There isn't a last chance
[
Seconda classificata
al contest «Scegliete il vostro Japan Menù»
indetto da Airo Pearl ]
Titolo: There
isn’t a last chance when the sunset falls
Autore: My
Pride
Fandom: One
Piece
Tipologia: One-shot [ 3694
parole fiumidiparole ]
Menù:
- Onigiri
› Bianco: rating a scelta
- Yakisoba
› Genere: avventura
- Chawan mushi
› Avvertimento: movieverse
- Gyuunyuukan
› Lunghezza: one-shot
Personaggi: Roronoa
Zoro, Black-Leg Sanji,
Mugiwara
Rating: Arancione
Genere: Generale,
Storico, Avventura, Drammatico, Malinconico, Vagamente Introspettivo
Avvertimenti: Shounen
ai, Linguaggio a tratti
un po’ colorito, Movieverse, Angst, What if?
Ideal Good 10&Lode: #09.
Vita
ONE
PIECE ©
1997Eiichiro Oda. All Rights Reserved.
[
Fra desolati campi ti accingi a passare, solitaria brezza del
cambiamento ]
Non
era mai stato
un tipo abitudinario, lui.
Prima di capitare in quel villaggio,
difatti, Zoro aveva sempre vissuto alla giornata, campando con
ciò che riusciva
a racimolare dalle offerte fattegli dai popolani dei luoghi che
visitava o, se
proprio gli andava bene, con qualche pasto poco abbondante in piccole
bettole
da quattro soldi. Da quando le sue papille gustative avevano assaggiato
gli
onigiri di quel cuoco biondo che aveva incontrato durante la festa
della
fioritura dei ciliegi, però, si era reso bizzarramente conto
di non poter fare
a meno della sua cucina.
Se il problema fosse stato solamente
quello, gli sarebbe bastato andarsene per la sua strada e porre fine ad
ogni
sotterfugio che si inventava per gironzolare fuori da quella locanda,
riprendendo il cammino che aveva interrotto da più di un
mese, ormai. Il punto,
purtroppo, era che non aveva cominciato a provare interesse solo per la cucina
di quello scemo. Era caduto nella sua rete e,
alla fine, aveva iniziato a rendersi conto che quell’idiota,
in un modo
bizzarro che ancora non riusciva a comprendere, gli piaceva. E
maledettamente,
anche.
Zoro sospirò e
strinse il rosario che
portava appeso al collo nella mano destra, come se la sua consistenza
potesse
in qualche modo rassicurarlo sugli assurdi sentimenti che albergavano
nel suo
animo. Si concentrò sul raschiare sommesso che i granuli
provocavano nello
strusciare l’uno contro l’altro, sul colore cremisi
che scorgeva con l’occhio
buono, lo sguardo nascosto al di sotto dello jingasa [1]
che
indossava.
Doveva decidersi a dargli la notizia e andarsene una volta per tutte,
poiché era
certo che fosse
tutto dannatamente sbagliato e che tergiversare ancora avrebbe solo
complicato le cose.
«Ohi,
stupido bonzo». La voce di Sanji
gli giunse alle orecchie come un suono ovattato, e Zoro ci mise un
po’ a
rendersi conto che si era accovacciato dinanzi a lui e aveva cominciato
a guardarlo con quel suo occhio ceruleo, più unico
che raro,
in un paese come
quello.
Scosse il capo e ricambiò lo
sguardo del
cuoco, lasciando ricadere sul proprio petto il rosario con cui aveva
giocherellato fino a quel momento. «Che diavolo ci fai qui,
ricciolo?» borbottò,
e Sanji, dopo aver sbuffato e gonfiato le guance come un bambino, gli
sollevò
la testa dello jingasa con una mano, in modo da poterlo osservare
meglio in
viso.
«Che diamine ci fai tu qui,
piuttosto», sbottò di rimando, sollevando
finemente il
sopracciglio ben visibile. «Questo è il mio
locale, ti ricordo. Qui ci lavoro»,
ci tenne a precisare, come se
fosse più che certo che quell’idiota se lo fosse
dimenticato. «Hai intenzione
di entrare oppure vuoi startene ancora qui fuori con
quell’aria truce? Spaventi
i clienti». E nel dir questo accennò rapidamente
con il capo all’interno della
locanda, dove tre o quattro persone sedute ai tavoli li osservavano di
tanto in
tanto di sottecchi, come a voler controllare lo strano individuo che si
era
accampato accanto al muro. «Ordinano qualche piatto al volo,
mangiano poco e
pagano ancora meno. E Nami-san non ha intenzione di lasciarsi scappare
qualche
potenziale pollo a causa tua».
Zoro, a quel dire, si
lasciò sfuggire
uno sbuffo ilare. «Potrei essere un potenziale
pollo anch’io, non ti pare?»
rimbeccò sarcastico, e Sanji non poté fare a
meno di assumere un’espressione più che scettica
prima di scoppiare a ridere.
«Non dire cazzate, marimo
[2],
non hai
nemmeno un soldo», sghignazzò, prendendo posto
accanto a lui qualche istante
dopo. Infilò elegantemente una mano nella manica del kimono
e tirò fuori il suo
kiseru [3],
ignorando
volutamente l’occhiataccia che gli venne lanciata da Zoro
prima di cominciare a
fumare. Il sospiro soddisfatto che uscì dalle sue labbra fu
capace di far
correre un brivido dietro alla schiena dello spadaccino, che si
affrettò a
distogliere lo sguardo con un borbottio sconnesso, per quanto avesse
perso una
manciata di secondi nell’osservare quelle labbra sottili che
carezzavano il
beccuccio di metallo. E continuò a fissare il cuoco di
sottecchi mentre fumava
tranquillo, creando di tanto in tanto qualche anello di fumo che si
disperdeva
nel cielo azzurro sopra di loro, così sgombro di nuvole da
sembrare quasi
finto.
Affermare una cosa del genere non
sarebbe stato per niente da lui, eppure Zoro, nel continuare a guardare
Sanji,
non poté fare a meno di perdersi sul movimento di quelle
labbra, sul modo in
cui aspirava fino in fondo, gonfiando il petto, e sbuffava poi fuori
il fumo
fra le piegature della bocca, aprendola leggermente e con fare quasi
ipnotico. Ancor
più assurdo fu il senso di dispiacere che gli
attanagliò le viscere non appena
il cuoco concluse, alzandosi in piedi per spolverarsi la leggera stoffa
nera
che gli fasciava dolcemente le gambe snelle e agili. Fu in quel mentre
che
Sanji abbassò lo sguardo verso di lui e abbozzò
un sorriso, regalandogli appena
un rapido cenno del capo prima di rientrare e ricominciare il proprio
lavoro,
lasciandolo ancor più vuoto di quanto non lo fosse stato al
principio.
Zoro imprecò a denti stretti,
nascondendosi meglio il viso sotto lo jingasa. Era un dannato idiota.
Si era
lasciato prendere troppo da quello stupido cuoco e, quando era
finalmente
giunto il momento, non aveva minimamente aperto bocca. Avrebbe potuto
benissimo
dirglielo lì fuori, seduto l’uno di fianco
all’altro, e si sarebbe evitato
silenzi imbarazzanti una volta alzatosi per andarsene per la sua
strada. Invece,
adesso, gli toccava entrare dentro a quella maledetta locanda e
fronteggiarlo. Sospirò
e si fece coraggio, picchiettandosi le cosce con entrambe le mani prima
di
issarsi in piedi e gettare uno sguardo veloce all’insegna.
Inutile continuare a
piangersi addosso. Doveva farlo e basta. Si decise finalmente ad
entrare,
facendo vagare distrattamente la propria attenzione
all’interno della locanda. I
tavoli vicino alla parete destra erano quasi tutti occupati, e gli
schiamazzi
allegri delle famigliole lì presenti rendevano
l’atmosfera ciarliera e
tranquilla. Aveva scelto proprio il momento adatto per rovinare la
giornata a
quello scemo.
«Cuoco»,
lo chiamò
pacatamente, senza
avvicinarsi oltre al bancone dietro al quale si trovava il ragazzo. Lo
vedeva
trafficare con gesti veloci e sicuri con gli ingredienti e gli
utensili,
facendo saltare il riso e girando al tempo stesso la zuppa che bolliva
sul
fuoco; gamberetti e salsa di soia erano stipati accanto al tagliere, e
spezie
di ogni tipo troneggiavano al di là del piano cottura,
pronti per essere
utilizzati sul momento.
Senza che si voltasse, sentì
Sanji
borbottare distrattamente, «Che diavolo vuoi, marimo? Adesso
sono occupato», e
a quel dire lo spadaccino sospirò, scuotendo brevemente il
capo prima di fare
un passo indietro e poggiare una mano sull’elsa della propria
katana.
«Ho scoperto dove si trova
Mihawk».
Bastarono quelle semplici parole a
freddare d’un tratto Sanji, che si sentì mancare
la terra sotto i piedi. Sapeva
che prima o poi sarebbe successo. Sapeva che quell’idiota non
sarebbe rimasto
per sempre al villaggio, ma... dannazione, aveva costantemente sperato
che quel
giorno non arrivasse mai. Le sue erano state soltanto illusioni.
«Quindi te ne
vai, eh». La sua non suonò come una domanda,
bensì come un’affermazione, per
quanto il suo tono suonasse incrinato e tradisse un certo nervosismo.
Zoro, però, annuì
brevemente, sebbene
Sanji gli desse ancora la schiena. Non era esattamente
l’addio che si era
aspettato, ma di certo non aveva mai nemmeno pensato che quello stupido
cuoco
lo implorasse in lacrime di restare. E forse era stato molto meglio
così. Non
avrebbe saputo come affrontare la cosa, se fosse successo, e quella
separazione
si sarebbe rivelata ancor più straziante di quanto non fosse
già in quel
momento. «Stammi bene, cuoco».
«Altrettanto, stupido
marimo».
Zoro non attese oltre, dandogli a sua
volta le spalle per dirigersi verso l’uscita, scostando la
stoffa leggera
appesa allo stipite della porta. I suoi passi risuonarono come un
martellio
assordante sulla strada sterrata, per quanto intorno a lui udisse le
risate e
il chiacchiericcio della popolazione. Strano a dirsi, ma persino quei
visi
sorridenti che scorgeva gli sarebbero mancati. Gli sarebbe mancata
l’allegria contagiosa di Rufy, quel suo stupido sugegasa
[4]
di paglia e i suoi schiamazzi, nonché
quella sua bizzarra euforia quando
si trattava di cibo; gli sarebbero mancate le bugie di Usopp, il ninja
del
signore del castello, e quel suo atteggiarsi a grande guerriero,
sebbene lo
sapesse l’intero villaggio che fosse in realtà un
fifone nato; e anche Nami,
Robin, il Dottore dal naso blu e tutta la gente che aveva conosciuto
durante
quella sua lunga permanenza e... gli sarebbe mancato da morire anche
quell’idiota di un cuoco, maledizione.
«Zoro!»
Sussultò
nel sentirsi chiamare
proprio dalla voce dell’oggetto dei suoi pensieri, sgranando
gli occhi nel
vederlo correre a perdifiato verso di lui. E adesso cosa diavolo
voleva,
quell’idiota? Perché aveva lasciato il proprio
lavoro per raggiungerlo fin lì?
La risposta gli fu ben chiara non appena Sanji gli si fermò
dinanzi,
squadrandolo attentamente in viso con il suo occhio ceruleo.
«Sai quanto odi
gli sprechi di cibo», cominciò, drizzando la
schiena come se volesse dare
maggior vigore a quelle sue parole. «Terrò da
parte degli onigiri per te... quindi
vedi di tornare a riprenderli, se non vuoi che ti prenda a calci in
culo».
Nel sentirlo, a Zoro parve naturale
allungare le braccia verso di lui per cingergli fianchi e spalle, come
se
volesse attirarlo contro di sé e rassicurarlo al tempo
stesso con il calore del
proprio corpo, sentendo il cuore battere impazzito contro le pareti
della sua
gabbia toracica, simile ad una farfalla che sbatteva freneticamente le
ali. Che
maledetto idiota. Non avrebbe dovuto corrergli dietro come aveva fatto,
dannazione. Così gli avrebbe reso tutto più
difficile. «Lo farò. Promesso». Le
parole fuggirono dalle sue labbra come un fiume in piena, senza che lui
potesse
fare qualcosa per fermarle, e, dopo il primo momento di smarrimento
iniziale, sentì
una mano di Sanji aggrapparsi alla corda che teneva legata in vita, la
sua
fronte poggiata contro la spalla.
«Vedi di darti una mossa,
adesso»,
rimbeccò poi il cuoco, allontanandolo da sé come
se volesse ristabilire le
distanze. Se si fosse lasciato andare, per di più dinanzi a
quell’idiota,
avrebbe di sicuro maledetto se stesso per il resto dei proprio giorni.
Gli
diede dunque le spalle, ma Zoro fu certo di aver intravisto un velo di
rossore
tingergli le guance. «E... cerca di non perderti come tuo
solito, marimo»,
soggiunse, ritornando sui propri passi senza voltarsi indietro, celando
dentro
di sé quel sentimento che sembrava straziargli il petto come
una lama a doppio
taglio.
La luna si levava
già pallida e tonda in quel cielo rosato, stendendo un velo
d’ombre e silenzio fra
le piccole case di legno. Le fronde dei ciliegi in fiore venivano
sferzate dal
vento che si levava di tanto in tanto, e che faceva tremare lievemente
anche le
imposte delle abitazioni. Da quei sobborghi s’udivano solo
fruscii, il fremere
concitato dell’ora che precedeva la notte si confondeva con i
bassi latrati dei
cani, forse in giro alla disperata ricerca di cibo; qualche roseo
petalo mulinò
con le foglie verdi verso i quartieri alti, dove le bianche case dalle
tegole
di terracotta erano già vivacemente illuminate. Dal loro
interno provenivano le
allegre risate dei proprietari, il vociare degli ospiti e il suono del
Koto [5]
che si
confondeva in quel clima festivo; attraverso i paraventi di carta si
riuscivano
a scorgere le loro ombre che danzavano, sinuosi movimenti di corpi
fasciati da
pregiati kimono dai mille colori.
Nessuna di quelle anime presenti pareva
accorgersi dell’ombra dello spadaccino che sfrecciava
aggraziata fra le altre,
una figura silenziosa che si confondeva negli spazi bui lasciandosi
alle spalle
quegli allegri schiamazzi. Correva fra i viottoli nascosti senza il
minimo
rumore, sorpassando altre case in festa senza nemmeno fermarsi. I suoi
passi si
mescolavano con il fruscio del vento che spazzava le strade, mentre
l’aria
cominciava a profumarsi di quel piacevole odore
d’umidità che preannunciava imminente
pioggia. Si fermò solo quando fu nei pressi d’una
lussuosa abitazione che, da
dove si trovava, governava la piccola cittadina non molto lontana, dove
la
popolazione si stava apprestando a rientrare alle proprie abitazioni.
Fuori le mura erano appostate due
guardie, una delle quali stringeva con una mano l’impugnatura
d’una lancia.
Entrambe si guardavano in giro distratte, quasi svogliate, con
un’unica
lanterna già pronta per illuminar loro la notte.
Parlottavano fra loro,
sbadigliando e stiracchiandosi, aspettando il cambio di guardia che
sarebbe sicuramente
giunto di lì a poco.
Lo spadaccino, appostato a ridosso del
muro di un magazzino poco distante, li osservava con minuziosa
attenzione,
attendendo il momento propizio per entrare in azione. Il momento della
resa dei
conti era finalmente giunto, e non poteva mandare tutto
all’aria solo per la
fretta di farla finita seduta stante. Doveva pazientare come aveva
fatto fino a
quel momento, raccogliendo tutto il suo stoico auto-controllo per
continuare ad
essere freddo e concentrato anche durante la battaglia che si
prospettava
all’orizzonte. Il minimo errore avrebbe solo fatto
sì che la morte lo ghermisse
fra le sue fredde braccia, e, se fosse stato scoperto prima ancora di
raggiungere il suo obiettivo, non avrebbe potuto far nulla per evitare
tale
sorte. Mihawk era a pochi passi da lui e non poteva permettersi di
sbagliare.
Trasse un lungo sospiro e socchiuse la
palpebra, dandosi il coraggio di cui necessitava prima di farsi largo
sulla
strada sterrata, tenendosi basso e contro il terreno per evitare di
essere
scorto da occhi indiscreti. In altri momenti non ci avrebbe pensato due
volte a
sbaragliare i propri avversari e a porre fine alla faccenda, ma sapeva
di
essere su un terreno che, per lui, era troppo ostile. La caduta della
linea di
guardie principale avrebbe messo in allerta quelle che si trovavano
all’interno
del castello, e non era così stupido o altezzoso da credere
che avrebbe potuto
abbattere ognuno di loro tutto da solo. Ciò che doveva fare
adesso era
atterrare quelle due guardie poste lì fuori senza attirare
troppo l’attenzione,
entrando svelto solo quando la via sarebbe stata libera.
Estrasse una delle katane che portava
appese alla cintola e si portò la lama a nascondere un lato
del viso,
sporgendosi quanto bastava oltre il muro per controllare i movimenti
delle
guardie e i dintorni. La casa di Mihawk si ergeva oltre il piccolo
ponticello
in tutta la sua magnificenza, creando una sinistra ombra su ogni punto
della
zona circostante; il giardino interno profumava d’una
moltitudine di fiori,
sprizzando opachi colori che in pieno giorno avrebbero di certo
rallegrato quel
luogo e le lanterne di pietra creavano piccole pozze di luce tremolante
che l’avrebbero
fatto scoprire seduta stante, se solo si fosse mosso con troppa foga.
Zoro gettò un altro rapido
sguardo
all’interno, osservando il fiacco via vai delle guardie e il
modo in cui
parlottavano distrattamente fra loro, quasi non si aspettassero nessun
tipo di
attacco durante quelle ore che precedevano il tramonto. Beh, avrebbero
dovuto
rivedere le loro sicurezze, con lui. Impugnò saldamente
l’elsa della propria
katana e, senza nemmeno pensarci due volte, si gettò
all’attacco, arrivando di
soppiatto alle spalle di una delle due guardie. Prima ancora che
l’uomo potesse
rendersene conto gli tagliò la gola con un colpo netto,
recidendo la giugulare
mentre un ansito sfuggiva dalle labbra di lui. Il sangue
sprizzò macchiando il
metallo, e il corpo scivolò senza vita ai suoi piedi nel
momento stesso in cui
lui catturò con la coda dell’occhio la fugace
visione dei volti increduli di
altre due guardie poco distanti, prima che la sua lama affondasse senza
remore
nelle loro carni, squarciando la gola di entrambi in uno sprizzo di
sangue e
brandelli di stoffa. Annaspanti, li vide riversarsi in terra in una
pozza scura
che impregnò immediatamente l’erba umida, ma
degnò loro solo una breve occhiata
prima di ricominciare ad avanzare, superando rapido il ponticello che
divideva
le due parti del guardino, scattando rapido verso quel quadrato di luce
creato
da una delle stanze di quella dimora.
Anche qui poté avvertire i
suoni e i
profumi della festa che stava avendo luogo, festa in cui quei nobili
s’erano
gettati a discapito della povera gente, costretta a vivere di stenti
nei
sobborghi poco lontani. Oltrepassò quegli ennesimi
schiamazzi, cercando una
strada sicura per poter penetrare in quell’edificio, ma non
poté fare a meno di
imprecare a denti stretti nel rendersi conto che nemmeno le feritoie
sul tetto
avrebbero potuto fare al caso suo. La via più rapida era
quella di passare per
la porta principale, per quanto ciò volesse significare
letteralmente il
suicidio. Socchiuse l’occhio per un secondo, riflettendo
seriamente su quella
situazione. Quanti anni erano che stava disperatamente cercando Mihawk,
in modo
da portare a compimento il proprio sogno? Troppi, davvero troppi, per
la sua
ragione. E forse fu proprio questo a spingerlo ad entrare in casa,
passando di
soppiatto dall’entrata delle cucine.
Il silenzio regnava in ogni dove, e lo
spadaccino si stupì non poco nel rendersi conto che non
c’era anima viva nel
raggio di metri e metri, lì; nessuna donna che si affrettava
a rifornire le
scorte di Sake per i signorotti presenti, nessuna guardia che
pattugliava la
zona com’era accaduto nel giardino, né tanto meno
i suoni delle risate che
aveva udito pocanzi, come se tutto si fosse placato di colpo e fosse
svanito
nel nulla. Avrebbe dovuto cominciare a credere che qualcosa non
quadrasse,
forse? Beh, molto probabile. Un’abitazione come quella
necessitava di costante
protezione, in particolar modo se i suoi abitanti erano anche persone
comuni. O
credevano così tanto nelle capacità del loro
signore da pensare di poter
tralasciare il proprio lavoro? Troppe domande che esigevano una
risposta, e, se
proprio doveva essere sincero con se stesso, non aveva tempo per
aspettare che
qualcuno dissipasse i suoi dubbi. Avrebbe trovato Mihawk e
l’avrebbe affrontato
com’era destino. Non era il momento dei ripensamenti, quello.
Con la katana ben impugnata nel palmo
della mano sinistra, Zoro cominciò a perlustrare i dintorni
e a tendere le
orecchie per poter essere sicuro di scorgere un qualsiasi rumore,
attraversando
il vasto corridoio in cui si era ritrovato fino a giungere in
un’ampia stanza
dal soffitto basso, dove sembrava possibile riuscire a toccare le travi
del
soffitto alzando unicamente un braccio. La luce arancione delle candele
creava
sinistre ombre sui pannelli di carta, rendendo l’atmosfera
ovattata e simile ad
un sogno; tele raffiguranti persone o paesaggi erano appese alle pareti
laterali, dove ad accostarle si trovavano grandi pergamene spiegate,
ricoperte
dalle antiche scritture. Svariati tatami e cuscini erano disseminati
sul
pavimento di legno ricoperto di stuoie, mentre una porta scorrevole
poco
distante, che portava probabilmente ad una stanza adiacente, era stata
lasciata
spalancata. A passi moderati e con la katana distesa lungo un fianco
raggiunse
la soglia, aumentando la presa della mano che stringeva
l’elsa. Vide il rapido
movimento d’un’ombra provenire dalla stanza in cui
si ritrovò subito dopo,
facendo guizzare lo sguardo fra il perimetro fiocamente illuminato. Si
fece
largo nella camera, anch’essa dal pavimento ricoperto di
stuoie, sicuro
stavolta d’aver udito il distinto suono d’un
respiro. Poi il fruscio delle
vesti, la metallica e stridente risonanza della lama d’una
katana che veniva
sfilata dal fodero; ne vide lampeggiare sinistramente la punta prima di
ritrovarsi a schivarla, ponendosi di lato con la sua arma ben in pugno
per
assumere con un unico gesto la posizione d’attacco. E fu solo
a quel punto che
sollevò lo sguardo, incontrando gli occhi di falco del suo
eterno rivale.
Qualche ciuffo di capelli neri era ricaduto a nascondergli parzialmente
la
fronte, rendendo il suo aspetto ancor più rapace e feroce.
«Ti attendevo,
Roronoa»,
esordì con voce
profonda e pacata, muovendo giusto qualche passo di lato per tenerlo
d’occhio.
Non mostrava alcun segno di paura, nessuna inclinazione nel tono che
stava
utilizzando. Poneva solo le sue domande con calma e si muoveva, attento
ai
movimenti dello spadaccino, che lo fissava a sua volta senza
distogliere lo
sguardo, esattamente come un serpente che osservava la sua preda. Le
lame si
sfiorarono quando si mossero in simultanea, provocando un lieve
tintinnio
metallico prima che entrambi ritornassero in posizione
d’attacco con le armi
inclinate da un lato e impugnate a due mani.
«Saprai
anche il motivo per cui mi trovo
qui, allora», replicò con fermezza Zoro, sfilando
dal fodero la sua seconda
katana prima di gettarsi all’attacco; le lame di entrambi
danzarono in aria,
scontrandosi violente fra sibili d’acciaio e sguardi. Un
attacco fulmineo, un
fendente; le gambe si muovevano ritmicamente seguendo i passi
dell’altro, i
corpi compivano movenze eguali creando archi invisibili al suono delle
armi.
Zoro si tirò svelto indietro,
cercando
di parare un fendente ed evitarne un altro, muovendo passi veloci e
precisi per
schivarli ancora. Imprecò a denti stretti e, roteando il
bacino per colpire il
proprio avversario con il filo di entrambe le lame, incurvò
la schiena e cercò
di dare più potenza al suo colpo, contando soprattutto sulla
propria forza
fisica; Mihawk fu sfortunatamente più veloce di lui,
bloccando il suo attacco
con il dorso della propria katana prima di indietreggiare di pochi
passi,
tenendo la distanza dal giovane spadaccino che gli era dinanzi.
La lama nera di Occhi di Falco
calò
bruscamente sulla sua spalla, strappandogli i vestiti e lacerandogli la
pelle,
provocandogli un dolore lancinante. Zoro alzò di colpo lo
sguardo su Mihawk e,
sollevando una gamba, fu pronto a scagliarsi all’attacco, ma
fu interrotto
dalla brusca irruzione delle guardie, giunte a proteggere il loro
signore. A
spade sguainate avevano creato un arco perfetto poco distante da loro,
fissandolo senza pietà. «Non muoverti!»
esclamò una di loro, facendo sì che sul
volto dello spadaccino comparisse un’espressione di
consapevolezza. Non ce
l’avrebbe fatta, lo sentiva sin dentro le viscere.
E mentre la punta della lama della sua
katana si levava alta nel cielo, rifulgente di un bagliore demoniaco e
desiderosa di versare il sangue degli uomini che le si paravano
dinanzi, Zoro
capì che non avrebbe potuto mantenere la parola data,
stavolta. «Mi spiace,
cuoco». Sorrise amaramente, impugnando saldamente
l’elsa della propria arma
prima di abbassare le palpebre e sentire intorno a sé lo
stridio furente e
sinistro dell’acciaio. «Credo proprio che non
potrò più mangiare i tuoi
onigiri, dopotutto».
Era tutto finito. Probabilmente non ci
sarebbe stata una seconda occasione, per lui. Quello che stava calando
sarebbe
stato il suo ultimo tramonto.
[1] Cappello
a
cono che portavano i samurai, i
viaggiatori o la gente comune; era munito di lacci e strutture
interne per
poter essere indossato con maggior facilità.
[2] Specie
di
alga che cresce tipicamente nelle zone del
Giappone. È il modo in cui Sanji soprannomina Zoro a causa
del colore dei suoi
capelli, che richiamano proprio il colore dell’alga marimo.
[3] Pipa
tradizionale giapponese usata per fumare il
kizami, un tipo di tabacco piuttosto fine. Il boccaglio e la vasca sono
realizzati in metallo, con un tubo di legno o bambù che li
collega fra loro.
Giacché ogni kiseru è fondamentalmente una canna
con estremità di metallo, nel
periodo Edo venivano utilizzati anche come armi dai samurai.
[4] Cappello
di paglia dalla forma conica che viene fissato mediante una stringa di
tessuto
che passa sotto il mento, spesso di seta; all’interno
è presente un’altra
fascia che non lo fa muovere sulla testa. Questo cappello viene usato
essenzialmente come protezione dal sole e dalla pioggia, specialmente
da chi
lavora nei campi di riso.
[5] Strumento
musicale tradizionale
giapponese appartenente alla famiglia della cetra, derivato dal Guzheng
cinese.
Il corpo dello strumento è costituito da una cassa armonica,
lunga circa due
metri e larga tra i 24 ed i 25 cm, costruita, in genere, con legname di
Paulownia (Kiri in giapponese). Su
di
essa corrono tredici corde di uguale diametro ed aventi stessa
tensione, ognuna
delle quali poggia su di un ponticello mobile.
Il
koto viene paragonato al corpo di un drago cinese disteso. Per tale
motivo le
diverse parti di cui esso è formato assumono dei nomi che
ricordano quelle del
mitico animale.
_Note
conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Questa storia è stata scritta
per il contest “Scegliete
il vostro Japan Menù!”
indetto da Airo Pearl, nel quale si è classificata seconda
Ero partita
con un’idea totalmente diversa, se proprio devo essere
sincera, e alla fine è
venuta fuori una cosa simile. Adoro tutto ciò che concerne
il Giappone feudale,
dunque ho provato in qualche modo a rendere quella stessa atmosfera in
tutta la
storia, prendendo i ruoli che i personaggi hanno in quello Special Tv e
catapultandoli in una storia dalle tinte un po’
più drammatiche.
La scelta
di concludere in questo modo è stata voluta,
poiché sa molto di finale aperto:
Zoro in quello scontro potrebbe morire come potrebbe invece
sopravvivere e
tener fede alla promessa fatta a Sanji, ma sta soltanto al lettore
decidere che
cosa potrebbe succedere da quel momento in poi.
Non saprei
cos’altro aggiungere, dunque spero che la storia sia in
qualche modo
piaciuta.
Commenti e critiche, ovviamente, sono sempre ben accetti.
Alla prossima. ♥
Messaggio
No Profit
Dona
l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai
felice milioni di
scrittori.
|