La cameriera del diner
Le giornate di merda bisognava imparare a riconoscerle a fiuto,
così da darsi malati e rimanere tutto il giorno sotto la
trapunta del divano. Così almeno la cosa peggiore che
sarebbe potuta capitarti era doversi trascinare fino al frigo per
trovare qualcosa di commestibile.
E invece, all’inizio di quella giornata di merda, aveva
trovato Wis rimasto a bocca asciutta la sera prima, di conseguenza
voglioso di sfogarsi e di conseguenza pronto a farlo sui suoi
dipendenti. Non era la prima volta che si prendeva le gentilezze di
Wis, ma quella mattina il suo “Jo, come al solito hai perso un'ottima occasione per stare zitta e non rompere il cazzo” era arrivato dopo una notte
insonne, tre bollette nuove e un perizoma della Troia Svedese ritrovato
dopo mesi tra i cuscini del divano. A quanto pare il suo ex e
l’attuale fidanzata non ci davano dentro solo nel suo letto, sul suo tavolo della
cucina e in sella alla sua
moto.
Almeno il turno di lavoro era finito: scalciò via la divisa
del diner e tirò fuori dallo zaino la canottiera bianca.
Sarebbe stato bello fare una scenata da film, con il capo scornato, i
clienti che applaudono e lei che incede in mezzo ai tavoli rovesciando
a terra la brocca del caffè. Anzi, prima avrebbe
appallottolato la stupida divisa rosa, poi avrebbe preso la brocca del
caffè e l’avrebbe versata sulla pelata lucida di
Wis, allora la signora Richardson le avrebbe sorriso, mite,
sorseggiando il solito tè freddo alla pesca, mentre il resto
della sala applaudiva.
Si allacciò i jeans e le scarpe da ginnastica, mise la
divisa appallottolata nello zaino e si appuntò mentalmente
di guardare la pagina degli annunci di lavoro sul giornale gratuito
della metro. Almeno, con un nuovo contratto in mano, avrebbe potuto
fare la sua uscita trionfale. Nel frattempo si sarebbe accontentata di
perfezionare la scenografia. Si sbatté alle spalle la porta
del retro, con lo zaino su una spalla e il sacchetto della spazzatura
sull’altra. Lo mollò vicino ai bidoni e
uscì dal vicolo sulla strada principale.
Frugò la tasca esterna dello zaino in cerca del pacchetto di
sigarette, ma la scatoletta di cartone era vuota.
Giornata di merda, giusto.
- Permette?
Una mano sporse verso il suo naso un portasigarette di cuoio pieno di
Marlboro. La mano apparteneva a un uomo alto e biondo, che le fece un
sorriso.
- Quando arriva la fregatura?
L’uomo biondo la guardò perplesso.
- Sono scese così tanto di qualità le Marlboro da
quando le ho comprate l’ultima volta? Scusi, forse sono io
che non ricordavo più il sapore di una buona sigaretta, dopo
tutti gli anni passati a fumare catrame, al fronte. Se mi indica una
rivendita di tabacchi, le posso offrire un pacchetto di una marca
più di suo gusto.
Lei lo fissò, indecisa se inquietarsi o ridere per il modo
affettato con cui le si rivolgeva. Alla fine gli prese una delle
sigarette.
- Marlboro andrà benissimo, grazie. Le offrirei un
caffè al diner dove lavoro, qui dietro, ma temo che
rivaluterebbe il catrame.
Il biondo rise, accese a entrambi le sigarette e mise via scatola e
accendino.
- Peccato, perché il gusto del caffè dopo quello
del tabacco è qualcosa che… mi manca molto. Ma
venendo in qui ho visto un baracchino. Se non la offendo, potremmo
prenderci qualcosa lì.
- Certo che bruci le tappe in fretta, soldato! Facciamo che
è stato molto gentile…
- Steve.
- Ok, facciamo che è stato molto gentile, Steve, ma
preferisco andare a casa. È stata una brutta giornata oggi.
– Jo si sporse sulla strada per fermare un taxi di passaggio.
L’autista bloccò la macchina qualche metro davanti
a loro. Il biondo la superò, spalancò la portiera
dell’auto e le prese la mano per aiutarla ad accomodarsi. La
gentilezza dei modi la spiazzò, tanto che si
bloccò con un piede sull’auto e l’altro
sul marciapiede.
- Se vuole andare a casa, io chiudo la portiera e non la importuno
più. Ma se ha voglia di fare due chiacchiere e prendere un
caffè, non le nascondo che mi farebbe molto piacere.
Era strano quel tipo. Non aveva detto “prendere un
caffè” col tono che sottintendeva
“buttare a terra le mutande il più in fretta
possibile”. Gli occhi azzurri erano rimasti seri in attesa
della sua risposta.
Jo tolse il piede dal taxi e il biondo chiuse la porta.
- Va bene, Steve.
A guardarlo meglio poteva avere trenta, massimo trentacinque anni. Ma
dava l’impressione che dai suoi capelli mancasse giusto un
po’ di brillantina, per fare il paio con quei pantaloni a
vita un po’ troppo alta e la camicia dentro la cintura. E non
una camicia a scacchettoni, proprio una camicia.
Si erano seduti su una panchina vicino al baracchino del
caffè, con due bicchieri fumanti e ciambelle coperte di
glassa.
- Quindi lavori in un diner, Josephine?
A Jo il morso della ciambella andò quasi di traverso.
- Oddio, non chiamarmi così!
- Perché?
Steve fece una faccia educatamente perplessa. Ecco, avrebbe potuto
mettere l’avverbio “educatamente” prima
di ogni sua azione, sarebbe stato appropriato.
- Beh, perché oggi non sono vestita da Josephine.
– e questa da
dove esce? Perché questo tipo vestito come miononno sembra
assolutamente appropriato e devo fare io quella strana?
Steve le fece un gesto di incoraggiamento, come a dirle di proseguire
la storia, e lei ricominciò:
- Josephine è un essere misterioso e anacronistico come il
suo nome; appare solamente ai pranzi con la nonna, vestita di tutto
punto e col filo di perle. Così la nonna potrà
stupirsi se ancora non si è presentato alla porta un
giovanotto con un mazzone di rose rosse e una di quelle scatole di
cioccolatini a forma di cuore chiusa da un nastro di raso rosso, che
chiederà a mio padre il permesso di portarmi fuori a cena.
Quando finisce di fare parte delle fantasie anni ’50 della
nonna, Josephine scompare sotto un telo di cellophane
nell’armadio, e io torno a essere Jo.
- Peccato, credo che Josephine mi starebbe simpatica.
- Non dirlo alla nonna! Poi come minimo ti vuole a cena in completo.
- Credo di averne uno sotto naftalina, da qualche parte.
Jo pensò a un attimo che lui, in completo, sarebbe stato
ancora più Steve. Bevve un altro sorso di caffè.
- Ogni vestito dà un nome appropriato alla persona che lo
indossa, no? Come i supereroi.
Steve proruppe in una risata cristallina, che riuscì a
fermare soltanto col sorso di caffè successivo.
- Ok, ho detto una cosa davvero da ragazzina scema. Sarà
perché abbiamo Stark in città, non so se hai
presente... Diciamo allora che è come quando tu ti metti la
divisa da militare. Lì diventerai il capitano Rogers, no?
- Sai, Josephi… Jo, in realtà i due esempi si
assomigliano molto.
Steve scosse il tovagliolo con le briciole della ciambella e
attirò qualche piccione vicino alla panchina. Sembrava
sereno, come se si stesse godendo ogni cosa nel parco,
dall’aria fresca al caffè ai piccioni che tubavano
per avere ancora briciole.
- Sei stato via per molto tempo con l’esercito, Steve?
- Un bel po’. Mi mancavano questi posti, anche se sembra
sempre che cambi tutto troppo in fretta. Però il diner dove
lavori me lo ricordavo. Mi sono trovato a passeggiarci davanti quasi
per caso. Non hanno cambiato neppure le divise.
- Credo che Wis non le cambi da quarant’anni le divise, due o
tre anni sono una bazzecola! Ogni tre anni cambia al massimo il filtro
nella macchina del caffè. – Jo finì
l’ultimo sorso dal bicchiere e guardò
l’orologio sul suo polso. Quando alzò lo sguardo
Steve era già in piedi che le porgeva la mano.
- Mi offrirei di accompagnarla a casa, signorina, ma non credo si usi
più.
- Questo non vuol dire che rifiuterei, capitano Rogers.
- Lo sapevo.
- Cosa?
- Una cameriera di diner rimane sempre un po’ anni
’50.
La mattina successiva non preannunciò nessun giorno di merda
all’orizzonte.
Nel retro del locale, Wis si era scusato a modo suo, offrendole un
vassoio di muffin del giorno prima da portare a casa.
Poi, sbirciando dal retro del diner, Jo aveva visto Steve nascosto
dietro un giornale sportivo. Slacciò i primi due bottoni
della divisa, in modo che facesse capolino il filo di perle, infilato
quella mattina nello zaino tra una smorfia e una risata.
Steve prese una colazione standard e sette tazze di caffè
(sette tazze, sette giri di Jo con la brocca al suo tavolo),
aspettò la fine del suo turno ed erano tornati a Central
Park per un hot-dog.
Il primo invito a cena arrivò per lettera, una settimana
dopo. Jo scelse un vestito con la gonna a campana, aprì la
porta a Steve nascosto dietro un gigantesco mazzo di rose rosse. In
qualunque modo avesse fatto, si era procurato pure una scatola di
cioccolatini a forma di cuore, con il fiocco di raso rosso. Li
mangiarono assieme al tavolo del ristorante, con
un’orchestrina che suonava sotto la luna.
La tana di Otto
AVVISO (17/12/2012):
la cameriera del diner innamorata di Steve è stata
aggiunta (grido di gioia) alla lista personaggi, e si chiama
Beth. Josephine/Jo è un nome di mia invenzione,
perché quando ho cominciato a scrivere non sapevo ne
esistesse uno ufficiale. Oramai mi ci sono affezionata e ho deciso di
non modificare il nome nelle storie, ma il personaggio quello
è. Beth rimarrà il secondo nome :-)
Steve Rogers/Capitan America è fondamentalmente
un gentiluomo. Soprattutto al nostro gusto moderno il suo spirito e le
sue motivazioni suonano esagerate e cliché. Eppure a me il
modo in cui hanno scelto di rappresentarlo, nel film, è
piaciuto moltissimo: buono, idealista al limire dello sciocco. Ma io
sono come Phil (Phiiiil!) e se avessi delle figurine vintage le
porterei al capitano per un autografo.
Josephine sarebbe la ragazza che viene salvata e intervistata alla tv
dopo l'attacco alieno a New York. Amici informati mi dissero che
dovrebbe diventare la nuova morosa del Capitano, sono andata a cercare
sulla wiki il suo nome ma non ho scoperto molto. Probabilmente faranno
come con Jane e cambieranno nome o mestiere rispetto ai fumetti (Jane
sarebbe un'infermiera e non un'astrofisica). Diciamo che è
la mia interpretazione del personaggio così come, per ora,
è comparso nel film.
La storia è ambientata prima dei fatti di Avengers.
Spero di non aver aumentato troppo il diabete in giro per il fandom,
con questo sfacciatisimo fluff vintage!
Grazie a tutti quelli che leggeranno.
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