Il faro
-Il
faro, il faro!-
Le urla dei marinai
nel pieno della notte mi svegliarono. Non presi neanche lo scialle, con
la sola tunica di lino uscii sul punte della nave.
-Siamo a casa!-
Puntai lo sguardo
sull’orizzonte: il faro brillava in tutta la sua
maestosità, squarciando la notte. Mancava ancora
un’ora di navigazione per arrivare alla costa, eppure i suoi
contorni focosi già si stagliavano nel cielo. Una gioia
incontenibile mi riempì il cuore. Mi unii alle loro danze e
ai loro canti festosi. A tutti mancava la grande Alessandria, ma io ne
sentivo in particolar modo la mancanza. Per dodici lunghi anni ero
stata strappata da lei. Dopo la morte di mio padre, mia madre volle
allontanarsi da quel “maledetto posto”, come lei lo
chiamava, “dove ogni angolo mi ricorda il mio Alessandro e mi
distrugge di dolore”. Così, oltre ad aver perso
mio papà alla tenera età di otto anni, persi
anche la mia casa, tutto ciò che avevo. Mi portò
in India, la terra che l’aveva vista nascere. Conobbi i miei
nonni, i sovrani. Diventai la loro cocca, mi adoravano. Continuai a
condurre una vita da principessa, quale ero, ma tutto era diverso, mi
mancava la mia terra e la mia gente. Così, diventata ormai
donna, decisi di far ritorno a casa mia. Fu una scelta difficile,
lasciare gli occhi pieni di lacrime di mia madre fu un dolore immenso,
ma mai quanto quello di passare l’intera vita in una terra
estranea.
Mentre i mozzi
preparavano la nave ad attraccare, io rimasi a poppa, accanto al
timone, a godere della dolce visione di casa mia che, piano piano,
iniziava a diventare sempre più nitida davanti ai miei
occhi, tra le ombre della notte. Mi sembrava quasi di essermi
allontanata da lei solo per qualche giorno, tutto pareva rimasto
immobile, identico a quel lontano giorno, quando salii su quella nave
senza mai più far ritorno: i pescatori che gettavano le reti
nel mare calmo, la brezza calda, la luna bianca e il faro dorato
protagonista assoluto.
Quando arrivammo a
terra, una piccola folla ci accolse: le madri che attendevano ansiose
il ritorno dei figli, le mogli desiderose di riabbracciare i loro
mariti, i figli che non aspettavano altro che rivedere i loro padri.
Per me non c’era nessuno. Chi avrebbe potuto riconoscermi?
Partita bambina, ritornavo donna.
Seppure ancora notte,
decisi di far visita al mio vecchio, amato faro. Percorsi la diga che
collegava la terraferma all’isola. Era interminabile, una
sottile lingua di terra che si snodava all’infinito tra le
onde del mare. Le alte mura che la abbracciavano erano possenti,
costruite con pietre e grandi ciottoli che neanche la più
feroce tempesta avrebbe potuto smuovere. Passarci all’interno
regalava alle orecchie l’emozione di un concerto:
l’infrangersi delle onde sulla pietra il tamburo, il vento il
violino, i gabbiani i flauti. Passai un dito sulle rocce lisce ed
umide, velate da un sottile tappeto di muschio. Profumavano di sale, di
un odore che impregnava tutta la città, forse sgradevole al
naso del forestiero, ma dolce e delicato al mio: profumavano di casa.
Il faro si faceva
sempre più vicino, fino a che si stagliò in tutta
la sua maestosità davanti ai miei occhi. Rimasi incantata ad
ammirarlo con il naso rivolto verso il cielo e la bocca spalancata
dalla meraviglia, come la prima volta che lo vidi da bambina. La sua
disarmante altezza mi aveva sempre in qualche oscuro modo intimorita:
mi sentivo così piccola e insignificante ai suoi piedi. Lui
brillava di una luce accecante, avvistata dai marinai anche a
chilometri di distanza, mentre io ero solo una minuscola ombra,
invisibile al mondo. La sua imponente presenza al mio fianco,
però, mi rendeva orgogliosa: era l’emblema della
potenza e della grandezza della mia città e la sua luce era
la medesima di cui anche mio padre brillava. In quel fuoco sempre
acceso bruciava la sua essenza: orientava i marinai nella notte come la
sua saggezza aveva guidato un popolo; le sue fiamme ardenti erano il
caldo abbraccio di un padre l’amore di un marito; la sua
ammaliante luce era il fascino di un uomo che aveva sedotto centinaia
di donne, ma amate due soltanto: mia madre e me.
Stavo in piedi, sulla
terrazza che circondava i piedi del faro. Gli davo le spalle, il viso
rivolto verso il mare. I capelli ondeggiavano all’indietro
mossi dalla brezza che mi carezzava il viso con la dolcezza di un
amante. La grande palla argentea della Luna si specchiava come una
vanitosa signora tra le onde scure che ne storpiavano i contorni
rendendola ancora più affascinante. I pescatori stavano
gettando le ultime reti nella speranza di attirare gli ultimi pesci.
Non mancava molto all’alba e tra poco sarebbero potuti andare
a riposare, soddisfatti o meno del lavoro. Stavo osservando le loro
figure muoversi veloci nella sabbia, quando sentii un fruscio alle mie
spalle. Mi voltai, spaventata. Nella luce del faro si
disegnò il volto di un uomo sulla cinquantina, labbra
carnose e formose nascoste sotto una lunga barba grigia perfettamente
curata, capelli alle spalle dello stesso color cenere con qualche
riflesso ebano, ricordo di una giovinezza lontana, grandi occhi
corvini, profondi come un pozzo, che si confondevano nel nero del
cielo, sormontati da folte sopracciglia. Avrei potuto riconoscere quel
viso tra migliaia, in qualunque luogo, anche in capo al mondo, in
qualsiasi momento, perfino dopo aver passato dodici lunghi anni senza
ammirarlo. Mi gettai tra le sua braccia possenti. Mi strinse forte
contro il suo petto ancora muscoloso nonostante
l’età.
-Signor generale-
risi. Lui sorrise.
Era il consigliere di
mio padre, il primo a conoscere ogni suo desiderio di conquista, il
primo che si offriva volontario per qualunque spedizione, anche la
più ardua e folle; ma più di tutto il suo
migliore amico, quasi un suo fratello, il suo braccio destro, lo
conosceva meglio di quanto conoscesse se stesso. Un secondo padre per
me.
-Sei cresciuta,
bambina-
-Tu sei sempre lo
stesso, invece-
-Che ci fai qui?-
-Mi mancavi,- sorrisi
–mi mancava casa. Appartengo a questa città, non
potevo stare troppo a lungo lontano da lei-
-Mi sembra di udire
parlare Alessandro. Nei tuoi occhi arde lo stesso sfavillio che si
accendeva nei suoi quando organizzavamo una guerra-
-Sai che non avresti
potuto riferirmi parole più apprezzate- risposi, commossa.
Ero molto legata a mio
padre e, per quanto la sua morte si perdesse ormai nella notte dei
tempi, la ferita causata dalla sua perdita ancora mi lacerava il cuore.
Probabilmente l’ideale che avevo di lui era inverosimile: i
miei unici ricordi risalivano alla mia infanzia ed erano quelli di una
bambina che venerava il suo papà come un semidio: qualunque
azione lui compisse era giusta, qualsiasi decisione prendesse non
ammetteva discussione, lui aveva sempre ragione e non commetteva mai
errori. Immensamente potente, infinitamente bello, di una dolcezza
indescrivibile e stracolmo d’amore, ai miei occhi incarnava
la perfezione divina.
Rimanemmo a lungo a
parlare di mio padre, fino a quando il Sole iniziò a
stiracchiarsi oltre l’orizzonte, tingendo il mondo di un
delicato rosa pesca e arancione albicocca, portando l’aria
frizzantina del primo mattino, con il faro che ci proteggeva le spalle
iniziando a riflettere la prima timida luce dorata sul mare calmo con
le sue lamine di bronzo. Un nuovo giorno nasceva ad Alessandria, una
nuova vita rincominciava per me.
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E' un compito
assegnato dalla prof, ma lo trovo carino e volevo condivederlo, spero
possa piacere anche a voi ^_^
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