi a rilassarsi davvero per la
prima volta da che il suo viaggio era partito.
-No, sono Frank.- lo informò, osservando incantato il movimento delle
mani pallide e sottili del ragazzo, come si mossero veloci e aggraziate
ad aggiustare una ciocca vagabonda dietro l’orecchio, spostando poi
l’attenzione all’espressione felice che assunse il suo viso quando fu a
conoscenza del suo nome.
-Sono felice che alla fine tu abbia deciso di dirmelo, sai. È
divertente quel gioco ma non funziona così bene con gli esseri umani.
Sono Gerard comunque- commentò il ragazzo, posando con attenzione la
chitarra fra loro e allungandosi un po’ al sole.
-Stai insinuando che io sono meno intelligente di un cane?- osservò
Frank, un sorrisetto divertito in volto. Era consapevole che quel
dialogo era vagamente surreale, non tanto per il contenuto in sé,
quanto più per le modalità del loro incontro e la tranquillità con cui
si erano messi a parlare. Ma, invece di spaventarlo, tutto questo gli
dava un vago senso di calore.
Gerard rise di nuovo, sembrava che il suo viso fosse fatto per quello.
Quando cantava era espressivo e faceva venire i brividi per le cose che
riuscivi a immaginare solo guardandolo in faccia, ma quando rideva era
come se tutto il suo viso si accendesse di una luce che veniva da
dentro, come accendere una candela dentro una casa fatta di vetro
colorato.
-No non tu, gli esseri umani in generale…- commentò, fiero della
soluzione che aveva trovato.
-Quindi io sarei meno intelligente di un cane non in quanto io ma in
quanto appartenente alla razza umana?- si accertò Frank, fece una
piccola pausa d’effetto, poi si stese sui gradini dietro di sé, come
aveva fatto Gerard.
-Non so se questo dovrebbe consolarmi o cosa. Suppongo che tu sia salvo
dal fatto che io amo fottutamente i cani- terminò, allungando una mano
per accarezzare l’animale come a sottolineare le sue parole.
-Sono onorato di essere scampato a morte dolorosamente dolorosa allora.
Comunque oggi si chiama Anakin- replicò Gerard, ridendo apertamente
quando Frank rotolò sul fianco per osservare la pancia del cane e poi
lo guardò scandalizzato.
-Ma è una femmina!- esclamò, allargando le braccia per sottolineare il
concetto.
-Tu sei troppo legato alle forme e alle convenzioni umane, giovane
Padawan- rispose Gerard, sventolando una mano per ribadire come fosse
senza importanza quello che aveva detto l’altro.
Frank ci rinunciò.
-Ti piace Star Wars- commentò, sperando finalmente di poter avere una
conversazione che fosse in grado di seguire senza che gli venisse il
mal di testa.
Vide lo sguardo di Gerard illuminarsi e sorrise internamente.
Dopo mezz’ora in cui il ragazzo aveva parlato ininterrottamente della
Saga Cult Per Eccellenza E Chi Non L’aveva Vista Era Uno Sfigato, Frank
aveva imparato tre cose su Gerard.
La prima era che quel ragazzo era davvero logorroico, quando cominciava
a parlare di qualcosa che gli piaceva poteva continuare ad oltranza.
La seconda era che in ogni caso tentare di dare un senso logico ai suoi
discorsi era davvero pura fantascienza.
La terza era che avrebbe ucciso pur di continuare a vedere il suo
sguardo illuminarsi in quel modo, l’espressione così entusiasta e il
sorriso così ampio e sincero.
-Vivi qui?- domando Frank, approfittando di una pausa sorprendentemente
lunga in cui Gerard si stava accendendo una sigaretta.
Lui annuì, osservando con sguardo vago e affettuoso la piazza, gli
studenti che affollavano ancora il luogo, alcuni si tenevano per mano,
altri approfittavano degli angoli bui per fare molto più che tenersi
per mano.
-Ormai sono loro i miei amici- disse all’improvviso, rompendo un
silenzio che si protraeva da alcuni minuti.
-Li conosco uno per uno, li vedo sempre. A volte si siedono vicino a me
e cantiamo assieme, o dipingo per loro qualunque cosa mi chiedano. Ho
perso il conto di quanti compiti d’arte ho fatto.-
Rise, seguito da Frank. C’era qualcosa di magico in lui, con il suo
entusiasmo quasi infantile e la profondità che dimostrava quando
cantava.
-Ma davvero vivi qui? Voglio dire…- si interruppe, incerto a proposito
delle parole da usare per non essere indelicato. Lui non era bravo con
le parole, nella sua mente filava sempre tutto liscio ma poi,
puntualmente, quando parlava faceva ogni volta qualche disastro,
finendo per attorcigliarle e farle sembrare orribili.
Gerard lo salvò.
-Se sono una specie di barbone?- chiese, divertito. Frank annuì,
imbarazzato.
-Non devi aver paura di dire le cose Frank.- si strinse nelle spalle,
non sembrava offeso ad ogni modo.
-So che non vuoi offendermi. Sentiti libero di parlare come credi con
me, davvero. Odio quando la gente prende mille giri di parole per dire
una cosa così semplice.-
Frank si mise a sedere, accendendosi una sigaretta e afferrando la
chitarra vicino a lui.
-Quindi sei un fottuto barbone o no cazzo?- disse allora, ghignando
quando Gerard scoppiò a ridere, senza riprendersi la chitarra,
limitandosi a osservarlo curioso.
-Si potrebbe dire così, sì.- rispose poi, sibilino.
-E in che altro modo si potrebbe dire?- chiese ancora Frank,
cominciando ad arpeggiare delicatamente note a caso.
-In realtà ho una specie di appartamento. Un monolocale. Ok una stanza.
Ma mi limito a usarla quando le notti sono troppo fredde, piove o fa
freddo. La maggior parte del tempo la passo qui.- accennò con il mento
la custodia della chitarra aperta ai suoi piedi, con alcuni spiccioli
gettati dentro.
-E arrivi a comprarti da mangiare e pagare l’affitto?- chiese,
scettico. Sapeva che era quantomeno scortese riempirlo così di domande,
per quanto Gerard non si mostrasse seccato o infastidito. Ma non
riusciva a fermarsi. Era così distante dal modo che aveva lui di
vivere, sembrava così dannatamente libero da tutto, sereno, perfino
felice della vita che conduceva. Non riusciva a ricordare l’ultima
volta che si era sentito in questo modo.
-Non sempre- rispose Gerard, alzando le spalle.
-Alcune volte faccio qualche lavoretto qui e la, sono bravo a sistemare
le cose, decoro case, cose così. Una volta una tipa un po’ sciroccata
mi ha pagato una follia per affrescarle tutta la casa. È stata la cosa
più bella che io abbia mai fatto, penso che quella casa sia stato il
mio capolavoro.-
Si perse a descrivergli minuziosamente tutte le pareti della casa, i
colori che aveva usato, la differenza tra una pittura a muro e un
affresco, l’effetto finale. Frank si perdeva nelle sue parole,
nell’entusiasmo che aveva mentre gliene parlava e nel modo in cui
gesticolava per sottolineare i concetti e accompagnare le descrizioni.
Sarebbe rimasto ad ascoltarlo in eterno.
-È come se tutto questo fosse una risposta a tutto quello che ho sempre
implorato nei momenti peggiori della mia vita. So che è strano, ma ho
imparato che la felicità si nasconde nei posti più impensati-
Gerard sorrise, abbassando la testa e continuando a parlare piano,
sottovoce, quasi gli stesse confidando un segreto.
-Non nego che a volte mi manca la mia vecchia vita. Mi mancano le
puttanate di mio fratello, le uscite con gli amici, non dovermi
preoccupare ossessivamente delle condizioni atmosferiche.- rise
leggermente, seguito da Frank, che ascoltava attentamente.
-La cosa che mi manca di più sono le carezze di mia madre. Sai quando
hai avuto una giornata di merda e non parli con nessuno, convinto che
tanto nessuno ti capirà e tutta questa roba da adolescenti emo?-
aspettò che Frank annuisse prima di continuare. Oh se lo sapeva bene.
-E poi tua madre entra in camera e ti accarezza. Fa solo questo, ma tu
capisci che non è vero che sei solo, che non sei riuscito ad ingannarla
nemmeno per un istante e che, a modo tuo, avevi un dannato bisogno di
quella carezza.- Frank distolse lo sguardo, deglutendo a fatica.
Sembrava che Gerard sapesse esattamente cosa stava provando, perché era
così lontano da casa, che cosa stava domandando alla vita. Sembrava che
stesse cercando di rispondergli, a modo suo.
Il ragazzo allungò una mano, posandola sulla sua nuca. Frank sobbalzò,
non se l’aspettava. La pelle era fresca e il contatto così rassicurante
e benefico che avrebbe voluto mettersi a piangere.
-Tutti, a modo loro, hanno bisogno di quella carezza. Tutti hanno
bisogno di sognare un po’. Si tratta solo di capire dove si nasconde
quel sogno. Si tratta solo di trovare quella carezza.-
Frank si morse il labbro. Perché faceva così dannatamente male?
La mano continuava a massaggiargli la nuca ed era l’unica cosa che
riusciva a impedirgli di piangere.
-E quando hai trovato entrambi?- sussurrò.
La risposta arrivò immediata:
-Saresti un pazzo a lasciarteli scappare.-
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