Titolo:
Nonsense
Autore:
Neal C.
Genere:
Drammatico, Angst, vagamente introspettivo
Avvertimento:
Slash, Lime
Rating:
Arancione
Pairing:
Mollamy (Brian Molko/Matthew Bellamy) , BellDom (Matthew
Bellamy/Dominic Howard) , molto di sfondo
Disclaimer:
Non li ho inventati io ma se non esistessero bisognerebbe inventarli. A
stento si salutano figuriamoci se fanno questo poco.
Non
sanno niente di me e delle mie fantasie campate per aria e non lo
sapranno mai perché certo non le pubblicherò
né ci ricaverò mai un centesimo.
Un
po’ di sano fancazzismo condito con un pizzico di
decadentismo/ermetismo/QualunqueCosaSia (tecnicamente nessuno dei due
<.<), che non fa mai male.
Nonsense
E andando nel sole che
abbaglia
con triste
meraviglia
com’è
tutta la vita e il suo travaglio
in questo
seguitare una muraglia
che ha in cima
cocci aguzzi di bottiglia
[Meriggiare
pallido e assorto,
Montale, Ossi
di seppia, 1925]
Matt Bellamy
aveva imprecato a più riprese quando aveva scoperto che la
sua riserva di birra era a secco, proprio quella sera, quando il suo
unico desiderio era quello di sprofondare in un ubriaco languore, con
il sapore amarognolo – o forse dolciastro - che ne derivava.
In strada
aveva agitato il pollice alzato, freneticamente, si era sbracciato
barcollando come una gru che rischia di schiantarsi al suolo.
Il tassista
non aveva realizzato da subito le condizioni precarie del proprio
cliente e si era maledetto per essere stato così ingenuo e
poco accorto, mentre osservava nello specchietto centrale quello
spilungone che si aggiustava in modo nervoso sul sedile di tela con uno
strano strofinio.
Matt aveva
mormorato il suo indirizzo – perché proprio il
suo? Con tante persone che conosceva?! – e aveva dovuto
ripetersi cercando di scandire le lettere o almeno di non biascicare
come un ritardato.
C’era
traffico, Londra era un enorme semaforo multicolore perennemente rosso,
dove le strade erano ingombre di mezzi, stritolati l’uno
dietro l’altro, che già da tempo avevano
inghiottito le linee di corsia e la segnaletica orizzontale.
Matt aveva
allungato la mano e aveva frugato nella tasca dei Jeans alla ricerca
del cellulare poi, improvvisamente, aveva lasciato che il braccio
tornasse inerte, abbandonato sul fianco come un pupazzo senza vita. A
che serviva chiamare? Gli avrebbe detto di no.
Un no secco
che non ammetteva repliche. Matt non aveva bisogno di
sentirsi dire un altro no.
I piedi gli
tremavano come fosse in preda ad un tic, la schiena era incurvata, il
capo leggermente chino, come di chi si guarda la punta delle scarpe,
con un po’ troppo interesse.
Ogni tanto si
mordicchiava il labbro in modo convulso.
L’agitazione lo pervadeva tutto.
Il tassista,
nell’attesa, aveva messo su un po’ di musica,
teneva la radiotaxi spenta come fanno in tanti fra i meno ligi;
d’altra parte, dopo almeno sei ore di servizio, verso le due
di notte era anche comprensibile.
Il pover uomo,
ogni tanto, lanciava strane occhiate a Matthew ma non osava fare
domande.
Tirò
un sospiro di sollievo quando imboccò la via, a pochi metri
dalla destinazione.
“Sono
undici sterline e settanta”
Il tassista
vide lo spilungone lanciare un’occhiata rapida al tassametro,
fissando i numeri rossi e lampeggianti con uno sguardo vacuo.
L’uomo sorvolò sul comportamento del cliente e si
sentì in dovere di aggiungere, quasi a mo’ di
scusa:
“Il
traffico del venerdì è una piaga”
Matt si
ricordò in quel momento di non avere neanche un centesimo e
chiese stupidamente di pagare con carta di credito. Quando il tassista
si rese conto che quello non scherzava, lo mandò al diavolo
ma pretese che lui scendesse e andasse a cercare un bancomat e lo
invitò a lasciargli un documento.
Il cantante
non accettò –non ce l’aveva nemmeno il
documento. O forse si? - e, messo alle strette, compose il
numero, ignorando la palese irritazione del tassista ostinato.
“Bellamy”
“Brian,
sono sotto casa tua.”
“Cosa?”
“Non
ho un soldo per pagare il taxi. Ti prego, mi presti undici
sterline?”
Sentì
il tassista gridare indignato e reclamare anche i settanta pence.
Matt
pensò che quell’uomo era più fiscale di
un esattore delle tasse.
Brian Molko
impiegò almeno qualche minuto per rispondere.
“Tornatene
a casa Bellamy”
Matt
cercò disperatamente di trattenerlo, lo pregò in
tono quasi piagnucoloso ma si ritrovò a supplicare a vuoto,
con un fastidioso ticchettio nelle orecchie. Gli aveva attaccato il
telefono.
Disperatamente
spalancò la portiera e si lanciò fuori dal taxi
mentre il suo proprietario gli gridava contro come un pollo spennato.
Si
attaccò al citofono e suonò a lungo mentre il
tassista minacciava di scendere e di menarlo.
Brian rispose
al citofono furente, sottovoce come se temesse di svegliare qualcuno:
“Suona
di nuovo questo citofono Bellamy e questi saranno gli ultimi cinque
minuti della tua insulsa esistenza. Sto scendendo.”
Matt aveva
tirato un sospiro di sollievo e aveva gettato sguardi ansiosi al
portone del palazzo mentre gesticolava, l’indice destro
alzato in aria pregando il tassista di aspettare un altro minuto, che
scendeva il suo amico. Brian era sbucato fuori , con passo marziale,
fulminando con lo sguardo il suo inatteso visitatore, non lo aveva
degnato di un saluto e si era subito diretto verso il tassista che
sbraitava e appellava in maniera più che colorita
“quel coglione ubriaco” che gli era toccato
scarrozzare per mezza Londra.
Gli aveva
allungato venti dollari e lo aveva freddato con un “tenga il
resto e si levi dai piedi. Buonanotte” risolutivo.
Quello,
incerto se risentirsi per la scortesia di quel tizio o se ringraziare
per la lauta mancia, aveva borbottato un saluto di malavoglia e aveva
messo in moto, dileguandosi nel giro di qualche minuto.
Matt era
rimasto a guardare la scena rincuorato, per un attimo più
calmo di prima.
Poi si era
concesso una lunga occhiata alla schiena del cantante mentre questo
sbrigava la sua questione, come se potesse spogliarlo del pantalone da
completo nero e la giacca abbinata, sotto cui però cascava
cadente una lunghissima magliettona di cotone vecchio, dalla trama
rovinata e scolorita, che purtroppo copriva anche la vista del culo,
quasi fino ai ginocchi.
Adesso Molko
lo fronteggiava, gli occhi che saettavano mentre, nonostante la giacca
poggiata sulle spalle piccole, era scosso da brividi di freddo.
“Dammi
una sola ragione per cui dovrei farti salire, Bellamy.”
La sua voce lo
feriva, era così dura e sferzante, c’era troppa
ostilità, ingiustificata poi.
Matt si
raddrizzò, sentì le sue scapole ravvicinarsi e la
pelle d’oca, che mal reagiva anche lei al clima invernale
della capitale. Sentiva di contro il volto rubizzo e l’alito
alcolico.
“Devo
parlarti.” Osservò il suo
sopracciglio inarcarsi, incapace di nascondere, sotto la maschera
rabbiosa, la sorpresa. Matt si corresse; così
sembrava troppo irreale.
“Io…devo
parlare con qualcuno. Ti prego…”
Un moto delle
viscere, riaffiorò con un guizzo il ricordo di poche ore
prima, gli si strinse lo stomaco e, sofferente, come un cane con
l’affanno latrò: “Hai da
bere?”
Anche stavolta
passò almeno un minuto perché Brian rispondesse.
Continuò ad osservare il cantante dei Muse che sbatteva gli
occhi a più riprese come se questo bastasse a scacciare il
velo di lacrime, che sussultava nervosamente e ogni tanto la sua lingua
guizzava, quasi evidente, nella bocca semi-aperta.
Era come se si
stesse trattenendo dallo scoppiare.
Con un sospiro
e uno sguardo tra il sospettoso e il rassegnato Molko aveva sospinto il
portone del palazzo e gli aveva fatto cenno con la testa di seguirlo,
precisando poi, dopo qualche minuto, mentre salivano le scale, che non
voleva casini e soprattutto niente rumori inconsulti in casa sua.
Rianimato dal
pensiero di aver aggirato il no, Matt non si era neppure preoccupato di
indagare perché il cantante dei Placebo fosse tanto
sensibile al rumore; camminava in punta di piedi come se non volesse
svegliare qualcuno e si era assicurato di chiudere la porta di casa
più dolcemente possibile.
Matthew
mancava da casa di Brian da almeno un anno e mezzo ma non era
minimamente stupito di ritrovare lo stile semplice e minimalista, le
superfici piane spoglie da eventuali vasi, soprammobili e oggetti vari.
Era fredda e impersonale, lo era sempre stata a quanto ricordava,
nemmeno quelle poche volte che c’era stato lui era mai
riuscito a vivacizzarla.
D’altronde
Brian non aveva mai concesso a nessuno la chiave di accesso al suo
regno o almeno così era convinto Matt. Ogni volta che aveva
voluto di più si era sempre scontrato contro un muro solido
come il cemento armato.
Aveva notato
la fronte aggrottata di Brian, sembrava tutto concentrato su qualcosa
mentre richiudeva la porta del salotto alle sue spalle, isolando il
resto della casa.
Poi il padrone
di casa lo aveva preceduto in cucina accertandosi che lo seguisse come
se temesse, gettando l’occhio, che se ne potesse andare a
zonzo per la casa a fare danni.
Aveva scostato
una sedia dal tavolo facendogli cenno di sedersi lì e aveva
mosso verso il frigo, dall’altro lato della cucina piccola e
quadrata, ma che bastava ampiamente per tre persone.
Matt si era
avventato sull’ennesima birra della serata, forse con la
segreta speranza di perdere coscienza ma subito sentì un
vago senso di insoddisfatta sete mentre finiva di tracannare i suoi
cinquanta centilitri.
Girò
la sedia, in direzione del frigo, le spalle al tavolo, mentre osservava
Brian che lo scrutava pensoso, appoggiato con un palmo al ripiano della
cucina mentre sorseggiava la sua di birra, troppo ghiacciata per i suoi
gusti, trattenendola in bocca per mandarla giù tiepida.
Ignorò
la muta preghiera dell’ospite che guardava malinconico la sua
bottiglia ancora piena mentre quella di Matt era abbandonata sul tavolo
alle sue spalle, pallida e prosciugata.
“Cos’è
che dovevi dirmi? Sembrava molto urgente.”
Improvvisamente
svuotato di tutte le sue energie Matt aveva avvicinato le ginocchia al
petto, mettendo le suole delle scarpe sulla sedia, facendosi piccolo
piccolo e Brian non potette non pensare ad un lenzuolo rattrappito. Era
accartocciato su sé stesso, pallido e completamente vestito
di bianco – Molko si domandava quasi divertito con quale
coraggio avevano disegnato un pantalone bianco di tal genere e avevano
pensato di venderlo a qualcuno, se non a quell’ idiota
patentato, ovviamente – sotto il quale risaltavano
un paio di grosse sneakers nere – quale orrore – .
“Ho…litigato…con-n…D-dom…”
“E
da quando questo è un mio problema?” fece Brian
retorico recitando la parte dell’annoiato.
“Non
sapevo dove andare!” piagnucolò Matt, stringendo
di più le ginocchia al petto mentre vi appoggiava sopra la
testa e un ciuffi di capelli elettrizzati si rizzava ancora
più su dandogli un’aria da pulcino smarrito, quasi
comica.
Brian rispose,
con voce dolciastra e paziente, come ci si rivolge ad un bambino, o ad
un idiota –come nel caso specifico,
pensava– :
“Potevi
magari andare da qualcuno che ti fosse
vagamente…amico?” smise il tono ironico e gli
ringhiò contro, profondamente irritato
“Giù i piedi da quella sedia, Bellamy.
È una Kartell”
“No.
I miei amici…non capirebbero. Meglio un
estraneo” fu il giudizio lapidario.
Questa volta
Brian dette segno di spazientirsi, lasciando andare la birra sul banco
accanto a sé, ancora semi piena.
“E
fra tutti gli estranei dovevi scegliere proprio me?
E…” si trattenne dall’urlargli contro e
bisbigliò in tono concitato “Cristo Bellamy,
giù i piedi dal mio arredamento!”
Come scottato
Matthew lasciò scivolare pesantemente le gambe a terra. Per
quanto fosse curvo e piegato su sé stesso era sempre
dannatamente lungo.
Poi fece
qualcosa che Brian non avrebbe immaginato neppure nei suoi sogni
più bizzarri;
scoppiò
in singhiozzi, stringendo in modo convulso il volto fra le mani e
strofinando il naso che si gonfiava come un palloncino.
Brian era
sconvolto, non sapeva che pesci pigliare, improvvisamente tutta quella
pantomima che avevano messo su dal momento in cui si erano
conosciuti gli appariva ridicola e fuori luogo.
Non si
può dire che conoscesse Matt Bellamy; ne sapeva
abbastanza –se la memoria non lo ingannava
– per farlo guaire come una cagna in calore, ma non si era
mai sforzato di scambiarci neanche mezza parola.
Era sempre
stato bravo a eludere i discorsi, sfuggevole quando serviva, quando
fiutava aria di tempesta, di interminabili discussioni che traboccavano
di recriminazioni, di sentimenti delusi, di piagnucolii feriti non
appena la sfortunata o lo sfortunato – più
raramente, gli uomini erano meno sentimentali e soprattutto non
lanciavano piatti né urlavano con voce stridula –
si accorgevano di quanto il loro amore fosse unilaterale e fatalmente
malriposto.
Ciò
accadeva sistematicamente quando Brian Molko, per una volta –
più di una volta – derogava alla solita regola
dell’ “usa e getta”.
Non
perché lui fosse così affascinante da conquistare
l’umanità intera – cosa che
però , in un modo o nell’altro, accadeva
– , semplicemente perché
l’umanità che si portava a letto più di
una volta finiva – inspiegabilmente – per
illudersi al terzo appuntamento e credeva di aver trovato in lui il suo
compagno di vita.
Quanto a lui i
trent’anni gli avevano decisamente
giovato; aveva imparato a tenere una relazione a distanza,
fra persone adulte che era durata più a lungo di quanto si
sarebbe mai aspettato, si stava specializzando nel ruolo di padre
single ma la sua più grande conquista era la flemma con cui
si concedeva qualche innocua avventura ogni qual volta che Rebecca
Keynes, sua compagna da quasi tre anni, era in viaggio per qualche
avventuroso reportage in giro per il mondo.
Per ora non
aveva fastidiosi sensi di colpa, certo che, dall’altro lato,
avveniva una cosa analoga quando lui era via.
La parentesi
con Bellamy invece era un argomento scottante, uno di quei cedimenti di
cui non andava fiero perché –
oggettivamente – era terribilmente difficile essere
freddi e ragionevoli con Bellamy.
E adesso
quello era lì, a piangere a dirotto sulla sua spalla,
cercando conforto perché aveva bisticciato con il suo
batterista.
Era
profondamente irritante. Non rispettava i ruoli e non seguiva le regole
del gioco, del suo gioco, sempre scrupolosamente attese con
cura. – Altrimenti non sarebbe qui
– concluse, seccato.
“Bellam-”
cominciò, paziente.
“LA
VUOI PIANTARE DI CHIAMARMI COSI’ ?!”
ruggì Matt, sollevando il capo con un gesto secco e
improvviso, tanto che l’altro trasalì e per poco
non fece un salto.
Brian
artigliò il ripiano della cucina come per cercare appoggio e
si tirò su, ergendosi in tutta la sua statura, austero e
comunque lillipuziano rispetto al collega. Gli sibilò
contro, stringendo i pugni come per infondere veemenza nelle
parole:
“Ascoltami
bene, coglione. Non so che diamine ci fai qui, alle tre di notte, ti ho
pure pagato un taxi, ti ho invitato a salire a casa mia e ti
ho offerto una birra. Il minimo che puoi fare è tapparti
quella fottuta bocca o almeno abbassare la voce. Ci sono altri che
dormono qui…”
“Non
mi chiamare per cognome.”
Adesso Matt lo
fissava implorante, con gli occhi lucidi e arrossati di pianto e per lo
strofinio, completamente abbandonato contro lo schienale
della sedia come se gli mancassero le forze.
“hai
ragione, sono un coglione. Lo sono sempre stato.”
Osservò, mesto.
Brian si
rilassò nuovamente, tornando ad appoggiarsi con il bacino
alla sua cucina, quasi rassicurato dal ripiano freddo di metallo
argenteo e avveniristico che gli intorpidiva le vertebre.
Si stava anche
troppo caldi con il moderno impianto di riscaldamento che aveva
rinnovato proprio quell’estate aspettando un inverno freddo
per poterlo inaugurare.
A questo si
aggiunse un’altra sorsata fresca di birra che si
lasciò scivolare in bocca, schioccando la lingua contro il
palato.
“Meglio
tardi che mai, Bell…Matthew. Ricordami di accendere un cero
a qualunque cosa lassù ti abbia ispirato.
Piuttosto…” indicò con il collo della
sua bottiglia la birra di Matt che giaceva dimenticata, a seccare
dietro di loro.
“Non
pensare di venire qui ad ubriacarti. Ti voglio lucido. Prima ti sfoghi,
prima te ne vai. Ti voglio fuori di qui in un’oretta, massimo
per le cinque e non ho nessuna intenzione di riaccompagnarti a casa.
Dopotutto…” sottolineò con uno sguardo
penetrante “noi non siamo amici.”
Matt
annuì , poco convinto, giusto per farlo contento e Molko
sospirò, recuperò una sedia e si
accomodò, discreto, in silenzio, con atteggiamento da
psicanalista consumato – eppure non si può dire
che gli capitasse così spesso, semmai con gli altri accadeva
il contrario – e attese.
“Stamattina,
anzi, ieri mattina, sono tornato a casa all’alba e Gaia mi
aspettava. Voleva spiegazioni.
Voleva sapere
perché due giorni fa avevo annullato la prenotazione del mio
volo per Milano, perché non le avevo detto nulla anzi le
avevo mentito dicendo che lo avevo perso.
Non me lo
aspettavo. Lei ha cominciato a lamentarsi che la tradivo, che non
l’amavo, che non l’avevo mai amato ed ero solo uno
stronzo senza cuore. E io…” prendeva
coraggio a poco a poco, fissando la credenza con uno strano ipnotico
interesse come se si attaccasse disperatamente alla visione del
laminato della cucina.
“Ho
mentito di nuovo. Le ho detto che Dom aveva bisogno di me, che stava
avendo dei seri problemi con la coca e io ero preoccupato per il mio
migliore amico e blablabla. Lei sembrava essersi addolcita. Mi ha
chiesto scusa, mi ha chiamato ‘pasticcino
mio’ ” Brian aveva ridacchiato
sotto i baffi, stiracchiando la schiena “e ha
promesso che mi avrebbe mandato qualche fotografia da Como e
mi avrebbe chiamato tutti i giorni.”
“Tutto
a meraviglia insomma. L’apoteosi della
mogliettina.”
Matt
ignorò il tono ironico dell’altro e
cominciò a tormentare un filo che sporgeva dalla maglietta
bianca tirandolo e seguitando a sfilare il tessuto.
“Ma
la stronza ha chiamato Chris per verificare la mia versione
dei fatti e lui le ha confermato che stavo dicendo la
verità. Le non gli ha creduto, ha sospettato che nascondevo
chissà quale tresca con un’altra. Ha
approfittato delle nostre prove, verso le undici del mattino, per
frugare in casa mia.
Ha
trovato…” la voce che aveva
resistito più o meno salda fino a quel momento cominciava a
rompersi e Matt ingoiava i singhiozzi, deglutendo rumorosamente.
“Ha
trovato una serie d-di canzoni. d’amore.
Che avevo scritto p-per D-dom… quella puttana, ha spifferato
tutto… ”
Brian
finì per lui, accompagnandosi con un gesto sbrigativo della
mano:
“E
lui si è sentito ferito nel suo orgoglio maschio, ti ha
guardato con disgusto e ti ha mollato un pugno.
Ti ha piantato
lì, come un cretino, e ti ha detto di non farti vedere mai
più, che con lui avevi chiuso per sempre. E
magari… ” si lasciò scappare un sorriso
davanti ad un Matt Bellamy, ferito e sotto shock.
“magari
ha anche minacciato, più o meno velatamente di uscire dal
gruppo.”
Il frontman
dei Muse si riscosse quasi subito e con occhi minatori
replicò brusco:
“Chi
te lo ha detto?”
“Psicologia
da manuale. Bene o male tutti gli uomini reagiscono così.
Etero,
intendo” precisò beffardo.
“In
fondo lo hai offeso, in un certo senso” continuò
con una punta di amarezza “hai pensato, anche solo
per un istante che lui potesse essere frocio come lo sei tu.
Quando si
sarà riavuto…” si guardò le
unghie ignorando, serafico, le occhiate assassine del
compagno “andrà a raccontare in giro che
Matt Bellamy è una checca, che ogni volta che ti rinchiudi
in un bagno per pisciare e finisci per farti una sega il tuo amato Dom
è il tuo primo pensiero.
“Sei
disgustoso”
Matt non
poté fare a meno di distogliere lo sguardo davanti
all’espressione eloquente dell’altro che sembrava
gridare ‘figurati se non lo hai mai
fatto’.
Seguì
un momento di silenzio, affannosa tensione da parte di Matt, pigra
attesa da parte di Brian.
L’aria
era ovattata, gli infissi in PVC tenevano fuori gli
insistenti rumori di strada, due piani più sotto, si
sentì solo l’eco stridulo di
un’ambulanza.
Brian
pensò che doveva ricordarsi di mettere un orologio in cucina
e osservava di sfuggita lo sfondo scuro della finestra tirando ad
indovinare quanto tempo fosse passato
–
Una mezz’oretta… o di più? No, poco
più di un quarto d’ora. –
“Sono
un coglione, sono un coglione, sono un coglione”
cantilenò Matt con voce stridula e piagnucolosa.
“Già.
Ad ogni modo, credevo che tu scrivessi solo di complotti interstellari
e catastrofi inesorabili. Come ha fatto la tua italiana a pensare che
quelle canzoni non fossero dedicate a lei?”
Matt
arrossì e a Brian sembrò uno studentello alla sua
prima cotta. Si ritrovò a constatare, distrattamente, che
Bellamy era piuttosto carino, anche così, gonfio, rosso come
un gambero, il naso due volte più grosso e le narici
arrotondate, solchi neri sotto gli occhi simili a profonde occhiaie e
le labbra umide e piacevolmente rosee. Grondava lacrime salate come uno
scoglio perennemente zuppo sulla costa salmastra –
La prossima volta che voleva compagnia ci avrebbe fatto un pensiero
–
“Ho
accennato a qualche piccolo episodio divertente di quando stavamo a
Teignmouth, come quando ci arrampicammo su un albero, io caddi e mi
ruppi una gamba e Dom mi stette vicino tutta l’estate,
mollando persino la sua ragazza dell’epoca perché
era gelosa di me, il suo migliore amico.
O quando
rubammo mezzo chilo di gelato, io fui scoperto e lui, non ho mai capito
perché, uscì allo scoperto e si
addossò tutta la colpa, e…”
tacque intimidito davanti ad un sopracciglio inarcato del suo
interlocutore, decisamente perplesso.
“Non
vedo il punto. Come diavolo faceva Gaia a sapere che tu e Howard
cadevate dagli alberi e vi facevate beccare a rubare
gelati?” commentò Brian ponendo
l’accento sulle ultime parole come se trovasse assurdo il
desiderio di appollaiarsi su di un albero, a metri e metri dal
suolo – già volare in aereo, cosa a cui
il suo lavoro lo costringeva, gli era intollerabile, figuriamoci
osservare il vuoto dall’alto. Le sue case erano sempre ai
primi piani e non c’erano mai balconi – ;
oppure
peggio, rimpinzarsi di gelato – lui che aveva
sempre mangiato lo stretto indispensabile e senza nemmeno
grande gusto –
“Beh,
erano i nostri racconti preferiti. E poi non avrei mai pensato che
quella puttana frugasse fra le mie cose. Nessuno lo aveva mai fatto
prima di lei, nessuno aveva mai osato entrare in camera mia anche solo
per rifare il letto, spolverare e rimettere a posto le mensole o
spazzare il pavimento senza il mio permesso, neanche mia
madre!” tacque indignato.
Brian
arricciò il naso, infastidito al pensiero:
“E poi dici a me che sono disgustoso.
In casa mia
era normale amministrazione Bell- Matthew. In ogni caso, persino quando
sono andato a vivere con Helena che è sempre stata la
discrezione in persona, non ho mai lasciato in giro le mie
cose… non quelle importanti ” insinuò
ma l’altro non colse la frecciatina.
“Helena,
tua moglie?”
“Non
è mai stata mia moglie” gli ricordò
quieto e ancora una volta Matt non colse la punta di fastidio nel tono.
Un’altra
caratteristica di Bellamy: non coglieva le sfumature.
La cosa in
realtà era quanto mai frequente negli uomini anche se
Bellamy era piuttosto ottuso per essere un uomo, anzi un essere umano
in generale. Si perdeva in pensieri misteriosi e poi non ragionava
sulle cose più semplici e ovvie, era capace di perversi
psicologismi a vuoto e poi non comprendeva banali meccanismi che
governavano la mente delle persone. Era proprio ottuso. O
forse era un genio incompreso, con una scarsissima intelligenza
emotiva, avrebbe detto Goleman*.
“E
come sta tuo figlio?”
“Bene.
È di là che dorme.”
Registrò pazientemente il tono indifferente
dell’altro; chiaramente aveva chiesto a vuoto, non
gliene fregava niente della risposta.
Subito dopo
Matt domandò, improvvisamente agitato e speranzoso:
“Hai
una sigaretta?”
“Sto
smettendo.”
Lo vide
riaccasciarsi sulla sedia, inumidirsi le labbra come aveva
fatto lui tante volte, con la gola secca e il desiderio bruciante, al
limite della sopportazione, di un po’ di fumo che gli
impregnasse la lingua e mettesse a tacere la sua
“sete”.
“Gaia
mi ha lasciato.”
Brian
annuì meccanicamente. Cominciava a chiedersi cosa ci
facessero loro due seduti nella sua cucina – a fare
cosa poi? Lui faceva il confessore e Bellamy gli svelava i retroscena
della sua banale vita sentimentale –
C’era
qualcosa di terribilmente strano, sbagliato, assurdo in tutto quello.
“Cosa
devo fare, Brian?”
Matt gli
puntò addosso i suoi occhi impietosi, chiari e opachi come
una pozzanghera grigia.
Era venuto per
questo? Per chiedere consiglio? A lui?
Era
più ridicolo di quanto pensasse. Lui, Brian, non aveva mai
risolto niente in vita sua.
Aveva lasciato
che i suoi problemi crescessero, mettessero radici e ramificassero in
un’intricata foresta di spine, che le incomprensioni si
ingigantissero, che la commedia degli equivoci andasse avanti in quel
clima di sostanziale ambiguità in cui le maglie degli
inganni si allargano; e si allargavano tanto fino
ad inghiottirlo. Aveva sempre trascinato qualcuno
con sé mentre soccombeva sotto il peso delle
angosce, delle cose non dette, dei discorsi non affrontati, nutrendo la
segreta sicurezza che quel qualcuno fosse abbastanza forte e
tremendamente masochista da recuperarlo dal baratro in cui si era
cacciato e riscagliarlo in superficie.
Steve e
l’alcool. Stefan e la cocaina. Helena e gli antidepressivi.
Ecco i tre
binomi della sua vita.
Steve aveva
trovato a chi affidare quella patata bollente, e alla fine, se ne era
andato per sempre. Non avrebbe mai dimenticato il suo sospiro di
liberazione mentre quello lasciava la sala prove per l’ultima
volta, con la valigia al fianco, sorvegliando la sua batteria che
veniva caricata sul furgone dei trasporti.
Helena era
fuggita fra le braccia di un altro, in cui aveva cercato conforto e
protezione.
Forse
l’unica volta in cui l’aveva vista veramente
“donna”, non l’elemento forte della
coppia, non il pilastro della casa e della sua vita, adesso finalmente
lei poteva permettersi di vestire i panni del “sesso
debole”.
A Stefan non
era rimasto che sperare che il suo uomo, lo spagnolo, avesse pazienza
quanto lui, che si abituasse a cogliere lo sconforto negli occhi del
suo amato svedese, a chiedere “si tratta di
Brian” con voce neutra e rassegnata, conoscendo troppo bene
la risposta.
E Matt Bellamy
veniva da lui a chiedere consiglio?
“Tu
cosa vuoi fare Matthew?” sostenne apatico lo sguardo del
compagno che lo scrutava allibito e preoccupato, come se avesse a che
fare con un pazzo.
“Ma
è ovvio! Vorrei che Dom mi amasse! Che il gruppo continuasse
a funzionare! Che razza di domande fai?!”
“E
allora diglielo. Tutto si risolverà. In fondo Howard ti
vuole bene.” Assorbì passivamente la delusione di
Matt che certo non si aspettava una risposta del genere
– cosa diavolo si aspettava? Un miracolo? –
“Tu
lo faresti?”
“No.”
La risposta secca, al limite dell’assurdo, non fece che
esasperare Matt ancora di più che si trattenne a stento
– per amore di Cody o semplicemente per quieto vivere
– dallo strillare.
“Se
fosse stato Stefan cosa avresti fatto?”
–
Era un caso perso – pensò Brian mentre gli
concedeva un sorriso sardonico:
“Stefan
non potrebbe mai abbandonarmi, neanche se volesse provarci.”
Era questo
quello che intendeva quando diceva che Bellamy era ottuso.
C’erano
alcune cose chiare come il sole: da lui non si poteva sperare di
ricevere consigli.
E poi
c’erano le sfumature; nella sua totale negazione Bellamy non
aveva nemmeno lontanamente percepito il doppio filo che lo legava ad
Olsdal – D’altra parte perché
avrebbe dovuto? –
Anzi, era
più che comprensibile considerando che si erano frequentati
il meno possibile quando non si trattava di innocui divertimenti dal
sapore peccaminoso – in barba ai media e alla loro
leggendaria rivalità – o comunque di
natura meccanica – si, qualche volta gli capitava
di pensare al sesso anche in questa maniera –
Grazie al
cielo Matthew non era così idiota: non si
può cavar sangue da una rapa avrebbe detto nonna Bellamy,
un’innocente estrosa vecchietta che aveva sempre ragione.
Quindi smise
di chiedere e pretendere risposte.
Sembrò
farsi strada in lui la consapevolezza che quell’irruzione in
casa di Brian era stata totalmente inutile. Non aveva trovato niente,
né un consiglio per rasserenarsi, né
una distrazione per alleviare il dolore.
La tensione
fra i due si era sciolta. Non avevano più niente da dirsi.
Matt
ironicamente si chiese se per caso era in tempo per rispettare i patti,
se non erano già le cinque, orario in cui Brian aveva
promesso di cacciarlo di casa. Dando un’occhiata alla
finestra ancora buia si disse che era in largo anticipo.
Era stato un
parto breve. Ma non aveva dato risultati. Un feto abortito
Osservò
Brian alzarsi dalla sedia, avvicinarsi alla finestra della cucina per
spalancarla, per cambiare un po’ l’aria che sapeva
troppo di viziato, di una lunga discussione sterile e di afa
artificiale – quel benedetto impianto di
riscaldamento –
Era una
finestra al secondo piano, un po’ anomala, lunga e stretta,
che tagliava le gambe al moro facendolo apparire ancora più
basso e si estendeva in verticale come quelle delle cattedrali gotiche.
E in quel
momento, mentre Molko apriva la finestra, Matt si disse che non era
giusto; lui era venuto lì almeno per avere una distrazione e
la avrebbe avuta.
In fondo non
erano ancora le cinque, aveva tempo.
Si mosse
silenziosamente dietro alla figuretta di Brian sovrastandolo, senza che
quello se ne accorgesse, e appoggiò le mani sui suoi
fianchi, con movimenti delicati, ma decisi.
Lo
sentì trasalire, le sue mani erano fredde, stranamente
gelide per uno che fino a qualche minuto fa si sentiva avvampare il
volto.
E la pelle
sotto le sue carezze, liscia e tonica nonostante
l’età, sotto quella magliettona sformata, era
incredibilmente calda per uno che sembrava sempre così
gelido.
Sollevò
il cotone che scendeva parecchio, almeno di venti centimetri, sfiorando
tremante il fondoschiena e seguendo la linea delle vertebre che si
nascondeva sotto la pelle, solleticandole con carezze languide,
desiderando baciarle una per una.
Sotto il suo
tocco Brian era rigido, preso di sorpresa e gli si erano drizzati i
peletti sulla nuca, cosa che fece eccitare ancora di più
Matthew.
“
Bellamy, cosa fa… !”
Matt gli si
strinse addosso, pressandolo contro la finestra aperta e questi
trattenne il respiro bruscamente.
Fitte di paura
attraversavano lo stomaco contratto, gli girava la testa mentre fissava
il vuoto, quei otto o nove metri che lo separavano
dall’asfalto e che gli sembravano un buco infernale contro
cui Matt lo stava spingendo. Questi da parte sua si beava della
tensione del compagno, avendola scambiata per desiderio.
Suo malgrado,
preso dal panico, Brian si era stretto a lui con tutte le sue forze
cercando di arretrare ma l’altro sembrava più
forte e ancora più eccitato, lo aveva preso per un gioco.
Si strusciava
sulle sue natiche, gli cingeva il petto con le braccia tendendo il
tessuto della maglia, attorcigliandolo lentamente, godendo nel palpare
i muscoli tesi per il terrore e l’angoscia del vuoto,
accarezzava i capezzoli che si intorpidivano sotto le sue
lunghe dita da pianista.
Tuffò
il naso nel suo collo, aspirando un profumo indefinito, acqua di
colonia e sudore freddo, mischiato all’odore delle carni,
dolciastro fino al disgusto.
Il suo corpo
oblungo aderì alla schiena dell’altro, inarcata,
nel disperato tentativo di allontanarsi dalla finestra.
“Matt…è…
a-alto…io...cado-o…” fu il sussurro
strozzato di Brian che teneva gli occhi serrati e cominciava a mordersi
il labbro convulsamente, adesso aggrappandosi disperatamente a Bellamy
e pregando che il vuoto non li inghiottisse entrambi.
Grosse gocce
di sudore gli scivolavano sul collo e Matt prese a leccarle con
ingordigia, incapace di intendere e di volere altro che non fosse
quella brama che gli consumava il cervello.
Alitò
affannosamente nel suo orecchio, inumidendo il padiglione auricolare e
penetrandolo con la lingua:
“Ti
voglio” sussurrò roco.
Percepì
il respiro di Brian che si era fatto lento e faticoso e ancora una
volta interpretò male.
Con uno
strattone cercò di togliergli la maglietta ma senza
successo: le braccia rigide del cantante dei Placebo non gli
consentivano di sfilarla agevolmente.
Questo
sbilanciò Brian in avanti che soffocò un urlo in
un gemito, incapace di gridare il suo terrore.
Poi si
sentì risucchiato indietro e sbattuto senza troppo riguardo
su una superficie dura.
La schiena gli
doleva per la botta ma il contatto con la “terra”
gli restituì il respiro mentre sentiva le gambe penzolare
mollemente, quasi flosce. Abbandonò anche le braccia che gli
venivano portate sopra la testa mentre un Bellamy impaziente sfilava la
maglia e la gettava con rabbia per terra.
Questi non
fece caso al pallore mortale dell’altro ma si
attaccò alle sue labbra come una ventosa, rendendogli ancora
più arduo il respiro.
Gli
mordicchiò il labbro per un po’ e poi lo
lasciò libero di riprendere fiato – più
o meno – attaccandosi al suo collo e succhiando
voluttuosamente. Con le due mani scendeva inesorabilmente verso il
basso e fu questo a risvegliare Brian, la coscienza che Bellamy gli
stava sbottonando i pantaloni neri, indugiando sul suo
inguine. Con grande sforzo e con uno scatto, con tutta la
forza che riuscì a racimolare lo spinse
all’indietro, sbilanciandolo, e quello barcollò
per un attimo, poi cadde dal tavolo con un tonfo che
echeggiò come un tuono minaccioso in tutta la casa.
“CHE
CAZZO FAI?!” gli urlò contro un Matt Bellamy
inferocito, le labbra incurvate in una smorfia di dolore per
l’ urto .
Ma,
nell’agitazione generale, Brian captò un pigolio
spaventato proveniente dall’altra stanza.
Respirando
profondamente sputò fuori contro Bellamy, risentito:
“Coglione,
c’è mio figlio che dorme. E adesso alzati e
chiuditi lì” indicando una sorta di ripostiglio
per le scope, in fondo alla cucina, semi nascosto dietro al
frigorifero “e poi, appena hai via libera, sparisci”
Brian fece
appena in tempo a chiudere lì dentro Matt che comparve sulla
soglia della porta un piccolino di appena otto anni, pallido e
assonnato.
“Papà!
Papà, ho fatto un brutto sogno! E ho sentito un rumore
bruttissimo!” piagnucolò terrorizzato
Cody, con gli occhi azzurri e spalancati, ancora
più grandi, mentre scuoteva violentemente la testa
ricciuta, incurvandosi nelle spalle. Si precipitò
verso Brian e abbracciò stretto stretto il suo bacino.
Il padre lo
prese subito in braccio e si sentì più sollevato:
non voleva spiegare a suo figlio di appena otto anni il gonfiore
sospetto sotto la cintola. Cercò di rassicurarlo,
bisbigliando e cullandolo fra le braccia mentre il piccolo affondava il
viso nell’incavo del suo collo, cercando protezione.
“Amore,
non ti preoccupare, adesso c’è papà con
te.” Quasi lo stritolò, profondamente emozionato,
mentre il nodo di angoscia si scioglieva con la lentezza esasperante di
una candela di cera.
“Papà,
ma…perché sei bagnato e senza maglietta? E
perché c’era quel rumore prima?”
“Cody,
anche papà ha fatto un brutto sogno e ha sudato tantissimo.
E quando è uscito a prendere un bicchiere d’acqua
in cucina ha sbattuto contro una sedia. Non volevo svegliarti, mi
dispiace.”
Il bambino non
sembrava molto convinto e cominciava a soffrire la presa del padre che
si era fatta soffocante.
“Ma
c’era qualcuno…qualcuno che
urlava…”
“Io,
amore. Mi sono spaventato. Non avevo visto la sedia. Pensavo ancora al
mio incubo.”
“Uhm”
commentò il piccolo, volgendo lo sguardo alla cucina spoglia
come se davvero potesse spuntare fuori qualcun altro.
“Adesso
facciamo una cosa. Torniamo a letto, tu mi racconti del tuo sogno e
papà ti racconta il suo.
Poi ci
addormentiamo vicini vicini così niente e nessuno ci
può far male, eh?”
Il sospetto di
Cody cedette davanti al sorriso del padre, luminoso anche se
stanco –cominciava a trovarlo pesante – e il
bambino annuì mentre Brian lo conduceva in braccio, con
qualche difficoltà, in camera.
Matt Bellamy
sentì la porta della camera da letto chiudersi con un rumore
secco, un segnale.
Imprecando fra
sé e sé, si precipitò in salotto e
infilò la porta di casa, tirandosela dietro le spalle con
violenza, senza far troppo caso al rumore sordo
dell’acciaio che sbatteva.
Fuori
cominciava a schiarire l’alba delle cinque.
Things are what they
seem,
makes no sense at all
[Burger Queen, Placebo
Without you
I’m Nothing, 1998]
Note
*
L’intelligenza emotiva è un aspetto
dell'intelligenza legato alla capacità di riconoscere,
utilizzare, comprendere e gestire in modo consapevole le proprie ed
altrui emozioni.
è
stata teorizzata da Daniel Goleman, psicologo statunitense ma anche
scrittore e giornalista del New York Time. Goleman cerca di rivalutare
l’aspetto psicologico che viene sottovalutato nella
definizione di quoziente intellettivo, sostenendo che elementi come la
conoscenza e il dominio di sé, l’empatia e la
capacità di interazione sociale sono anche essi parte di
un’intelligenza, detta appunto emotiva, che può
non essere appannaggio di tutti così come
l’intelligenza logico-deduttiva o quella creativa.
Angolo
dell’autrice
Ok,
è andata anche questa. My first Mollamy.
Sapevo che
sarebbe stata una cosa strana, tremendamente tortuosa e soprattutto
assolutamente priva di senso, partorita ad un orario improponibile
(è il destino di noi scrittori di fanfiction o di qualunque
altra cosa, avere le borse sotto gli occhi al mattino
<.<) su due soggetti psicolabili e totalmente incapaci di
avere un dialogo civile e coerente.
Per quanto
possa sembrare una cosa tremendamente deprimente vi assicuro che ero di
ottimo umore quando ho finito di scriverla.
Di una cosa mi
rammarico: ormai ho abbastanza familiarità con il
personaggio di Brian ma Matt mi è alieno, e infatti credo di
averlo ridotto solo ad uno stereotipo senza né arte
né parte. Diciamo che ho cercato di ispirarmi a tutto quello
che ho letto nel fandom targato Mollamy e, per una volta, ho voluto una
BellDom unilaterale perché, vi dirò la
verità, le BellDom non mi hanno mai ispirato così
come il Molsdal (Brian Molko/ Stafan Olsdal, per chi non conoscesse la
terminologia tecnica) anche se a quest’ultimo sono
più tollerante.
Ci tengo ad
aggiungere giusto qualche parola su “Meriggiare pallido e
assorto ” di Montale, una lirica assolutamente affascinante
che ho voluto pedestremente interpretare nella descrizione. Tipico di
questo signore è stata una concezione del vivere un pochino
pessimista, una cupa angoscia del vivere, uno stoico rifiuto di ogni
forma di consolazione al il male di vivere, una consapevolezza della
fragilità dell’uomo in balia di una
realtà priva di senso. Perciò vivere è
tentare di superare la “muraglia” che lo separa da
una qualche soluzione, da una qualche salvezza (di cui però
Montale non svela mai la natura), qualcosa che abbia senso, e
continuare a seguirla da lontano, non potendo superare i cocci aguzzi
che gli squarcerebbero le mani.
C’è
una violenza e un senso di impotenza assolutamente affascinanti in
quest’immagine.
Chissà
se Matt si è sentito così, lasciandosi dietro
casa di Brian, all’alba delle cinque del
mattino?
Neal C.
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