Note
iniziali: questa
fanfiction nasce da un’idea maturata assieme alla mia collega
OttoNoveTre: un’edizione degli
Hunger Game in cui l’arena è una grossa nave da
crociera.
Ecco quindi, in
esclusiva per voi, un estratto della quarantunesima edizione degli
Hunger Games, progettata nientemeno che dalla nostra fantastica
stratega Bebe
Linda; buon
divertimento, e che la fortuna possa sempre essere al vostro fianco!
-La nave-
Nascondino
Timmy era
sempre stato il più bravo a nascondino.
Forse
perché lo notavano poco, era sempre silenzioso, e non si
stancava a stare per tanto tempo immobile in un posto. Era quello a
fregare gli altri bambini: loro a un certo punto si stancavano e
volevano per forza cambiare nascondiglio o provare a fare tana, e quasi
sempre venivano scoperti. Lui no. A lui piaceva stare immobile, non si
annoiava mai.
Timmy sapeva
che era quello il motivo per cui era ancora vivo; perché
aveva trovato un’intercapedine sotto quella che sembrava una
specie di sala macchine e ci si era incuneato dentro, immobile,
provando a uscire per muoversi un po’ solo quando il silenzio
era assoluto. Il problema era che non poteva più durare per
molto.
C’era
un rivolo d’acqua sporca ma dolce che colava lentissimamente
lungo una delle pareti che formavano il suo nascondiglio, forse sopra
c’era una pompa di raffreddamento o qualcosa del genere, a
giudicare dal ronzio, e quella era l’acqua di condensa che
colava giù. Timmy non poteva berla, però poteva
girarsi piano piano e leccarla direttamente dalla parete, e almeno non
moriva di sete. Ma, per quanto li avesse centellinati, i biscotti
stavano finendo e allora Timmy avrebbe dovuto pensare a qualcosa o
morire di fame.
La sola idea
di uscire da lì lo terrorizzava. C’erano in giro
gli altri, e gli altri lo avrebbero ucciso. Erano tutti più
grandi e a quest’ora avevano di certo trovato delle armi, lui
non aveva niente e anche se avesse avuto qualcosa non
l’avrebbe saputa usare e comunque era talmente debole che
l’avrebbero ucciso facilmente anche a mani nude.
Non sapeva
quanto tempo era passato da quando era lì, perché
i biscotti non bastavano e a volte gli girava la testa e sveniva, e
quindi i cannoni potevano avere sparato e lui non aveva sentito.
Comunque aveva perso il conto delle esplosioni, quindi anche se le
avesse sentite non avrebbero significato granché, per lui.
Di uscire per vedere le immagini dei morti nel cielo nemmeno a
parlarne, tanto non gli sarebbe servito lo stesso. A volte non capiva
nemmeno se era giorno o notte.
All’inizio
si nascondeva un po’ di meno, per forza, perché
doveva cercare da bere e da mangiare.
La volta dei
biscotti si era ritrovato in una specie di cabina e questa cabina aveva
un armadietto mezzo aperto, pieno di scatole di biscotti. Timmy aveva
aspettato di non sentire più nessun rumore e poi,
pianissimo, aveva aperto l’armadietto.
E un ago gli
si era conficcato nella mano. Era rimasto talmente sorpreso che non
aveva nemmeno urlato, poi gli sarebbe venuto da urlare ma era riuscito
a trattenersi. Aveva afferrato tre pacchi di biscotti e si era
allontanato il più silenziosamente possibile, in preda al
terrore. Non sapeva chi avesse messo quella trappola e non aveva tempo
per pensarci, perché si era perso e non sapeva
più dove si trovava; riuscì a strisciare in una
cabina uguale a milioni di altre, in quel corridoio lunghissimo che
proseguiva all’infinito e si avvolgeva su se stesso come una
specie di spirale (strano, credeva che i corridoi fossero dritti,
invece forse no) e si infilò nella cuccetta sopra,
chiudendocisi dentro.
Si sentiva
male. La nave dondolava troppo, dondolava e si rovesciava, e tutti i
pallini verdi e blu della coperta della cuccetta gli rotolavano
addosso, e siccome in realtà erano pallini di piombo lo
soffocavano, perché gli si infilavano nel naso e nella bocca
e gli impedivano di respirare. Allora lui aveva cercato di toglierseli
di dosso, ma non c’era riuscito perché le sue
braccia e le sue gambe erano immobilizzate, e tutti quei pallini
scintillanti gli facevano male agli occhi. Poi la cuccetta si era
riempita di ghiandaie imitatrici, strano, perché non pensava
che ci fossero anche sulla nave-arena, ma lui le sentiva che volavano e
ripetevano le urla di suo zio che era caduto dall’albero e si
era spezzato la schiena, e lui come quella volta non era riuscito a
muoversi né a fare niente, paralizzato dalla paura. Poi non
si ricordava più.
Quando aveva
ripreso un po’ di coscienza si era accorto che la sua mano
era rossa e gonfia dove l’ago l’aveva punto; forse
c’era sopra qualche sostanza strana tipo il veleno degli aghi
inseguitori, forse serviva a farlo scoprire, lasciandolo urlante e nel
delirio in balia degli altri tributi. Ma lui si era salvato,
perché siccome aveva pensato di soffocare e di essere
paralizzato non si era mosso e non aveva urlato, e quindi non
l’avevano sentito. O forse era solo stato fortunato.
Non sapeva
quanto tempo era passato. Le lenzuola erano imbrattate di vomito secco
e puzzavano, e Timmy si accorse di essere rannicchiato in mezzo al suo
vomito e ai suoi escrementi. Gli fece schifo, ma almeno le scatole di
biscotti erano pulite, eccetto l’angolino di una che era un
po’ sporco di vomito, ma tanto i biscotti dentro erano
sigillati nella plastica. Voleva rannicchiarsi e scoppiare a piangere,
ma non poteva.
Aspettò,
ma tutto sembrava silenzioso. La nave era grande, i tributi non
potevano essere dappertutto, e poi un po’ dovevano essersi
ammazzati tra loro. Allora provò a rischiare di uscire.
Quello non era
un buon posto per nascondersi; se fosse toccato a lui contare, e se
fosse stato grande e forte come gli altri, avrebbe controllato le
cabine una per una.
Il corridoio
era dritto, non a spirale come aveva pensato, solo che non capiva a che
piano della nave fosse e aveva paura a mettersi a guardare dagli
oblò. Si infilò nella prima porticina che vide,
scese una scaletta che portava verso il basso. La nave era piena di
rumori e ronzii di macchinari, il che andava bene perché
copriva il rumore che faceva lui, ma male perché copriva
anche quello che avrebbero potuto fare gli altri. Poi per fortuna,
siccome era bravissimo a trovare nascondigli, aveva trovato la sua
intercapedine con l’acqua che colava dalla parete, ci si era
arrampicato dentro e non si era mosso più.
Timmy non
sapeva chi aveva messo quella trappola nell’armadietto dei
biscotti.
Se
l’era chiesto, dopo, mentre aspettava immobile e nascosto che
il tempo colasse via. Gli sembrava troppo ben nascosta e precisa per
essere stata messa da qualcuno degli altri tributi; forse era stata
progettata dagli strateghi ed era già nella nave-arena.
Forse però poteva averla fatta uno di quelli del distretto
tre, loro erano bravi con i piccoli ingranaggi, li aveva visti durante
gli addestramenti. In quel caso, però, perché
quando l’ago l’aveva punto non erano usciti fuori a
finirlo? L’ipotesi degli strateghi sembrava la più
probabile. Però poteva anche essere che i ragazzi del tre
avessero predisposto più di una trappola e in quel momento
fossero lontani, magari a sorvegliarne un’altra. O magari chi
aveva progettato quella trappola era morto, per questo non era
lì a ucciderlo e Timmy era riuscito a strisciare in quella
cuccetta con i suoi pacchi di biscotti.
Era stato
fortunato.
Però
adesso i biscotti erano quasi finiti e lui doveva uscire o sarebbe
morto di fame. L’ansia gli attorcigliava lo stomaco, ma non
poteva vomitare, sarebbe stato spreco di cibo. Si costrinse a mangiare
un biscotto intero per non rischiare di svenire.
Si tolse gli
stivali per essere più silenzioso e scivolò
giù dal suo nascondiglio, attento a ogni suono diverso dal
monotono ronzio dei macchinari. Doveva tenere in mente la strada che
aveva fatto, perché la nave era grande e lui rischiava di
perdersi. Trovò un condotto dell’aria e per
sicurezza ci si infilò dentro; siccome era piccolo riusciva
a strisciare abbastanza bene, e poi doveva essere dimagrito,
perché i pantaloni gli stavano larghi e invece
all’inizio dei giochi erano giusti.
A un certo
punto un filo di luce gli suggerì che il condotto stava per
finire; strisciò pianissimo e si trovò con la
faccia davanti a quella che sembrava una rete. Per un momento gli si
fermò il cuore e si appiattì contro le pareti del
condotto, ma poi si accorse che non sentiva nessun rumore, si fece
coraggio e provò a guardare fuori, oltre le maglie della
rete.
Lì
doveva esserci qualcuno, anche se per ora non si vedeva; doveva avere
lasciato lì la sua roba, o forse essere morto. Era una
stanza abbastanza grande, con dei graziosi divanetti e un mobile bar
come quelli che aveva visto a Capitol City, e soprattutto molti punti
in cui uno piccolo come lui avrebbe potuto nascondersi,
all’occorrenza. C’era uno zaino pieno di cose, una
coperta, una specie di fornelletto elettrico con una padella, un rotolo
di filo di nylon trasparente e persino un piccolo mucchio di coltelli,
un falcetto, una specie di spada corta che non ricordava come si
chiamasse.
Doveva esserci
della roba da mangiare, nello zaino. Valutò che poteva farlo
passare per il condotto, e poi dall’uscita del condotto al
suo nascondiglio la strada era tortuosa, quindi anche se il
proprietario dello zaino avesse capito che era passato da lì
poi non sarebbe riuscito a trovarlo. Timmy scostò piano
piano la rete e scivolò fuori dal condotto.
Era appena
arrivato al mucchio delle armi quando sentì un rumore. Era
abbastanza lontano, veniva da oltre la porta chiusa; terrorizzato,
afferrò uno dei coltelli e si incuneò tra il
mobile bar e una grossa poltrona.
La persona che
stava arrivando faceva un sacco di rumore e ogni tanto si fermava a
fare qualcosa, Timmy non capiva cosa. Avrebbe avuto tutto il tempo di
arrampicarsi di nuovo nel condotto, gli venne da piangere per non
averlo fatto, perché adesso era in trappola.
Deglutì, sentendo le lacrime scorrergli sulla faccia.
Gli
sembrò che passassero delle ore, poi la porta si
aprì. Timmy riconobbe il tributo del quattro, quello con i
rasta lunghissimi e i tatuaggi a mezzaluna sulla pelle scottata. Non si
accorse di lui; si diresse verso lo zaino e appoggiò a terra
il tridente, accese il fornelletto elettrico e tirò fuori un
pesce da un secchio che aveva con sé, buttandolo nella
padella. Timmy notò che aveva legato a una delle punte del
tridente un pezzo del filo di nylon reso pesante da un fil di ferro
modellato a uncino, sicuramente lo usava per pescare; pregò
che il suo stomaco stesse zitto e non lo tradisse.
Poi Quattro
socchiuse la porta e ci appoggiò il secchio sopra, in modo
che cadesse se qualcuno tentava di entrare, e allora Timmy
capì che ci aveva messo tanto perché doveva avere
messo delle trappole nel corridoio.
Lo vide
sbuffare e massaggiarsi il retro del collo con le mani sporche; poi si
sedette davanti al fornelletto, girò il pesce e
aspettò qualche minuto. A un certo punto si prese la faccia
tra le mani e Timmy pensò che piangesse, ma non ne era
sicuro, perché non aveva fatto rumore, però poi
aveva tirato su col naso e si era stropicciato gli occhi. Timmy si
ricordò che li aveva azzurri e che stavano bene nella sua
faccia abbronzata.
Quattro spense
il fornelletto, allungò la mano per prendere un coltello e
tagliò un pezzetto di pesce, soffiandoci sopra prima di
mangiarlo.
Timmy sapeva
bene che, quando le persone si sentivano sicure di sé e non
stavano all’erta, era possibile arrivargli alle spalle senza
che se ne accorgessero.
L’aveva
fatto mille volte quando giocava a nascondino; era facile. Non lo
scoprivano quasi mai.
Però
quello non era nascondino. Se, mentre lui si avvicinava, Quattro
l’avesse visto, non si sarebbe appoggiato a un tronco
d’albero urlando “tana per Timmy!”, lo
avrebbe ucciso senza pensarci un attimo. Ma quelli erano gli Hunger
Games e, quasi per fare onore al nome, Timmy si sentiva comunque sul
punto di morire di fame. Le sue possibilità di arrivare vivo
alla fine erano quasi nulle. E allora, forse, se proprio doveva morire,
sarebbe stato meglio morire velocemente con mezzo metro di tridente
nello stomaco, lì e ora, invece di morire di fame nel suo
bugigattolo.
Strinse il
coltello.
Il ragazzo del
quattro continuava a mangiare il suo pesce, tagliandolo con uno dei
suoi coltelli. Ne aveva talmente tanti che non si era neppure accorto
che gliene mancava uno. Timmy usci dal suo nascondiglio e gli si
avvicinò, camminando più piano che poteva. Gli
sembrava che il cuore battesse come un tamburo. Tra un po’
anche lui lo sentirà e si girerà,
pensò, sentendosi svenire.
Non svenne.
Avanzò
ancora un po’, lentamente. Sapeva che l’importante
era non avere fretta, bisognava avere pazienza, la fretta finale
rovinava sempre tutto. L’importante era rimanere concentrati
e silenziosi fino all’ultimo momento, quando si poteva
toccare la tana e liberare tutti.
Arrivato alle
spalle di Quattro ignorò il gusto della bile che gli saliva
in gola e si prese il tempo di mirare bene tra le scapole, ignorando
tutto il resto. Colpisci lì e basta, si disse.
Quattro
urlò quando la prima coltellata gli trafisse la schiena.
Allora Timmy sentì come un fuoco scorrergli nelle vene, si
sentì fortissimo, e continuò a calare il
coltello, ancora e ancora, per paura che lui reagisse, afferrasse il
tridente e glielo piantasse nella pancia. Il sangue schizzava
dappertutto e aveva reso viscida l’impugnatura del coltello,
ma Timmy non si fermò, continuò a colpire su
tutta la schiena, in qualunque punto non avesse già piantato
il coltello in precedenza. Non sapeva dove fossero gli organi vitali e
voleva essere sicurissimo che Quattro fosse morto, non voleva rischiare
che, con le ultime forze, si rivoltasse e lo uccidesse.
Si
fermò solo quando il braccio cominciò a fargli
talmente male che non riusciva quasi più ad alzarlo. Le dita
gli si erano irrigidite attorno al manico del coltello, tanto che
dovette usare la mano sinistra per forzarle ad aprirsi. Il coltello gli
cadde per terra.
Respirando
affannosamente, Timmy si tirò indietro i capelli con le
mani. Era tutto imbrattato di sangue, non andava bene, doveva stare
molto attento a non lasciare tracce, altrimenti l’avrebbero
trovato. Pensò di fasciarsi i piedi e le mani con gli
indumenti di Quattro, ma erano sporchi di sangue anche quelli; li
usò per cercare almeno di asciugare il sangue che
sgocciolava.
Prese lo
zaino. Dentro c’erano cibo e una borraccia piena
d’acqua, e anche delle medicine che non sapeva a cosa
servissero. Il tridente era ingombrante e Timmy non sapeva usarlo, ma
non voleva lasciarlo lì insieme a tutte quelle armi.
Però non poteva nemmeno buttare tutto in mare, col rischio
che qualcuno sentisse il tonfo nell’acqua e andasse a
controllare la zona; avrebbe voluto romperlo, ma era troppo robusto.
Doveva rassegnarsi a lasciarlo lì.
Gli girava la
testa, e cominciò a vedere lucine gialle davanti agli occhi;
prese il pesce che stava mangiando Quattro e lo divorò in
fretta, comprese le lische più piccole, e si
sentì un po’ meglio. Pensò di coprire
Quattro con la sua rete, ma al solo pensiero di girarsi di nuovo verso
di lui si sentì male. Non voleva vedere Quattro. Voleva solo
andare via e nascondersi di nuovo, e non uscire più.
Ormai il
sangue che aveva addosso si era tutto seccato e aveva smesso di
sgocciolare, quindi se fosse stato attento a non strisciare con i
vestiti sui muri e non toccare troppe cose in giro sarebbe riuscito a
non lasciare tracce. Doveva tornare al suo nascondiglio,
perché c’era l’acqua che si poteva
leccare dalla parete; quella della borraccia sarebbe finita anche
troppo presto.
Si
arrotolò i pantaloni fin sopra le ginocchia per non
rischiare di farli strisciare sul pavimento, si tolse i calzini e poi
se li mise in tasca; avrebbe lasciato tracce di sangue dentro il
condotto, ma non poteva farci niente. Ora doveva solo fare il percorso
inverso fino al suo nascondiglio, senza fretta. Era pericoloso, doveva
stare attentissimo ai rumori, ma Quattro aveva urlato e non era
arrivato nessuno, quindi in quella zona non dovevano esserci altre
persone. Il colpo del cannone lo spaventò a morte, ma a
parte quello non incontrò ostacoli. Si rannicchiò
nel suo nascondiglio, lasciando che le lacrime gli scorressero sulla
faccia; però sarebbe sopravvissuto ancora per un
po’. Forse, se si fosse nascosto bene e avesse risparmiato il
cibo il più possibile, gli altri non lo avrebbero trovato,
si sarebbero uccisi tutti tra loro e lui sarebbe rimasto
l’ultimo. Forse sarebbe riuscito a uscire vivo da
lì. Forse.
-E quando fai
il montaggio voglio dei primi piani, mi raccomando, molti primi piani.
Niente musiche strazianti o scempiaggini del genere: vedi tu se
è meglio lasciare i rumori veri o toglierli del tutto.
Capito, zucchero?
Tullia si
girò verso Bebe. La donna osservava composta lo schermo, le
braccia conserte sopra il pancione di sei mesi fasciato
dall’abito nero, ma la sua espressione era di entusiasmo
trattenuto a fatica; il luccichio degli occhi era inequivocabile.
-Io li
toglierei del tutto, Bebe. I rumori sono troppo reali, poi la gente si
impressiona, invece il silenzio assoluto fa più pathos.
Magari metto qualche scena al rallentatore, il coltello insanguinato
che cala, cose così, cosa ne pensi?
Lei
approvò con un cenno deciso del capo. –Ventitre
coltellate-, disse poi. –E chi l’avrebbe mai detto?
Un bambino di neanche quattordici anni, con quel faccino, quegli
occhioni da gufetto… qui facciamo un picco
d’ascolti da record, te lo dico io! E pensare che Quattro era
dato per favorito… Ottimo, stupendo! Me lo dico da sola, ma
questa edizione sta venendo una delle migliori che abbia mai visto!
Tullia doveva
ammetterlo. Era una delle edizioni più riuscite dei giochi,
se continuava così sarebbe stata di certo la migliore, ed
era merito di “Bebe” Linda Ray. Senza dubbio la
fama di stratega più brillante che si fosse mai vista a
dirigere gli Hunger Games se la meritava tutta. Riportò
l’attenzione sullo schermo.
-Timmy il
gufetto però è tornato a nascondersi; potrebbe
fare tutto il gioco così, gli altri nemmeno lo cercano, non
se ne preoccupano. Cosa si fa?
Bebe si
tamburellò il pancione con le dita. I suoi anelli
d’argento luccicarono nella luce fredda dello studio.
-Ci sono dei
giri di scommesse milionari su di lui: chi sarà il primo a
trovarlo, quanto tempo riuscirà a stare nascosto…
vedrai che dopo questo episodio il giro decuplicherà. Per
ora lo lasciamo dov’è, poi, se la situazione
dovesse cominciare a farsi noiosa, beh…
Sfiorò
con la mano il tavolo azzurro che mostrava la proiezione della nave,
nel punto in cui era rilevata la presenza di Timmy. Comparve la scritta
“Gas” e l’ologramma di una nuvoletta.
-In quel caso
lo faremo uscire noi. Ma per ora…
Si concesse un
sorriso compiaciuto, riguardando le immagini della morte di Quattro, il
grande favorito della quarantunesima edizione degli Hunger Games.
-Il piccolo
Timmy si è meritato un po’ di riposo, non trovi?
Tullia
annuì.
Note: di "Hunger Games" mi era
piaciuta l’idea dei ragazzini mandati ad ammazzarsi
l’un l’altro e della spettacolarizzazione
dell’evento; non so cosa ne è uscito, ma ci ho
provato!
Le tecniche di
nascondino di Timmy sono funzionanti e testate da me medesima, grande
campionessa del suddetto gioco nei gloriosi tempi
dell’infanzia (ma non ho mai ucciso nessuno a coltellate,
giuro, nemmeno quelli che se lo meritavano). Il tributo del quattro, se
qualcuno se lo fosse chiesto, si chiama Matthew Lynch e ha
l’aspetto di un mio vecchio compagno delle elementari (che
no, non merita di morire, povero caro). Mi è anche
dispiaciuto ucciderlo.
Invece Bebe
Linda
è una delle barbie di OttoNoveTre, che mi ha permesso di
giocarci. Grazie, Otto!
Ringrazio Otto,
assieme a vannagio, anche per avermi betato la
storia (e non avermi ucciso a coltellate nel mentre); ragazze, siete
preziose e insostituibili!
E ringrazio anche
tutti voi che siete passati, che vi siete divertiti, che avete
scommesso e mandato gli sponsor… possa la fortuna essere
sempre a vostro favore!
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