Note:
Non
sono certa del
risultato, perché è la prima fan fiction che
scrivo sul fandom di
Sherlock – e se non fosse stato per le insistenti e maniacali
pressioni di e m m e
manco l'avrei fatto – ma tant'è che questo
è
quanto. Forse prima o poi ci prenderò sul serio la mano.
♦♦♦
Un
messaggio da Karachi
Lo
smalto scarlatto dell'indice sinistro era graffiato e lei non se ne
era nemmeno accorta. Socchiuse le palpebre con espressione
rattristata e avvicinò la mano al bel viso, se la
rigirò pensierosa
davanti al naso, osservò ogni dettaglio delle proprie dita.
Non si
era mai vantata con franchezza del proprio corpo, ma era sempre stata
pericolosamente consapevole del contributo che la sua bellezza sapeva
aggiungere alla sua furbizia. Possedeva belle mani affusolate, polsi
e caviglie sottili, un volto piccolo e simmetrico, zigomi alti, occhi
chiari e allungati, denti bianchi e labbra rosse e delicate: era
stata in grado di far perdere la ragione a più uomini di
quanti una
qualunque donna britannica avrebbe mai incontrato in tutta la vita.
Sarebbe
stata sufficiente una sola parola pronunciata dalla sua voce
vellutata e la Gran Bretagna sarebbe crollata come un castello di
carte, ma non aveva mai parlato. Non le era mai importato altro che
la certezza di stringere nel pugno un intero paese e la sicurezza che
fin quando avesse potuto stringere ancora di più, fin quando
loro
avessero saputo che lei era pronta a farlo, che poteva farlo, sarebbe
stata libera e al sicuro.
In
quel momento, seduta in morbosa attesa alla scrivania di Mycroft
Holmes e in profonda contemplazione della propria unghia scheggiata,
Irene sentiva di aver sbagliato qualcosa – ogni
cosa. Quello
sfregio alla sua intaccabile immagine era proprio lì, sulla
punta
delle sue dita, e sembrava gridarle: “Guarda,
Irene, guarda cosa ti è sfuggito”.
Era
lì, eppure lei non
riusciva ad afferrarlo del tutto.
Cosa
ti è sfuggito, Irene?
♦♦♦
«Non
esiterei a
mettere in evidenza ognuna delle opportunità che le si
offrono
davanti, se solo non sapessi che ne è già
perfettamente a
conoscenza».
Irene
ispirò e gli rivolse un'occhiata carica di orgoglioso
contegno.
Mycroft accennò appena un lieve sorriso, mentre fingeva di
concentrarsi sulla leggera rotazione che il suo polso stava
imprimendo al bicchiere di porto. Lei non aveva nemmeno toccato il
suo e una parte di lui lo giudicò un gesto troppo borioso e
maleducato. Tuttavia, si beava del pensiero di averla finalmente
sotto scacco e senza la benché minima possibilità
di salvare il re
– o la Regina,
piuttosto. Irene Adler, la donna che aveva rischiato di azzoppare
l'intero sistema governativo per il quale lui si prodigava da una
vita, non poteva che rassegnarsi a qualunque decisione Mycroft
avrebbe deciso di prendere.
«Perciò
sarei lieto
se mi illuminasse, signorina Adler... mi dica, cosa
facciamo?».
«Le
sconsiglio
vivamente di giocare con me, signor Holmes. Non ho l'abitudine di
giocare pulito».
«Oh,
nemmeno io l'ho
mai avuta» ridacchiò divertito Mycroft,
accomodandosi meglio lungo
il comodo schienale della poltrona imbottita. «Ma mi sono
premurato
di non perdere quella di vincere, a conti fatti. Dunque, questa
è la
situazione: potrei farla arrestare e lei non tornerebbe in
libertà
nemmeno ammaliando tutte le guardie penitenziarie del paese; oppure
potrei semplicemente lasciarla andare e scommettere con la mia
assistente per quanto le sue ammalianti capacità sapranno
tenerla in
vita. Il mondo là fuori è un posto molto crudele,
signorina Adler,
soprattutto quando gli si volta le spalle».
Irene
emise uno sbuffo
stizzito e appoggiò il mento al palmo della mano. Sembrava
decisa a
non perdere quell'aura di austera sensualità con cui si era
sempre
presentata, e Mycroft non poté evitare di pensare a quanto i
suoi
tentativi di mantenere ogni cosa sotto il proprio controllo fossero a
modo loro adorabili. Le ricordava un gatto randagio che aveva avuto
la pretesa di voler addomesticare all'età di sei anni: come
lei,
sembrava incapace di accettare la sua nuova condizione di
cattività
– sfrontato, presuntuoso e in trappola. All'epoca, tutti i
suoi
sforzi si erano rivelati vani e la fastidiosa creaturina era scappata
in fretta, ma Mycroft non aveva più sei anni e lei non
poteva
scivolare oltre le sbarre del cancellino di casa.
«Una
volta conosciuto il mondo dentro,
quello fuori non è poi così male»
civettò Irene.
«Forse,
ma è anche vero che sarà proprio quello fuori
a
spararle non appena vi avrà posato un piede».
«E
lei mi butterà
fuori, quindi? Lascerà che accada e si libererà
semplicemente di
me?».
«Non
sia ridicola. Sono un alto funzionario del governo, non mi è
permesso incoraggiare un omicidio premeditato».
«Ma
lo farebbe. Non è
vero, signor Holmes? Se potesse, lo farebbe».
Mycroft
la fissò per
qualche istante.
«Lei
è una donna
molto pericolosa... e non solo per se stessa».
«Oh,
lei deve essere
un grande esperto di donne pericolose».
«Affatto.
Me ne sono
sempre tenuto alla larga».
«È
tipico di voi burocrati» lo schernì aspra Irene.
«Non riuscite a
sopportare nemmeno l'idea che le vostre amanti possano avere la forza
di sfuggirvi... e di norma, siete così tanto impegnati ad
assicurarvi che nulla
possa
sfuggirvi da non
accorgervi che loro sono le prime a farlo sotto il vostro
naso».
«Lei
deve essere una
grande esperta di burocrati».
Le
labbra di Irene si
storsero in un sorriso carico di malizia.
«Può
giurarci che lo
sono, signor Holmes».
♦♦♦
Il
fatto che il proprio
cellulare privato fosse suonato proprio mentre rileggeva per
l'ennesima volta il dossier di Irene Adler lo avrebbe fatto ridere,
se solo Mycroft avesse creduto almeno un poco nel destino. Richiuse
il fascicolo con calma snervante, infilò una mano nella
tasca
interna della giacca e guardò lo schermo.
1
nuovo messaggio.
Mycroft
si passò la
lingua sul labbro superiore, appoggiò la nuca al poggiatesta
e
sogghignò appena. Sotto almeno quel punto di vista, Irene
aveva
avuto ragione: lui non sopportava l'idea che qualcosa potesse
sfuggire al suo controllo e si premurava bene che qualcosa di simile
potesse accadere. La sensazione di non aver fallito nemmeno quella
volta gli procurava un rassicurante calore alla bocca dello stomaco.
Digitò a memoria un numero di telefono e portò il
cellulare
all'orecchio.
«Signor
Holmes?».
«È
a Karachi,
Pakistan. Fate in modo che lui lo scopra».
Buttò
giù la chiamata
prima di poter ascoltare qualunque altra risposta e riprese la
lettura del dossier di Irene. Staccò la sua fotografia dalla
prima
pagina e se la rigirò concentrato fra le mani.
«È
tipico di te»
mormorò divertito all'espressione spavalda con cui Irene era
stata
immortalata. «Non riuscire a cavartela da sola fino alla
fine».
Deciso
ad eliminare il
messaggio, riafferrò il cellulare e visualizzò la
cartella dei
ricevuti. Rileggerlo per la seconda volta gli provocò un
improvviso
moto di risate. Gettò la fotografia sulla scrivania e lo
eliminò in
fretta.
Saluti
da Karachi,
Uomo di Ghiaccio.
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