Il
Coltello
Lui si lanciò per le scale, nere, in quel vicolo buio, senza il
tempo di lanciare uno sguardo al cielo, che sembrava così dannatamente
lontano.
Tra due file di palazzi, lui correva, con la borsa che pesante
gli batteva contro il fianco, con il fiato mozzo che si faceva sempre più corto
ad ogni metro.
Non poteva mollare.
Non ora, non adesso che…
Destra, poi sinistra, e ancora sinistra, finché non trovò la
porta che cercava. Mancavano solo pochi metri a quella parvenza di rifugio,
doveva solo resistere un altro po’.
Non aveva il diritto di cedere, di fermarsi, non ad un passo da
qualcosa molto più grande di lui
Quanto sono lontani loro? LORO?
Voltò ancora e poggiò rudemente le spalle contro un muro, con
l’orecchio teso ad ogni suono e le lenti degli occhiali sporche che riflettevano
delle immagini vaghe.
LORO, in fondo, avevano preso un’altra via, fortunatamente
lontano da lui.
L’uomo sospirò di sollievo per poi stringere convulsamente la
borsa al suo corpo.
C’era, ancora.
C’era.
Alzò gli occhi al cielo, e tirò indietro alcuni ciuffi scuri di
capelli che nella folle corsa gli erano finiti sul viso, liberandosi dal laccio
improvvisato.
Doveva trovare un posto sicuro.
La sua mano
[che la destra non sappia cosa fa la
sinistra]
la sua mano cercava la lampo della borsa. Voleva aprire, voleva
vedere, voleva credere…si insinuò tra le pieghe della vecchia borsa scura,
cercando un pertugio, anche un piccolo spiraglio. E le avrebbe detto che era
stato solo tutto uno sbaglio, che non voleva davvero aprire la borsa, che non
voleva guardarci dentro prima di lei ma che la mano era finita lì per
sbaglio.
Ma venne bloccata.
Fu un sussulto di lui e una mano femminea, lei lo riportava alla
ragione. Non poteva aprire la borsa fuori, non davanti a tutti, non davanti a
nessuno, non in quel vicolo.
Non lui.
E c’era lei, con il suo lungo impermeabile nero e i suoi
occhiali scuri, tutta in nero, come un essere di tenebre dalle fattezze di
bimba.
Gli occhi dal lungo taglio, brillanti come due (sporchi)
diamanti.
E una parola.
E un comando
Seguimi.
La corsa riprese, mano nella mano, come due disperati correvano
le vie oscure di quella necropoli i cui abitanti sembravano avere occhi, sempre,
occhi troppo grandi, che osservavano tutto e tutto sapevano, mentre LORO
ridevano e guardavano e sentivano e rubavano verità e nascondevano
tutto.
La borsa diventava a volte troppo leggera, quasi non la
sentivi.
A volte troppo, troppo pesante.
Un fardello troppo grande da portare da soli.
Arrivarono alla porta, finalmente.
La aprirono e la richiusero silenziosamente dietro di
loro.
Luci si accesero al loro passaggio, luci fioche, da mal di
testa, luci sporche come tutto quello che li circondava.
[Così pulito da essere toppo sporco]
Stanze dimenticate da tutti, dimenticati dal mondo. Un orribile
labirinto di camere, porte, tavoli e indicazioni cancellate.
Lui cercò il suo sguardo gelido, avido. La vide passarsi la
lingua sulle labbra rosse e cercare con gli occhi un segno, qualcosa che la
potesse orientare in quel dedalo di vie, tutte maledettamente uguali.
Lei gli fece un cenno e lui la seguì.
I loro passi (i tacchi di lei, gli scarponcini di lui)
rimbombavano fastidiosamente nella solitudine del palazzo. I rumori sembravano
scorrere in lui come sangue, come elettricità, in quel luogo che era stato
abbandonato misteriosamente troppo velocemente.
Arrivarono in una camera scura, le luci si accesero,
l’elettricità ronzava sopra le loro teste.
Intorno a loro tavoli e scrivanie ammassate ai muri, spinte su
tutto il perimetro della stanza, pericolosamente ingombre di libri e carte e
fascicoli che si ergevano in torri di babele che in tutta la loro decadente
maestà sfidavano ogni legge di gravità.
Sotto i loro piedi il sangue
Lui guardò lei, con apprensione, mordendosi il labbro,
reprimendo gemiti di paura (di eccitazione).
Lei stava al centro della stanza, senza curarsi di nulla. Teneva
le mani in tasca, sicura e precisa in ogni suo movimento, perfetto esempio di
una donna che sa esattamente quello che vuole e da chi lo vuole, guardava da un
lato all’altro della stanza, con gli occhi che analizzavano e
cercavano.
Con gli occhi che brillavano in quella luce così
buia.
Al suo avvicinarsi, le carte che stavano sul tavolo al centro
della stanza si sparpagliarono a terra, con veemenza, come se un vento
improvviso avesse animato il palazzo nero, si lanciarono impazziti verso il
perimetro della stanza, per poi poggiarsi, ancora, con leggerezza,
svolazzando quasi sul pavimento imbrattato di polvere ( di sangue che solo lui vedeva. Pazzo. Pazzo. Perduto.
Perduto.)
Vieni
Lei disse.
E lui, che null’altro poteva fare se non obbedire, la
raggiunse.
La borsa ad un tratto sembrò fremere, come se l’oggetto
contenuto all’interno si agitasse
(Siamo come vermi all’interno del
mondo)
come se, leggero, si librasse in aria per la felicità di una
meta raggiunta, con ogni mezzo, agognata da troppo tempo.
L’oggetto sorrise malignamente. In effetti tutti noi siamo
strumenti, pensò dentro di sé.
Lei tolse gli occhiali scuri che si era stranamente lasciata
addosso, e tolse via il cappello, affidandolo all’oscurità della stanza che lo
ingoiò, togliendolo alla vista di lui.
Lui, che rimaneva paralizzato, cercando di voltarsi indietro e
fuggire, cercando di ricordare il sole e ripetendosi che forse, forse,
era ancora in tempo.
Ma era troppo tardi.
Non vai da nessuna parte.
Tu non vuoi andare da nessuna parte.
Disse lei, slacciando l’impermeabile con studiata lentezza,
davanti a lui che la guardava, chiedendosi se in fondo fosse vero quello che lei
diceva, e quello che gli lasciava capire, se era vero che LORO erano veramente
così terribili, se il mondo dei vicoli di fuori era peggiore del palazzo nero
dal pavimento imbrattato di sangue.
È tutto vero.
disse lei.
Lui deglutì, ancora, e chiuse gli occhi due volte,
velocemente.
L’impermeabile fece la stessa fine del cappello e lei mostrò il
suo giovane immortale corpo al povero e tremante spettatore. L’abito nero quasi
disegnato addosso.
Diventata maledettamente difficile distinguerla dal
buio.
La mano di lei fece un gesto imperioso e voluttuoso, e lo tirò a
se come compiendo una magia
Un maleficio, la strega, LORO forse non erano poi
così male
e lui si ritrovò a pochi respiri da lei. Con le sue mani fredde
lei portò le mani di lui sul suo corpo, sulla lampo sottile.
Avanti,
lo incitò, voluttuosa.
Lui perse ogni contatto con la ragione, sapeva bene ormai di
essere perduto per sempre: non era mai stato uno con grandi sentimenti, sia
chiaro, era un ladro, un ladro di rarità e aveva avuto spesso incarichi senza
senso da miliardari eccentrici, e pensava che il viaggio in quel paese ai limiti
dell’ovest fosse solo la meta di un altro libro antico, o qualche gioiello
esoterico. Aveva fatto quello che doveva – pensò mentre faceva scendere la lampo
lungo la schiena di lei, denudandola e notando la bellezza della pelle bianca –
aveva raggirato autorità e pressato e truffato chi si trovava sul suo cammino,
aveva preso il coltello bianco e lo aveva messo nella borsa che il committente
gli aveva dato.
Era un bel coltello, proprio bello.
La voltò e la fece stendere sul tavolo, non aveva ben capito chi
fosse a guidare chi, ma lasciò fare: lei gli prese le mani e se le portò sul
corpo di un bianco assurdo, se le portò alle labbra nere come il buio e si
presero a vicenda tra urla, nel buio della stanza, del palazzo.
Con la rabbia, con la disperazione e con la paura di lui, lei si
nutrì, godette nel ricevere il rancore della sua misera vita, le sue aspettative
fallite e gridò come non mai quando gli confidò, riversandosi in lei, di aver
ucciso, di aver violentato con la mente, di aver peccato contro LORO, contro
LUI, contro LEI.
Lui cadde riverso su di lei, quasi morto,
quasi.
Mentre lei sorrideva, in estasi ancora, con gli occhi vacui e i
riccioli neri sparsi sul tavolo, come neri filamenti secerni da un grosso ragno,
ormai sazio. Portò la mano fuori dal tavolo e la aprì, la borsa svuotò il suo
contenuto e il coltello bianco, come mosso da fili invisibili si adagiò sulla
sua candida mano.
Le dita si richiusero dolcemente sul manico e la lama penetrò
con ancora maggiore dolcezza nelle carni esauste di lui, e la lama scese fino
spaccare le ossa e bevve tutto il sangue e mandò avanti la ferita per tutta la
lunghezza del corpo e tranciò le urla vecchie incitando il moribondo per
nuove.
Maggiore fu la pena se regnava per più di pochi attimi il
silenzio.
Si muoveva frenetico lui, tentando di fuggire nel delirio del
dolore, ma non poteva, intrappolato tra il corpo di lei e il coltello che lo
inchiodava al suo ventre.
non poteva, è troppo tardi ormai
LORO forse non erano poi così male
E intanto lei, ancora maggiormente godeva, si leccava le labbra
mentre lui impazziva dal dolore, mentre lui moriva, accompagnava le sue urla con
i suoi gemiti mentre il bianco del coltello assorbiva il sangue, il grigio, il
giallo, ogni colore del corpo, ogni fibra di vita.
Quando lui on potè più gridare, quando le sue urla non ci furono
più e i muscoli non poterono più flettersi, la lama fuoriuscì dal corpo di lui
con estrema facilità, non lasciando che una sola goccia di sangue gocciolasse da
essa, sembrava essere tornato il silenzio nel palazzo, anche l’elettricità aveva
smesso di ronzare, non si muoveva più nulla, nulla che fosse
vivo.
Lei scivolò da sotto di lui e si rivestì, prima l’abito, poi
l’impermeabile, il cappello e infine gli occhiali scuri a coprire il bianco
degli occhi, poi si mosse, a passi lenti, come in attesa, ma prima di andare
via, leccandosi ancora le labbra rosse e gonfie disse
Ne è valsa la pena in fin dei conti
E uscì.
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