Unbearable
Nota dell'autrice: Questa
fanfitcion è nata in inglese e, poiché non si tratta
propriamente della mia lingua migliore, la sua traduzione risulta un
po' impoverita, me ne rendo conto. Potete andare QUI per leggere la versione originale (sempre by me).
Mi auguro
comunque che appreziate l'idea. Buona lettura!
«Il metro» disse, sollevando la
testa e fissando il vuoto, rivolto verso il camino. Non c’era niente lì, ma
attraverso quel buco nero poteva vedere in un altro luogo, in un altro tempo.
Poteva vedere il momento in cui il killer aveva afferrato il metro e aveva strangolato
la sorella, ruggendo, una scintilla primitiva negli occhi.
«Come lo sai?»
«Hai mai visto un sarto senza
metro? L’ha usato per ucciderla, ecco perché non lo aveva nel suo laboratorio.
Chiama Lestrade, andremo là.»
Sherlock
si alzò dalla sua poltrona e lanciò un’occhiata a John prima di dirigersi in
cucina: meraviglia, ammirazione, orgoglio. Il suo viso era così leggibile.
Sherlock sorrise.
Un
altro caso risolto.
Il
sarto non fu meravigliato affatto. Aveva creduto che liberarsi del metro
sarebbe stata la scelta migliore. Doveva essere stato un insulto alla sua
povera intelligenza. Aveva davvero creduto che nulla avrebbe potuto
incastrarlo, ma si sbagliava. Fallire causa sempre un’acuta delusione.
Quella
pesante sbarra di metallo: probabilmente la usava per appendere i vestiti
ultimati. Probabilmente? No, Sherlock ne era certo, anche mentre la sbarra
scendeva sulla sua testa e lo sguardo negli occhi del sarto rasentava la
pazzia.
La
sua percezione era strana: non era sicuro circa la reale distanza degli
oggetti, né del loro colore- La luce era troppo brillante e ferì i suoi occhi
per alcuni istanti. Era John? Era abbastanza vicino da poterlo toccare? Avrebbe
voluto accertarsene ma improvvisamente capì di non poter alzare il braccio. Era
meglio riposare ancora un po’. Il dolore alla testa stava aumentando.
John
diceva qualcosa, o forse gridava. Sherlock poteva a mala pena udire un brusio,
ma poteva vedere i suoi occhi. Cos’era quello sguardo? Poteva leggere paura e
preoccupazione, ma anche una punta di… delusione? Il dolore dalla testa ferita
stava migrando più in basso, improvvisamente colpì il suo petto. Perché era
deluso?
Sentì
la mano di John premere sulla sua spalla. «Stai giù. L’ambulanza sta arrivando.»
Non ho bisogno di un’ambulanza, sto
solo risposando, ma non sapeva se aveva effettivamente
parlato o se si era soltanto immaginato quelle parole.
Di
nuovo quello sguardo: incredulità e delusione.
«Perché
non l’hai evitato, o non hai almeno cercato di difenderti?»
Stavo deducendo la sbarra. Ho
calcolato male le priorità, a giudicare dalla tua faccia.
«Hai
sbagliato le tue priorità» disse John. Anche lui poteva leggere lo sguardo di
Sherlock. Non era stupido. Non completamente. Ma poi scosse la testa
tristemente, rassegnato.
La
sensazione fu la stessa di essere colpiti una seconda volta.
Giacere
sul suo letto era indubbiamente più comodo che stare sdraiato sul duro, sporco
pavimento nel laboratorio di un omicida. Ma c’era ancora qualcosa di doloroso
che continuava a ricordare e che lo faceva sentire a disagio.
«Il
tuo brillante cervello non sembra aver subito danni.» John entrò nella stanza.
Si sedette sul margine destro del letto, appoggiato alla mano sinistra,
sporgendosi in avanti. «Ma devi avere cura di te stesso e smetterla di comportarti
da idiota incosciente.»
«Non
riesco a capire» rispose Sherlock. Non gli importava delle parole di John, ma
solo del suo sguardo irritato.
«Cosa?»
Perché mi interessi così tanto la
tua approvazione, ma non erano quelle le parole giuste da
dire.
«Ma
ho risolto il caso, no?» chiese invece. Un sottile sorriso apparve sul volto di
John e Sherlock avvertì un lieve sollievo.
«Sì.»
John abbassò lo sguardo sulla coperta, come se stesse rievocando una memorie
piacevole. Poi la sua espressione tornò stizzita e si alzò, camminando fuori
dalla camera. «Ma ora preferirei che non l’avessi fatto.»
Quella
spiacevole sensazione non sfumò. Sherlock la ricordava, Baskerville, il
disagio, la paura di avvertire un sentimento che non era suo. Un pensiero
parassita.
Il
dolore gli esplose in testa.
«Stai
bene, Sherlock?» domandò Lestrade.
«Perfettamente.»
«E
allora perché quella benda?»
«Stupida
precauzione del medico. E ora, se volete tacere e lasciarmi lavorare…»
Stava
seduto sui talloni, le mani giunte sotto il mento, studiando il corpo di un
uomo morto nel terrore. La smorfia sul suo volto era grottesca, piena di dolore
e paura. Nessun segno di violenza, niente sangue, nulla fuori posto.
«Il
medico legale dice che potrebbe essere stato un attacco di cuore, ma niente è
certo prima dell’autopsia. In ogni caso credo sia evidente che…»
«Silenzio»
ripeté Sherlock.
Non
vi era nulla di interessante in quel corpo, avrebbe potuto continuare a cercare
ma sapeva che no avrebbe trovato nulla lì. Ma nelle vicinanze sì.
Si
alzò lentamente, guardandosi attorno. Il corpo era caduto dalla sedia di fronte
al tavolo, il quale era coperto da una tovaglia bianca. Sul tavolo alcune carte
da gioco: un solitario incompiuto. Aveva piazzato il Jack di picche al posto
sbagliato. Un bicchiere di liquore, mezzo vuoto. Scotch. Nulla di rilevante. Un
candela. Perché usare una candela in una casa con l’elettricità?
«Accendete
le luci» ordinò Sherlock, qualcuno obbedì. Sentì il rumore di un interruttore
ma la luce non venne. «Ovvio» mormorò.
Sherlock
annusò la candela. Riconobbe l’odore: un’improvvisa intuizione, un lampo nella
sua mente, epifania.
«Portate
questa al laboratorio» disse porgendo la candela a Lestrade, «questa è la
vostra arma del delitto.»
Due
ore più tardi ricevettero il risultato dei test: una rara radice indigena
bruciata con la candela aveva causato allucinazioni e un attacco di cuore. Il
cognato era appena tornato da un lungo viaggio in Africa: odiava la vittima.
Caso risolto.
Sherlock
incontrò lo sguardo di John: stava sorridendo in ammirazione e orgoglio. Fu
come una rinfrescata in un giorno caldo.
La
pioggia batteva sugli ombrelli producendo suoni croccanti. Avevano coperto il
corpo il prima possibile, ma a quel punto qualunque tentativo di prevenire ogni
altro danno sarebbe stato inutile: la pioggia aveva già lavato via qualunque
cosa dal corpo e dalle vicinanze, il cadavere era freddo e leggermente
irrigidito, persino l’ora della morte sarebbe stata difficile da stabilire.
La
polizia stava vagando per la via alla ricerca di qualcosa che l’acqua non
avesse ancora trascinato via, con scarsi risultati. Tra il corpo e il
marciapiede un torrente stava scorrendo insistentemente.
«Ipotizzo
che sia morta tra le otto e le venti ore fa. È un largo lasso di tempo, ma questa
pioggia…» John si alzò dal corpo con aria contrita. «Dobbiamo aspettare l’autopsia.»
Il
mal di testa di Sherlock iniziò con un fastidioso brusio e iniziò ad aumentare.
Non rispose. John lo fissò alzando le spalle, aspettando di udire qualcosa di
intelligente dal consulente investigativo.
«Venti
ore sono un tempo troppo lungo. Questa strada dev’essere stata percorsa la
scorsa notte almeno una o due volte. È morta non molto tempo fa, ma il corpo è
già rigido. Dobbiamo cercare ciò che l’ha causato.» Sherlock avvertì il bisogno
di guardare John, leggere la sua espressione. Mal di testa.
Il
rigagnolo continuava a fluire. Iniziò a seguirlo con passi ampi e attenti. John
lo seguiva. La strada diventò più larga e il torrente si divise in due. Destra
o sinistra. Destra. Procedette per qualche passo ancora. Ed altri ancora. Forse
un altro. Sì, doveva essere quello il luogo. Sherlock si chinò. C’era una grata
sul lato del marciapiede. Sapeva che sarebbe stata lì. Intrappolata tra le
sbarre trovò l’arma del delitto: una siringa.
John
lo raggiunse e gli mise una mano sulla spalla. Sherlock sentì che si sporgeva
in avanti per vedere meglio. Sentì il suo respiro diventare più rumoroso per la
sorpresa.
«Fantastico!
Come hai… al primo tentativo…»
«Dobbiamo
essere creativi, John.» Sherlock sorrise compiaciuto. Il mal di testa era
svanito. «Io sono creativo, in effetti, e questo era abbastanza semplice da
immaginare. Potrei quasi dire che si è trattato di un déjà-vu.»
La
sua stanza. Era la sua stanza. Beh, ovvio: era notte, stava dormendo ed era
nella sua stanza, nel suo letto. Perfettamente normale. Aveva sognato qualcosa
che lo aveva fatto svegliare. Aveva immagini nella sua mente, casuali frammenti
colorati. Non avrebbe dovuto provare a dar loro un senso, la mente umana tende a
tentare di costruire ponto razionali tra varie immagini, ma non può. La mente
umana è limitata, persino la sua, alle volte. È una semplice questione chimica,
gli umani tendono ad essere razionali, specialmente Sherlock. Questo era il
motivo per cui doveva fermarsi ora, prima di che il sogno venisse corrotto.
Ma
qualcosa di scomodo lo stava facendo riflettere: lo odiava. Non riflettere,
dubitare. Aveva sognato di un omicidio. Un brillante omicidio, questo va detto.
Ovviamente: lui amava gli omicidi, i misteri, i puzzles. Era intelligente, per
cui sognava omicidi intelligenti.
Una
giovane donna era stata drogata e nascosta in una bara, sotto un altro corpo
insospettabile: una donna anziana morta di vecchiaia. La vecchia signora aveva
ricevuto un piccolo funerale e la bara era stata seppellita. Questo era ciò che
riusciva a ricordare sul suo sogno, tutto il resto non aveva senso, schegge
ingarbugliate: qualcosa a proposito dei suoi guanti, cloroformio, John che
sorrideva, bianco, un verme che scavava nella carne marcia. Quei pensieri
illogici peggiorarono il suo mal di testa.
«Sappiamo
che la tengono prigioniera, ma non abbiamo prove e non sappiamo dove potrebbe
essere!» Lestrade era davvero agitato, stava camminando velocemente davanti a
quel zuccheroso, bianco cottage. Molti poliziotti stavano in piedi nel
giardino, guardandosi attorno un po’ annoiati, scrollando le spalle: non
sapevano cosa fare.
«Abbiamo
già perquisito la casa» proseguì Lestrade. «Non avevamo un mandato» ammise
infine. «Nulla, non una singola prova eccetto una bottiglia di cloroformio, ma
non basta a incriminare qualcuno.»
Sherlock
osservò il bianco abbagliante della casa. Era così dannatamente bianco. «Cloroformio,
hai detto.»
«Cloroformio»
ripeté Lestrade, era troppo ansioso.
John
stava battendo un piede sul terreno erboso, pensieroso. Aveva le braccia
incrociate. Guardava Sherlock, dubbioso. «Forse potremmo… non siamo della
polizia, potremmo chiedere di visitare la casa… e dare un’occhiata.»
Idea
stupida. Non sei così stupido, John. Sai
che non può funzionare.
Il
mal di testa stava aumentando. Una dolorosa escalation. Come un tarlo stesse
scavando nel suo cervello, pezzo dopo pezzo. Sherlock chiuse gli occhi and
prese fiato. Doveva trovare la soluzione.
Una
campana suonò non molto lontano. Sherlock si voltò alla sua destra, video il
campanile del piccolo villaggio. La chiesa era fatta di pietre chiare, rustica,
campagnola. Sul retro vi era un accogliente cimitero, alcune persone stavano
entrando nella chiesa.
«È
un funerale?» chiese. Domanda ovvia, non necessitava davvero di una risposta.
«Sì.
Una vecchia zia dei proprietari della casa… dove stai andando?» gridò Lestrade
guardando Sherlock galoppare verso la chiesa.
«Era
grassa?» chiese Sherlock ad un’anziana signora vestita di nero che stava
seguendo la bara dentro la chiesa.
«Prego?»
La donna era comprensibilmente confusa.
«Mi
perdoni, le mie più profonde condoglianze. La donna morta era grassa?»
«N-no,
non lo era! Era ancora graziosa e…»
«Allora
perché usare una bara così grande?»
La
signora era sul punto di scoppiare a piangere. «Era mia amica, non ne ho idea…
si meritava una bara grande!»
Sherlock
smise di prestarle ascolto e raggiunse la testa della processione. «Polizia.
Mettetela giù.» Le persone tutt’attorno borbottavano confuse. «Mettetela giù!»
Lestrade
arrivò correndo, mostrò il distintivo. «Fate come ha detto!» ordinò, poi
sussurrò a Sherlock: «Spero tu sappia quello che stai facendo.»
John
aiutò a rimuovere il coperchio della bara. All’interno giaceva un’anziana
donna. Certamente non poteva essere morta durante l’ultima settimana, a
giudicare dall’odore e dalla decomposizione.
John
era esterrefatto, guardò Sherlock con una punta di panico nei suoi occhi. Il
mal di testa era sul punto di fargli esplodere il cervello.
«Spostiamola!»
disse Sherlock, stringendo i denti.
La
bara aveva un doppio fondo. Lo sollevarono e scoprirono il secondo corpo: la
giovane donna rapita.
«È
ancora viva!» John aveva premuto le dita sulla sua carotide.
Confusione.
Poliziotti tutt’attorno, medici per il primo soccorso, persone che gridavano.
Sherlock sedeva sull’erba, ansimando, cercando di concentrarsi contro il dolore.
John
si chinò su di lui. «È stato straordinario, Sherlock! Tu sei stato
straordinario!»
Sherlock
afferrò strettamente il suo braccio. «Dillo di nuovo.»
«Sei
stato fantastico.»
Il
suo sguardo era sincero, c’erano orgoglio e ammirazione nel suo sorriso.
Finalmente Sherlock poté respirare regolarmente, il mal di testa era sparito.
Si portò la mano alla bocca per nascondere un sorriso. Il suo guanto emanava un
leggero odore di cloroformio.
I
primi passi furono come un sogno, poi capì che i suoi piedi lo stavano
realmente postando alla camera di John, era davvero in piedi di fronte alla sua
porta, sentì il legno ruvido della porta di legno sotto i suoi polpastrelli.
La
porta era socchiusa. John l’aveva dimenticata? No, aveva abitudini militari: l’aveva
fatto di proposito. Si trattava di un muto invito? O solo una precauzione?
Un
cigolio smorzato, una lama di luce colpì il letto e si inarcò sopra un corpo
avvolto.
«John.»
Silenzio. «John.»
Un
fremito.
«C-cosa?»
Il tono della domanda era un po’ troppo alto. John stava davvero dormendo ed
era stato sorpreso da quell’interruzione. «Che succede, Sherlock?»
«Hai
qualcosa… per il mal di testa?»
John
si sedette e spostò la coperta di lato. «Mal di testa? Dio, hai ancora… perché non
me l’hai detto prima?»
Sì
allungò attraverso il letto e raggiunse il comodino alla sua sinistra. Aprì il
cassetto e Sherlock udì il ticchettio delle pillole in un contenitore di
plastica.
«Vieni,
siediti.» Sherlock entrò. La stanza odorava di John. «Ho un bicchiere d’acqua
qui… Spero non di dispiaccia se… l’ho già usato.»
Sherlock
afferrò il bicchiere senza ribattere a bevve le pillole, sedendosi sul lato del
letto.
«Credi
che sia dovuto al colpo? Al colpo inferto dal sarto, intendo.»
«Probabilmente.»
«Beh,
credo… che sia abbastanza normale, sei costantemente stressato da casi
pressanti e con una dieta discutibile come la tua…»
«Qualcosa
mi fa pensare» lo interruppe Sherlock.
«Qual
è la novità?» Lesse una sorta di speranza nel tentativo di sorriso di John.
«I
miei sogni.»
«Incubi?
Oh, aspetta, che stai…»
Sherlock
aveva posato la fronte sulla spalla di John. Non l’aveva premeditato, ma quel
posto sembrava essere il più accogliente e sanatorio.
La
sua voce era un sussurro. «Sogno gli omicidi.»
«I-io
non credo che sia strano. Anch’io sogno gli omicidi, talvolta, specialmente i
più terrificanti.»
«Sogno
gli omicidi… in anticipo.»
Sherlock
avvertì John immobilizzarsi per un momento, poi un timido tremore: stava
cercando di ridere. «Sai cosa, ho letto a proposito di questo. Alcune persone
possono farlo e tu hai una mente talmente strana… Voglio dire, chissà come
lavora davvero il tuo cervello. Probabilmente sei stato suggestionato.»
Silenzio, la sua spalla tornò immobile.
«Quante
volte?»
«Alcune.»
«Quante?»
insistette John.
Una
nuova esplosione di dolore costrinse
Sherlock a ritardare la risposta. Qualcosa di estraneo si stava insinuando nel
suo cervello. «Quattro.»
«Beh…
coincidenze?»
«Quando
sono sul punto di risolvere un caso li vedo. Sono come i ricordi di uno
sconosciuto.»
Non
riusciva a capire, era quello il vero dolore, la sua vera disperazione. E poi c’era
quell’urgenza, come un’immensa fame, un bisogno di essere elogiato da John,
vedere la sua approvazione e il suo orgoglio nel suo sorriso, nei suoi occhi,
sentirli nelle sue parole. Ancora e ancora, non poteva farne a meno. Il suo
cervello era assetato di elogi. Qualcosa doveva essersi rotto quando era stato
colpito dalla sbarra, lo sapeva. Quei pensieri erano come un cancro. Ma l’unico
modo che aveva per fermarli era John.
«Come
va il tuo mal di testa?» John stava cercando di fuggire da quello scomodo
argomento, ciò fece aumentare il dolore.
«Sei
fiero di me?» chiese Sherlock tutto d’un fiato. Fai smettere questa sofferenza. Ti prego. Ti prego. Riusciva a
sentire la pena nella sua stessa voce. Era vergognoso, ma improvvisamente era
regredito, necessitava di attenzione come un bambino, non gli interessava della
miserevole impressione che stava dando. Doveva sentire quelle parole, ora!
«Io…
sì.» John era preoccupato. Forse addirittura spaventato da lui. «Lo sono,
Sherlock. Sei così intelligente e capace.»
«Dimmelo.»
John
sospirò dolorosamente e appoggiò una mano sulla testa di Sherlock. «Sono fiero
di te.»
Tutte
le persone nel vagone lo stavano fissando ad occhi aperti. Un’anziana coppia
spintonò gli altri passeggeri e sparì al di là della folla. Cosa c’era che non
andava in loro? Ecco perché Sherlock odiava la metropolitana: era popolata da
ubriachi, stranieri, pazzi, persone disgustosamente ordinarie che si
spaventavano solo perché lui stava seduto lì. Con in mano un arpione. Coperto
di sangue. Non era colpa sua, nessun taxi si era fermato per lui. Idioti.
Era un esperimento, avrebbe
voluto gridare loro, ma sarebbe stato inutile.
«Che
noia» sospirò entrando nell’appartamento.
John
improvvisamente sollevò la testa verso di lui, sgomento. «Dove sei stato?! Cos’è
quello?!» Era esageratamente agitato, stava in piedi davanti a lui, ma non
troppo vicino, stringendo il giornale che stava leggendo pochi istanti prima.
Il primo giornale del giorno, dedusse Sherlock, odorava ancora di tipografia.
«Non
essere noioso, John. Ho arpionato un maiale per un esperimento, ma non è stato
così interessante come avevo immaginato.»
«Un
maiale? Tutta la notte?» John non gli credeva.
«Cosa
c’è che non va?»
«Sei
stato fuori tutta la notte, ero in pensiero per te! Perché non rispondi al tua
maledetto telefono una volta nella vita?!»
«Non
ho fatto caso al tempo.» Sherlock parlò tranquillamente per impedire al mal di
testa di crescere più in fretta. Era sul punto di andarsene, magari per farsi
una doccia: i suoi vestiti sapevano di sangue, non esattamente il migliore dei
profumi, ma John gli si piazzò davanti interrompendogli il cammino. Stava ancora
tenendo il giornale, ma l’aveva piazzato dietro la schiena, come se volesse
nasconderlo. Certamente non per nasconderlo da Sherlock, doveva sapere che si
trattava solo di uno stupido tentativo. Lo fissava, la bocca semi-aperta, il
labbro superiore tremava leggermente, voleva dire qualcosa ma aveva paura, oppure
non ne era sicuro.
«Tu
hai… hai davvero colpito un maiale?»
Sherlock
si guardò attorno esasperato. «Sì, sì! Qual è il problema? Era un maiale morto!
È per lui che stai soffrendo? Ha avuto una magnifica, fangosa esistenza finché
non è morto come tutti i maiali!»
L’espressione
penosa di John lo stava facendo innervosire, lo stava facendo soffrire. Stava
dubitando, c’era qualcosa di strano nei suoi occhi. Poteva trattarsi di paura?
Qualcosa molto simile. Non aveva paura per se stesso, ma per qualcun altro.
«Ti
credo» disse infine. Mentiva.
John
camminò lentamente fino al divano e rimase lì, dopo aver gettato a terra il
giornale. Sherlock se ne andò in tempo per vederlo prendere in mano il suo
telefono e comporre un messaggio, esitando sopra ogni lettera, tremando un po’.
Sherlock
si chiuse nella sua camera, bisognoso di separarsi dal mondo. Si tolse la
camicia indurita dal sangue, si sedette sul bordo del letto e si prese la testa
tra le mani.
Qualcosa
nel suo cervello si stava oscurando, come un’eclisse. Immagini, memorie, sogni.
Chi era cosa? Era incapace di pensare. Lui non era mai incapace di pensare!
Come un vetro trasparente, qualcosa gli impediva di pensare razionalmente. Il
dubbio. Il dubbio di John, circondato dal dolore.
Insopportabile…
…
Insopportabile.
Finalmente
il riscatto. Un altro caso. Brillante, certo, ma facile da risolvere con una
mente attenta e allenata. Come la sua. Ma era comunque glorioso: tutto il
sangue della vittima era stato drenato e riempiva una piccola piscina per
bambini. La donna morta sedeva su una sedia a dondolo vicino alla piscina con
indosso un costume da bagno, cercando di catturare i raggi di un finto sole –
una lampada al neon – sulla sua pelle mortalmente bianca, dissanguata.
Curioso,
intrigante. Ma non era così difficile sapere come il killer avesse estratto
tutto il sangue, poteva quasi vederlo.
«Sherlock!»
«Non
ora, sto deducendo» intimò sollevando una mano.
«Sherlock…»
Lestrade sapeva essere davvero fastidioso. «Fermati.»
«Mi
hai chiamato e ora cambi idea, Lestrade? La polizia non può affrontare quest-…»
Il suo piede produsse un rumore liquido. Strano. Guardò in basso: le sue
caviglie erano circondate dal sangue, un rivoltante, metallico e dolciastro
odore permeava i suoi vestiti e all’improvviso realizzò di stare in piedi in
mezzo alla piscina.
«Non
ti ho chiamato, Sherlock» disse Lestrade gentilmente. «Mi ha chiamato John, perché
tu sei sparito nel mezzo della notte, come aveva già fatto molte altre notti.»
«Non
dire assurdità, ricordo perfettamente…» Non era vero. Non ricordava come aveva
fatto ad arrivare lì. «John?»
«Non
muoverti, Sherlock. Andrà tutto bene, non muoverti.» Era lì, anche lui,
Sherlock non lo aveva notato prima. La sua vista era come macchiata dall’oscurità
che si stava diradando, rivelando la realtà. Oppure no? Era sicuro che quella
non potesse essere la realtà: Lestrade lo aveva chiamato sulla scena di un
crimine, lui stava risolvendo il puzzle, John lo stava assistendo, stava
giungendo a una brillante conclusione, come sempre.
Fece
qualche passo fuori dalla piscina, lasciandosi dietro un sentiero rosso,
sentendo il pavimenti viscido sotto i suoi piedi.
John
alzò una mano, Lestrade alzò una pistola.
«Non
farlo, Sherlock» gli chiese John. No, lo stava supplicando.
«Fare
cosa? Posso risolverlo. È semplice, posso risolverlo!» Sherlock procedette, non
poteva credere a ciò che leggeva negli occhi di John. Che cos’era? Paura? No,
tristezza? Disperazione. Delusione. Speranze infrante.
Il
dolore esplose come migliaia di aghi. Sherlock alzò una mano per tentare di contenere
il dolore, ma si bloccò quando vide il suo guanto grondare sangue. Era ferito? Perché
tutto quel sangue? Perché non riusciva a capire?
«John.»
Cercava i suoi occhi, un’occhiata rassicurante, uno sguardo complice, qualche
spiegazione perché lui non ne aveva. Non vide niente di tutto questo: poteva
solo vedere un profondo, muto orrore, come la muta disperazione di un uccello
intrappolato.
Improvvisamente
il dolore su insostenibile.
Fastidiosa
pace, silenzio, come se il tempo e lo spazio stessero aspettando la sua
prossima mossa, aspettando di giudicarlo. Definitivamente. Ma non aveva nulla
da fare in quella chiara camera d’ospedale, niente da dire, niente a cui
pensare. Sentiva che il suo cervello era stato lavato, era vuoto per la prima
volta nella sua vita. Non riusciva a pensare. Non poteva nemmeno muoversi, perché
il suo polso era stato ammanettato al letto. Non sarebbe andato da nessuna
parte comunque. Non aveva alcun posto dove andare né a cui far ritorno.
John
era stato lì quando si era svegliato, lo aveva informato che era stato
ammanettato e ciò che aveva applicati alla fronte erano semplici elettrodi.
Come se non potesse notarlo da solo. Probabilmente era anche stato drogato perché
il dolore acuto nella sua testa era diventato smorzato e costante, come un
pensiero non trascurabile. Un pensiero dal colore scuro. Nero pece e viscido.
Siccome
non aveva dato segno di voler parlare, John alla fine se n’era andato. E di
nuovo silenzio.
Un
poliziotto era stato mandato a sorvegliare la porta della camera, ma viste le
ore di immobilità si era concesso delle lunghe pause.
Un
comune criminale. Doveva accettarlo, adesso. Ma non era la parola ‘criminale’
la più offensiva e vergognosa delle due.
Comune.
Ordinario.
Falso.
Guardò
le manette attorno al suo polso destro: non erano poi così strette. Provo a
tirare la sua mano all’interno dell’anello di metallo, sentì la pelle
strapparsi ma la sua mano si stava muovendo leggermente, lentamente scivolando.
Il sangue sul suo polso rese la fuga più facile e improvvisamente fu libero.
Libero dalle manette. Non sarebbe mai più stato libero.
Sulla
sedia stavano alcuni vestiti piegati. Non quelli che indossava la notte
precedente, ovviamente. Quelli erano stati probabilmente spediti ai laboratori
della polizia come prove. John doveva avergli procurato quelli nuovi. Fu felice
di averli e li indossò, non avrebbe finito si suoi giorni in uno scomodo camice
da paziente fatto di carta.
Fuori
era silenzioso, il corridoio era vuoto. Era stato fatto sistemare in un’ala
tranquilla del Bart’s: che gentile premura.
Sapeva
perfettamente dove andare e salì le scale senza esitazione. Ancora due piani da
scalare.
Sherlock
guardò le persone camminare in basso, nella strada, condurre un’ordinaria,
noiosa vita solo pochi piedi più in basso. Trenta piedi, forse? Li osservava e
prendeva tempo. Non aveva paura, si stava solo chiedendo se sarebbe
effettivamente servito a qualcosa, ma non c’era un’altra opzione.
«Torna
indietro, Sherlock.» La voce di John era sorprendentemente calma. Davvero
notevole. Ma quando Sherlock si voltò scoprì che John no era calmo affatto. No,
era solo terrorizzato. È facile scambiare il muto terrore per calma.
«Perché?»
«Perché
è una pazzia!»
«Io
sono pazzo.»
John
rise nervosamente. «Non sei pazzo, Sherlock. Non lo sei.»
«Cosa
sono allora?»
«Sei
solo… stressato.»
«Stressato.»
Sherlock riuscì a malapena a trattenere una risata. I tentativi di difenderlo
di John erano così innocenti e ingenui. Era come un bambino viziato che cercava
di ottenere un altro giocattolo con qualche scusa assurda. «Certo, sono
stressato. Uccidere così tante persone è un lavoro impegnativo.»
«Non
mi importa di quelle persone» rispose John d’un fiato, senza esitazione. Questa
volta, Sherlock rimase sorpreso.
«Nemmeno
a me.»
«E
allora… cosa stai facendo lì?»
«Mi
godo il sole.» Il colto di John era come pietra. Non gli piacevano gli scherzi
in una situazione come quella ed era un peccato perché avrebbe potuto assistere
a quella vergognosa pantomima con un po’ di divertimento. «Ho intenzione di
saltare.»
«No,
non è vero.»
«Sono
abbastanza sicuro di essere io quello sul bordo di un tetto.» Poteva avvertire la
paura di John formicolare nell’aria. «Torna dentro, John.»
«No!»
Aveva urlato. «Sherlock, non hai bisogno di farlo.»
«E
allora, cosa?» Sherlock era furioso adesso. «Verrai a farmi visita in prigione
tutti i giorni? Verrai a trovarmi in manicomio? Mi leggerai le testate dei
giornali: ‘Falso detective psicotico uccide i suoi stessi casi?’»
«Credevo
che non ti importasse dell’opinione degli altri.» Rimprovero. Molto astuto.
«Credevo
un sacco di cose anch’io, ma improvvisamente sono tutte sbagliate!» Sherlock
prese un respiro. John lo stava infastidendo ma vederlo disperato lo feriva. «A
me importa della tua opinione.»
John
fece qualche passo avanti, improvvisamente ispirato da nuova speranza. «La mia
opinione non è cambiata! Sono ancora fiero si te!»
Sherlock
lo fece fermare alzando la sua mano destra. «Come puoi dirlo? Sei fiero di un
assassino?»
«No.
Sono fiero di Sherlock Holmes.»
«Allora
non sei fiero di nessuno. Sherlock Holmes non esiste più.»
«Ma
sei di fronte a…»
«L’uomo
di fronte a te è colui che ha ucciso dozzine di persone!» Scandì ogni parola
con un passo dopo l’altro, indietreggiando. I suoi talloni raggiunsero il
vuoto. «Colui che ti ha ingannato, che stava innanzi ai casi deducendo i suoi
stessi omicidi senza nemmeno saperlo! Colui che venerava il suo stesso intelletto,
il suo falso intelletto!»
«Ma
non erano dozzine! Hai avuto soltanto cinque casi da quando sei stato colpito.»
«Il
colpo non c’entra, mi ha solo indebolito. Ricordo perfettamente, John. Ho
sempre agito spinto da una dipendenza!»
«Quale
dipendenza?»
Sherlock
strinse i denti, poi rilassò di nuovo la mascella. «Tu.»
John
stava perdendo le forze, sostituite dalla frustrazione. «Vieni qui, per favore.
Smettila.» Sherlock avvertì la sua impotenza e vide le sue lacrime. «Ti prego,
smettila. Andiamo a casa.»
«Non
posso andare a casa.»
«Torna
indietro, continua ad essere l’unico consulente investigativo al mondo!»
«Non
è mai esistito.»
«Sì!
Tu sei ancora l’unico al mondo… sei l’unico al mondo per me. Ti prego.»
Anche tu, pensò
Sherlock, ed è per questo che deve
finire.
Un
altro breve passo e il suo piedi fu sospeso nel vuoto. Iniziò a sentire alcune
persone parlare e urlare di sotto. Ma un altro grido ruppe l’aria, spezzato in
lacrime.
«Sherlock!»
John
stava avanzando, mosso dal coraggio della disperazione.
«Non
ti perdonerò! Ascoltami bene, non ti perdonerò!»
«Ed
è così che dev’essere.»
L’aria
riempì le sue orecchie nella caduta e tutti gli altri suoni si fermarono. Il
grido di John fu muto, anche i suoi passi e le sue ginocchia che colpirono il
margine del tetto. Solo pochi pollici più vicino e probabilmente l’avrebbe
afferrato, ma riuscì solo a sfiorare la guancia di Sherlock, colpendolo con la
sua stessa colpevolezza e, allo stesso tempo, donandogli l’ultimo assaggio di
calore prima dell’inevitabile freddo.
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