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© 11/06/2012
Disclaimer: I
fatti riportati di seguito non sono fatti realmente accaduti. La
maggior parte delle cose narrate è di mia
invenzione. I personaggi sono persone realmente esistenti ma
con questo scritto non intendo dare un'idea neanche vaga del loro vero
carattere, e non scrivo a scopo di lucro.
Avvertimenti: Storia ritirata fuori dagli anfratti loschi
della mia cartella "fanfictions" del PC. Rivista corretta e aggiornata.
Non se avrà un continuo o se rimarrà
così.
Estate 2008.
Scendo dall'auto, e
Ridgcrest mi sembra la stessa di sempre. Stesso cielo terso; stesso
verde abbagliante dei prati davanti alle villette a schiera, quelle che
viste da fuori sembrano tutte uguali, ma che pullulano di vite
così diverse l'una dall'altra.
Sono appena tornato
dalla rumorosa San Diego e quella che ho difronte è la casa
che ha ospitato gran parte della mia adolescenza. Sento l'odore di
ricordi nell'aria, mi inonda i polmoni e quasi brucia di un dolore
soffocato dal sole e dai colori che mi stanno attorno. Il punto
è che io ho sempre odiato questa città persa nel
nulla, ma in questo momento è come se sia l'unico posto che
mi faccia sentire a casa. Tutti abbiamo bisogno di un rifugio, dopo la
tempesta, e questo è sempre stato il mio.
Chiudo lo sportello e
apro quello posteriore con un movimento quasi automatico. Jack scende
sorridendo come solo un bambino di sei anni sa fare.
«
Papà, ho sete » si lamenta, sfoggiando
all'improvviso la sua espressione più supplichevole. Non
posso trattenere un sorriso divertito.
« Adesso lo
chiediamo alla nonna » gli dico.
Ogni volta che mi
soffermo su di lui, anche di sfuggita, mi accorgo che dopotutto
qualcosa di buono l'ho combinato anch'io. Alzo lo sguardo, e dall'altra
parte dell'auto Skye mi sorride divertita. Se pensiamo alla vita delle
persone, c'è sempre un momento in cui sembra andare tutto
alla grande. Hai una moglie, un figlio bellissimo, il tuo cane fedele e
una bella casa. Sei il padrone del mondo e senti davvero di poter
toccare il cielo con un dito. Ma sono sicuro che tutti, nel cuore della
notte, certe volte si sveglino e pensino a cosa ne è stato
del loro passato. E tutte queste persone, questi superstiti, io sono
sicuro che qualcosa di triste lo abbiano, a cui pensare. Tutti hanno
qualcosa, alle loro spalle, su cui piangere. Anche io.
Perciò no, la mia vita, come quella di molti, non
è perfetta. Solo bella. E' bella e mi basta così.
La macchina
è parcheggiata sul vialetto e sembra soffrire anch'essa
sotto ai raggi del sole di mezzogiorno, i ray-ban neri che ho addosso
sembrano non bastare contro il sole cocente tipico della California.
Cammino verso il portone con la mia famiglia alle spalle e suono il
campanello preparandomi psicologicamente per le facce dei miei genitori
quando mi vedranno. Sono passati quasi due mesi dall'ultima volta che
siamo venuti a trovarli, un tempo decisamente più lungo del
solito. Da quando non ci sono più band di importanza vitale
tra i piedi, e da quando c'è Jack, soprattutto, abbiamo
imparato a fargli visita più spesso. La porta si apre di
scatto e vedo gli occhi di mia madre piazzarsi immediatamente sui miei.
« Mark!
» urla subito, saltandomi al collo.
Lei non è
mai stata quel tipo di madre apprensiva o super protettiva. Non
è mai stata uno stereotipo. E' diventata così col
tempo, quando ha capito di stare invecchiando, quando ha capito che il
suo Mark non era più sempre lì per lei. E allora
ha cominciato ad aggrapparsi a me con tutte le sue forze come se io
fossi il suo unico appiglio. La vecchiaia ti fa rendere conto del
passare dei giorni, delle ore, dei minuti, anche degli attimi, qualche
volta, e allora ti attacchi a quei momenti per i quali vale ancora la
pena rimanere al mondo, e ti fai sorreggere da chi ti rimane a cui
voler bene, ma non sempre la cosa viene bene.
« Ciao
mamma! » sorrido mentre mi è ancora addosso.
Lancio l'ennesima occhiata a Skye che mi sorride amorevole.
« Nonna!
Nonna! Ho sete! » dice il piccolo Jack, a un metro di
distanza da noi.
Mamma si gira verso di
lui e lo saluta con tutto il calore che ha dato anche con me. In quel
momento vedo bene anche mio padre, a poca distanza, che la guarda, e il
suo sguardo vuole dire “ma guarda se deve fare tutte queste
scene”, ma no lo dice.
« Ciao Mark,
è bello rivederti » mi stringe la mano e mi passa
l'altra dietro le spalle per darmi un bacio per guancia. Gli sorrido e
rispondo: « anche per me. »
Mi addentro sperando
di trovare tutto come me lo ricordo. Il mio sguardo passa veloce su
tutti i mobili e su tutte le insenature che spero con tutto me stesso
di trovare al loro posto. Non c'è niente che non vada,
voglio solo essere certo di trovarmi nel mio passato con tutte le
scarpe.
E' quasi ora di pranzo
e si sente già il profumo del cibo provenire dalla cucina.
« Vi ho
fatto il pollo che vi piace tanto » annuncia fiera la mamma.
« E che
pollo sia » sorrido e mi avvio verso la tavola imbandita
mentre Skye appoggia le cose. Jack si siede accanto a me e al nonno.
Tre generazioni riunite sullo stesso tavolo.
Dopo il pranzo mi
prendo un momento per me, come sempre. Salgo le scale a due a due e
riconosco l'odore penetrante che ha caratterizzato i miei pomeriggi di
studio, al liceo. Quando entro nella mia cameretta, vedo che
è tutto come me lo ricordavo. Non hanno spostato niente.
Sono passati circa
cinque anni da quando i Blink 182 si sono sciolti, da quando il sogno
è finito e tutto ha ricominciato a scorrere veloce, e mai,
in questi tre anni, mi sono sentito in conflitto con me stesso come in
questo momento.
Apro un cassetto e
tiro fuori una foto stracciata in due e riattaccata in modo posticcio
con dello scotch trasparente; ci siamo io e Tom abbracciati uno vicino
all'altro, ora ognuno su un pezzo di foto differente, che guardiamo
l'obbiettivo. Ricordo bene quella foto; era stata scattata in occasione
di un articolo di un giornale che non ricordo bene, si intitolava
“Musica E Amicizia” e parlava dei legami che si
nascondono dietro a molte band di tutto il mondo. Conteneva
un'intervista mia e di Tom.
Giro la foto e
c'è una scritta in corsivo: “Lui
è il mio migliore amico e probabilmente lo sarà
sempre”.
Ed eccolo lì, il masso sullo stomaco, come sempre. Ricordo
che quella frase era stata evidenziata in neretto. In tutto l'articolo,
solo quella frase. Era il 1998, l'anno in cui Scott se ne
andò per disintossicarsi e Travis entrò a far
parte dei Blink 182. Forse era proprio quello il motivo per cui eravamo
stati scelti per quell'articolo. Per la serie: “Amicizia
oltre le avversità”, e invece poi è
andato tutto a puttane.
Rimetto la foto nel
cassetto e mi siedo sul letto strofinandomi gli occhi e facendo un paio
di respiri profondi.
Apro un altro
cassetto, e ne estraggo un foglio ripiegato. E' l'ultima pagina del mio
diario. E' ripiegata perché è l'unica che
è rimasta, il resto l'ho buttato nel fiume dietro casa il
giorno in cui ho detto addio a Tom.
L'ultima volta che
scrissi una pagina di diario fu quando ero un timido e impacciato
ragazzo di periferia, quando suonare e scrivere erano le mie uniche
valvole di sfogo. Tutto questo fu prima che incontrassi quello che
divenne il mio migliore amico per oltre quindici anni, e prima che la
mia vita prendesse la piega che poi ha preso. Perché da
quando la mia vita è cambiata, io non sono stato
più lo stesso. Solo l'ombra del ragazzino brutto e
introverso che ero, alberga ancora in me.
Bene, da quando la mia
vita è cambiata, il mio diario si è fermato ad un
punto morto. Avevo smesso di scrivere perché non ce n'era
più bisogno. La mia vita era perfetta, a quei tempi. Ora
sono qui, nella mia stanza da bambino, nella casa che una volta era
anche mia, in un domenica qualsiasi, e dentro di me mi sembra di essere
tornato lo sfigato di prima.
Mi guardo intorno e mi
accorgo che l'angolatura del sole che entra dalla finestra urta contro
la pila dismessa di CD sulla scrivania proprio come quando ero ragazzo.
Nella
staticità della mia vita, i Blink sono stati solo una
perentesi, uno strappo alla regola, e in questo foglio c'è
scritto tutto. C'è la storia di come tutto è
iniziato, dopodiché più niente. Ma mi viene
facile trarre le conclusioni. Con i Blink ero un vincente, per la prima
volta. Senza di loro sono tornato ad essere il perdente di sempre. E'
facile come fare due più due.
Poi decido che
può bastare, mi infilo il foglio ripiegato in tasca e torno
di sotto.
La televisione
è accesa su un telegiornale qualunque, ma non ci ho mai
fatto troppo caso a questo genere di cose. Preferisco di gran lunga
leggere un giornale la mattina presto, se proprio devo rimanere
aggiornato sulle attualità. Ma mi siedo accanto a Skye solo
per il gusto di farlo. Le cingo le spalle con un braccio mentre guardo
mio padre dondolarsi sulla poltrona alla mia destra, con il telecomando
in mano, come faceva quando ero bambino.
« Settembre
è sempre stato il mio mese preferito » mi sussurra
Skye, prima di darmi un leggero bacio sulla labbra. E' bella, lo
è sempre stata. Bionda, con quegli occhi color cioccolato
che mi hanno colpito dalla prima volta che li ho incrociati. Le dico
che è sempre stato un bel periodo, e subito dopo il
cellulare comincia a vibrarmi in tasca. Lo tirò fuori
velocemente e premo il tasto verde senza neanche guardare il mittente.
« Mark...
» E' la voce di un uomo, e sembra serio. Allontano il
telefono dallo schermo e leggo velocemente il numero di casa di Travis
sul display.
« Signor
Barker, è successo qualcosa? »
Sono concentrato sulla
sua voce, ma questo non mi impedisce di vedere Skye sporgersi un po' in
avanti verso la televisione, come per vedere meglio. Mio padre fa lo
stesso, e il mio sguardo viene catturato dalle immagini di una aereo
schiantato al suolo.
« A dire il
vero sì, tu ricordi che volo era quello di Travis? Sto
guardando un servizio al telegiornale. Un aereo si è
schiantato in Columbia.. e... spero non sia vero » La sua
voce viene rotta da quello che mi sembra un singhiozzo.
Guardo il servizio e cerco di ricordare, davvero, cerco di ricordare il
numero del volo, poi lo leggo in sovra impressione, e tutto acquista
più senso.
« Oh,
merda... » sussurro.
Skye si volta e mi
guarda, e il suo sguardo preoccupato mi fa luce su una storia che non
riesco a razionalizzare.
« Signor
Barker, resti dove sta, non si faccia prendere dal panico. Ho paura che
il volo sia il suo, io prendo la macchina e raggiungo il posto, le
faccio sapere al più presto » non gli do neanche
il tempo di rispondere perché il mio cuore inizia a
palpitare. Riaggancio il telefono e me lo infilo in tasca mentre mi
alzo in piedi. Skye si accorge e sussurra un
“Mark”. Ha gli occhi lucidi.
« Io vado a
vedere cosa è successo. In ogni caso stanotte non aspettarmi
in piedi »
« Facci
sapere appena sai qualcosa »
« Lo
farò »
Do un bacio a Jack, e
gli dico che torno presto, che devo fare una cosa per lo zio Travis.
Travis è il
terzo dei Blink 182. L'ultimo arrivato. E da quando il sogno si
è spezzato e la mia amicizia con Tom è finta, mi
è rimasto solo lui. L'unico vero amico, il primo dopo tanti
anni.
In macchina il mondo
sembra essersi fermato. O forse è il mio cervello che si
è fermato ad un punto morto. Prendo il telefono e chiamo
Travis: squilla a vuoto. E mi sale l'ansia. Penso che sto facendo una
cazzata, che il South Carolina è dall'altra parte
dell'America, che ci vorrà una nottata d'aereo per
raggiungerlo, eppure continuo a premere sull'acceleratore.
Cerco di ricordarmi il
numero di quel fottuto volo mentre provo a chiamarlo di nuovo, e di
nuovo squilla e nessuno risponde. Cerco di ricordarmelo solo per
sperare di essermi sbagliato, ma lo sguardo di Skye è stato
la conferma. Lei si ricorda sempre tutto.
Un incidente aereo. Le
immagini del servizio al telegiornale mi tornano in testa come dei
flash, ma sono troppo distratto anche per piangere. Troppo sulle
nuvole.
Penso che Travis
è l'unico amico che mi sia rimasto. Penso che è
il migliore che ho.
Non so
perché, non so davvero per quale assurdo motivo, ma ora come
ora vorrei avere Tom con me. Vorrei avere la sua voce che mi dice che
va tutto bene, una delle sue battute a portata di mano. Le vorrei avere
con me, perché lui ha sempre avuto più fiducia
nel futuro. Lui era quello positivo, io sono sempre stato quello
negativo. E Travis era quello neutro che ci univa. Senza Tom siamo
sempre stati incompleti.
La strada per
l'aeroporto non è neanche troppo lunga, riesco ad arrivare
in nemmeno mezz'ora, e penso che forse sono andato troppo veloce.
Scendo dalla macchina
e sono già dentro all'edificio. Sveltisco le operazioni
burocratiche per come posso, e sono felice di vedere che non
c'è troppa gente a fare la fila.
Dopo un'altra mezz'ora
sono in aereo, e il viaggio si sta dimostrando più
angosciante del previsto.
Sono in aereo mentre
è un aereo quello che si è schiantato dall'altra
parte dell'America. Mi salgono le palpitazioni, chiedo un bicchiere
d'acqua all'hostess e me lo bevo tutto d'un fiato.
Ci sono situazioni che
ce le immaginiamo solo nei film, poi quando accadono capiamo davvero il
significato di certi momenti. La classica scena da thriller in cui uno
dei due protagonisti corre verso il luogo del crimine e non sa cosa
incontrerà una volta arrivato. Una di quelle scene che si
guardano con passione, che a volte ci travolgono anche. Ecco, bene. Ora
capisco che in realtà quel sentimento è
più appropriato ad un film horror, perché
l'agitazione mi pervade a ondate, e cerco di calmarmi ogni volta che
arrivo al limite, ogni volta che sento di scoppiare.
Ad ogni turbolenza
faccio un salto sulla poltrona. Non immagino niente perché
il mio cervello non mi permette di farlo. E' tutto offuscato. Peso a
tante cose e le penso tutte insieme, così che il mio
cervello non recepisce davvero niente di tutto quello che mi attraversa
la mente.
Quando scendo
dall'aereo penso che è stato il viaggio più lungo
della mia vita. E vorrei Tom accanto a me.
Ok, eravamo un trio. E
il tre è il numero perfetto. Ora sono solo, solo contro il
mondo. Mai stato così solo come in questo momento.
Arrivo a Columbia in
un'ora, e mi rendo conto di non sapere niente di dove questo cazzo di
aereo si sia schiantato. Chiedo in giro, ma nessuno sa niente. Niente
di niente. Certo, un aereo si schianta nel bel mezzo di una
città e nessuno si accorge di niente.
Mi siedo su una
panchina e faccio il punto della situazione. Ho i polmoni contratti per
il viaggio in aereo, e cerco di respirare a fondo per riprendere
colore. Mi prendo la testa tra le mani e penso, penso ad un modo, uno
qualsiasi, per raggiungere quel cazzo di posto. Neanche me ne accorgo e
inizio a piangere, forse perché sto prendendo consapevolezza
di quello che sta succedendo. Travis era su quel fottuto aereo, e io
avrei potuto fare milioni di cose, se solo l'avessi saputo, per non
farlo partire.
Il cellulare mi
squilla in tasca, e le palpitazioni ricominciano da dove le avevo
lasciate. Leggo il mittente, c'è scritto Travis, ma la mia
testa è entrata in un meccanismo strano. Anche se
c'è il nome di Travis, sullo schermo, so già che
in realtà, quando alzerò la cornetta, non
sarà lui. Succede sempre così.
« Pronto
» balbetto, ormai in lacrime. Tiro su col naso.
« Mark...
Ehi, Mark »
Per un attimo credo
che non sia vero, per un attimo credo di essere morto e risorto.
Però è lui. E' Travis. E ho troppe cose da dire,
quindi sto zitto. Continuo a piangere su quella stupida panchina grigia
in una città che non conosco. Mi porto una mano alla bocca
per attutire i versi che la mia bocca produce senza il mio permesso.
C'è un bambino che mi guarda male, e io non so se ridere o
piangere.
« Cosa
è successo? » gli chiedo, in agitazione. In
realtà sono mille le cose che vorrei chiedergli.
« Come fai a
saperlo? » ha la voce stanca e rotta « sono in
un'ambulanza, mi stanno portando in ospedale, non so cosa sia successo,
non so un cazzo »
Travis sussurra, e
quasi è disperato, e quasi vorrei capirci qualcosa.
« In che
ospedale ti stanno portando? »
« Non lo so,
non lo so... » e la sua voce sfuma.
« Travis!
Rispondimi! »
Dall'altra parte della
cornetta si sente solo qualche rumore soffocato.
« Signore,
sono l'infermiera Figgins, mantenga la calma. Il suo amico è
in uno stato di non-coscienza. Lo stiamo portando in ospedale, al
Columbia Hospital, per capire la gravità del danno. Non
possiamo dirle di più. Arrivederci. »
L'infermiera richiude
la chiamata e mi lascia con il telefono appeso all'orecchio. Sono
contrastato tra sentimenti diversi. Non so se ridere o piangere, di
nuovo.
Chiamo un taxi e
raggiungo l'ospedale, e mentre sono in viaggio mi dico che ne ho
abbastanza di cambiare mezzo di trasporto ogni ora.
Penso che devo andare
con calma, con ordine, che sennò mi va in palla il cervello.
L'ospedale
è in tumulto. E' pieno di ambulanze, macchine e mezzi di
trasporto con ogni sorta di feriti a bordo. Sono talmente tanti che mi
impressiono. Entro dentro ma nessuno sembra così gentile da
darmi qualche informazione. Non li biasimo.
Mi metto seduto nella
sala d'aspetto insieme ad un'altra massa di gente e sto lì a
tormentarmi le mani, a cercare di non pensare e a sperare di vederlo.
Passa un'ora, ne
passano due, e dopo la terza ora le acque sembrano calmarsi. Vado alla
reception e cerco di farmi dire in che stanza l'hanno messo.
« E' un
familiare? »
« Sono suo
fratello »
La donna grassa mi
guarda da sotto gli occhiali a mezzaluna, e ha capito che è
una cazzata. Non dice niente, mi dice un numero che sono costretto ad
appuntarmi. Ecco l'America. Ecco la legge. In casi del genere non si
fanno problemi ad infrangerla, la legge. Ma per me è solo un
vantaggio.
Salgo tre piani di
scale a piedi, e mentre passo davanti alle grandi vetrate vedo che ci
sono i giornalisti fuori. Non me ne curo e passo avanti. Sono davanti
alla stanza e non voglio entrare. Guardo dall'oblò, ed
è pieno di gente attorno ad un lettino. Decido di aspettare
fuori.
L'ospedale
è un lungo corridoio bianco che sa di varechina. Di
disinfettante e di disinfettato. L'ospedale è un posto
brutto, io l'ho sempre sostenuto.
Sto lì per
un po', su quella sedia scricchiolante, finché un uomo alto
e brizzolato esce dalla stanza di Travis, e io lo fermo per strada.
« Mi scusi,
potrei avere delle informazioni? »
« Ah, lei
è il fratello del signor Barker? »
Per un attimo mi
confondo, poi ricordo.
« Ah,
sì »
« Bene,
allora le dico che il signore non è assolutamente in
pericolo di vita, ma ci sono dei rischi seri per quanto riguarda il suo
braccio sinistro. E' necessario operarlo, e anche in fretta. »
Ora il mio cervello
collega bene tutti i punti e sembra in grado di seguire un discorso
compiuto.
« Quali sono
le possibili conseguenze? » gli chiedo.
« Nel
migliore dei casi, l'intervento riuscirà, e con il tempo
acquisirà il completo uso dell'arto. »
« Nel
peggiore? »
Quest'uomo
è davanti a me e mi guarda preoccupato. Ha paura di dirmi
quello che deve, ma si vede che c'è abituato.
« Dovremo
amputarlo »
Rimasi in silenzio per
un secondo.
« E quante
probabilità ci sono? »
« Non so
dirglielo, signore, so solo che dobbiamo essere celeri. E
potrà vederlo solo ad operazione completata, mi
prenderò la premura di venirla ad avvertire, se solo mi
aspetterà qua »
«
Sì, grazie »
E se ne va in fretta.
Mi rimetto seduto per
qualche secondo e cerco di assimilare tutto. Poi mi alzo e mi allontano
in un posto tranquillo. Faccio tutte le chiamate. Il padre di Travis mi
raggiungerà subito, Skye starà a casa con Jack a
patto che la tenga aggiornata costantemente.
Poi ci penso bene.
Perdere un braccio, no, non esiste. Travis è morto senza un
braccio.
Mi ricordo di quando
mi ha raccontato della storia di sua madre, di come gli abbia detto di
continuare a suonare la batteria, perché era bello quando lo
faceva. Due o tre giorni dopo era morta. Ma lui me lo ha raccontato
solo anni dopo. Ricordo che gli brillavano gli occhi, quando me l'ha
detto. Però in quel momento ho capito cosa significasse per
lui la batteria. Cosa significasse la passione, e mettere il 100% di
noi stessi in quello che facciamo. Avere una motivazione, una
qualsiasi, che ti spinga ad andare avanti e a fare sempre meglio.
Senza la batteria lui
sarebbe stato perso. Questa era una di quelle certezze che ti colgono
al momento.
Skye mi ha avvertito
subito, quando ha visto la prima notizia comparire sui siti.
“Travis Barker in pericolo di vita: incidente
aereo”. E non è passata neanche mezza giornata.
Faccio finta di
niente, ignoro tutto fino alla fine.
Vado di sotto, al bar,
e mi prendo una camomilla, perché le palpitazioni non
smettono.
Skye me la fa sempre
quando mi agito perché sono un po' asmatico, e rischio che
mi venga un colpo.
Mi metto seduto su un
tavolino impolverato nell'angolo più nascosto del bar e bevo
la mia camomilla cercando di respirare e riprendermi.
Ad un certo punto lo
vedo entrare nel bar e chiedere qualcosa alla barista. Ha i capelli in
ordine, rispetto all'ultima volta che l'ho visto. Ha addosso un
giacchetto che sembra quasi serio. Ha le scarpe lucide, stento quasi a
riconoscerlo.
Tom. E' entrato e ha
fatto la sua ordinazione, poi si è voltato involontariamente
verso di me e mi ha fissato con la bocca semiaperta, io faccio lo
stesso, con la tazza di camomilla a mezz'aria. Lui distoglie subito lo
sguardo e fa finta di niente, prende la sua ordinazione e se ne va.
Sono scosso e non
capisco. E lo stomaco mi si chiude. Sento un dolore allo all'altezza
dell'intestino che mi fa un male cane. Dopo pochi secondi sono
già con la testa nel water a vomitare tutto. Tutto quello
che ho mangiato dalla mamma, la camomilla di prima, e anche tutte le
speranze ammaccate, tutte le parole non dette, l'incidente di Travis,
tutta l'ansia, lo sconforto, tutto il male degli ultimi cinque anni.
Tutto nel water. Tiro lo sciacquone.
Penso che arriva un
momento nella vita in cui senti il bisogno di buttare tutto addosso a
qualcosa. Di scrollarti dalle spalle tutto quanto. Qualsiasi cosa.
Quello era il mio momento.
Il fatto che Tom si
fosse ripresentato dopo cinque anni non è quello che mi ha
sconvolto. Mi ha sconvolto l'indifferenza nei suoi occhi. Anzi, direi
che mi ha ferito. Direi che è stato come essere stato
tradito due volte. Sta facendo male come una ferita aperta quando ci
butti sopra l'alcol.
Se penso a tutto
quello che abbiamo passato insieme non mi vengono le parole. E adesso,
ripiombare così dopo aver messo la parola fine a tutto...
sono solo contento per Travis, che era quello che alla fine dei conti
non c'entrava niente.
Un uomo fatto e
finito. Assolutamente niente a che fare con il Tom che conoscevo io.
Pago e torno di sopra,
e lo trovo lì, seduto su una sedia, magari anche lui ha
detto a quella grassona che è il fratello di Travis.
Mi avvicino
lentamente.
« Ciao
» gli dico, anche se so che lui non mi guarderà in
faccia e farà finta di niente. E invece la sua espressione
cambia. Da indifferente si fa diversa, sorpresa, azzarderei felice, ma
mi sembra esagerato.
« Ciao
» Mi fa.
E io penso che ora la
pagina di diario che mi ero messo nella tasca mi pesa da morire.
Mi allontano un
attimo, la prendo e la spiego. Inizio a leggere:
Caro
diario,
oggi
ho passato la nottata più bella della mia vita! Sono le 5:00
della mattina e sono appena tornato dal garage dove, pochi minuti fa,
stavo suonando cose dell'altro mondo. Ero con Tom, questo nuovo ragazzo
che ho conosciuto oggi. Me l'ha presentato Anne e lo trovo formidabile,
abbiamo già buttato giù qualcosa, anche se per
due giorni dovrà stare a riposo. Ha fatto un po' il gradasso
ed è voluto salire sul palo della luce, diciamo che ha fatto
un po' fatica a scendere e si è rotto una gamba! E' la
persona più divertente del pianeta!
Sorrido sinceramente
leggendo quelle poche righe. E non faccio in tempo a pensarci che mi
pizzicano già gli occhi. Forse mi trattengo
perché ce lui a pochi passi da me. Ripiego il foglio e me lo
rimetto in tasca.
« Hai saputo
qualcosa? » mi chiede, e io rimango davvero basito. Mi volto
e lo guardo.
« Lo devono
operare, rischia di perdere un braccio » gli dico secco,
diretto, perché la rabbia mi sale dentro e non riesco ad
essere gentile, è più forte di me.
Lo vedo sbiancare e
farsi subito serio e preoccupato, ma non si azzarda ad aggiungere
altro.
Dove sei
stato negli ultimi cinque anni? Vorrei chiedergli. Vorrei dirgli che se
n'è sbattuto di tutto e di tutti fino ad oggi, e poi viene
qui a fare il vecchio padre. No, non funziona così. Se sei
padre di qualcosa lo sei per la vita. Se crei qualcosa, sei
responsabile anche del suo collasso. E anche se nessuno di noi poteva
neanche lontanamente immaginare che tutto quello per cui avevamo gioito
era destinato a finire nel peggiore dei modi, le proprie
responsabilità uno deve prendersele sempre. E allora se
vuole giocare a fare l'uomo cresciuto, deve farlo su tutta la linea.
Eravamo all'apice del
successo quando i disaccordi erano cominciati a nascere. Io non so
stare con le persone, e questo lo sapevamo tutti sin dall'inizio. Dopo
un po' di tempo comincio a vedere i difetti, ed è
più forte di me, lo ammetto. Ma le sue crisi ho cominciato a
non reggerle più. Voleva qualcosa di più, non si
sentiva più un'adolescente. Non sapevamo cosa farcene di
quello che avevamo costruito. « Non esiste Peter Pan, tutti
crescono » aveva detto. E aveva ragione.
Cammino verso di lui e
mi metto seduto due sedie più in là. Non so che
fare. Non so che dire.
« Ma tu
l'hai visto? » mi chiede, e gli trema la voce.
« No, non
l'ho visto »
« Senti, non
mi sono fatto sentire per parecchio tempo, ma non c'è motivo
di trattarmi così. Siamo persone civili, no? »
Sento quelle parole,
ma non passano per le orecchie, arrivano direttamente al cervello. Mi
alzo in piedi.
« Persone
civili, Tom? » gli dico alzando un po' la voce.
Lui mi guarda senza
capire, ed ha questa faccia da schiaffi che avrei voglia di sbattere al
muro.
Mentre sto per
aggiungere qualcos'altro, mentre ho le lacrime sullo strapiombo, il
medico di prima si avvicina, e la mia attenzione viene catturata dalla
cartella che ha in mano.
« Signor
Barker » e Tom mi guarda strano « sono felice di
dirle che l'intervento è andato bene, e che non
c'è più pericolo per il braccio di suo fratello
»
Entrambi tiriamo un
sospiro di sollievo. Ci guardiamo, ma non è lo stesso. Non
è come cinque anni fa. In qualche modo siamo uniti dalla
notizia, ma per necessità.
Stiamo a debita
distanza, ci sfioriamo con lo sguardo poche volte, nei quarti d'ora
seguenti. Aspettiamo che il medico ci dia il via libera per entrare e
fargli visita nonostante ci abbia detto di tornare la mattina seguente.
Rimaniamo lì, perché siamo testardi allo stesso
modo.
Dormiamo accasciati
sulle sedie. Dormiamo, per modo di dire. L'ospedale è
sveglio per tutto il tempo. Ci sono casi da smaltire, gente da salvare,
braccia da rattoppare.
La mattina dopo siamo
distrutti entrambi, e solo adesso lo riconosco un po'. Solo adesso mi
sembra il Tom di prima. Con i capelli disastrati e lo sguardo mezzo
assonnato. Per un attimo mi illudo che sia un sogno, poi vedo le luci
dell'ospedale e le luci dell'alba, e le pareti bianche con il pavimento
lucido. Improvvisamente Tom è lo stesso di ieri.
Io mi alzo e chiedo
all'infermiera se è possibile entrare e salutare. Lei mi da
il via libera e io vado, con tutto il mio coraggio, e il cuore in gola.
Busso, entro senza
aspettare la risposta, e quando richiudo sento qualcosa che impedisce
alla porta di chiudersi del tutto: è il piede di Tom. Faccio
finta di niente, come se non esistesse. Entro e lo vedo steso sul letto
con il braccio fasciato, gli occhi semiaperti, la cresta bassa e
scompigliata, i tatuaggi sempre lì. Sono contento di vedere
che almeno lui è rimasto lo stesso.
Mi siedo accanto al
letto e aspetto che si accorga di me, lui lo fa e mi sorride.
« Dimmi cosa
cazzo è successo » mi sussurra.
Io sorrido, e sono
sicuro di avere gli occhi lucidi. Ora non ho più
palpitazioni, non ho più niente in corpo, davvero
più niente. Sono svuotato, ho ancora l'acido in bocca per
ieri. Sono solo contento che sia vivo.
« E'
successo che sei uno stronzo e mi hai fatto prendere un infarto
»
« Aspetta,
ma tu sei venuto qui dalla California? »
«
Già, ti odio » gli sorrido.
Lo vedo alzare lo
sguardo alle mie spalle, e cambiare espressione. So chi sta guardando,
so perché ha cambiato espressione.
« Siete
venuti insieme? » chiede.
« No!
» Ci affrettiamo a rispondere all'unisono, io con
più decisione di lui.
«
Immaginavo... » e volta lo sguardo verso la finestra.
So cosa sta pensando e
penso che abbia ragione, qualsiasi cosa lui stia davvero pensando.
« Mi hanno
detto che acquisirò di nuovo l'uso del braccio »
dice.
« Ed
è la prima notizia bella da molto tempo »
Poi alla fine li ho
lasciati da soli. Dovevano parlare, questo lo capisco. Ed è
in questi momenti che invidio Travis e la sua capacità di
tenersi strette le persone nonostante tutto. La capacità di
perdonare anche se qualcosa non gli va giù. La
capacità di essere come la svizzera, neutrale. Sempre.
Quando io e Tom
abbiamo iniziato a litigare, cinque anni fa, in tutto questo Travis
c'entrava lateralmente. Io me l'ero presa con Tom perché
ripeteva in continuazione di voler crescere, di voler mettere su
famiglia. Io gli dicevo: ok , vai, metti su famiglia, ti sosterremo.
Lui invece di agire continuava a lamentarsi, e alla fine le parole di
bocca glie le ho tirare fuori. Lui nei Blink non voleva più
starci, avevano cominciato a stargli stretti, e io non ero nessuno per
impedirgli di andare via.
In una band di tre
persone, se uno va via sono fuori anche gli altri. Fine dei giochi.
Questo lui lo sapeva bene. E anche se so che questa è solo
la mia padre della storia, posso dire che Travis non c'entrava niente.
Lui non era mai stato di parte, non litigava mai con nessuno, non
esprimeva mai pareri sostanziali. Lo ha fatto solo un giorno, ed
è l'unico giorno in cui l'ho sentito alzare davvero al voce.
Aveva urlato addosso a noi e ai nostri litigi. Addosso alla rabbia,
altra rabbia. Ci aveva detto che eravamo ancora dei bambini, ma non nel
senso buono, non secondo quello che i Blink predicavano, eravamo dei
bambini che giocavano a fare gli adulti e basta. Aveva ragione.
Diamine, se aveva ragione.
Penso sia stato dopo
quel giorno, che i Blink sono finiti davvero.
Tom esce dalla stanza
con lo sguardo martoriato. Sono passati 35 minuti.
Io entro senza
guardarlo in faccia.
« Che vi
siete detti? » chiedo a Travis, appena entro.
« Non troppe
cose, non è il momento adatto. Mi ha chiesto scusa, ma ci
credi? Tom DeLonge mi ha chiesto scusa.. Cavolo, non ci credo
»
« Wow, deve
essere cambiato sul serio » accenno. Ma non ci credo
veramente.
«
Sì, è cambiato. L'ho capito appena ha varcato la
soglia della porta. »
Lo guardo e penso che
è strana la vita. Accade qualcosa che fa accadere
qualcos'altro che fa accadere qualcos'altro ancora. Accade che Travis
ha un incidente, e i Blink si ritrovano per la prima volta nella stessa
stanza dopo cinque anni.
« Non so se
in meglio o in peggio » aggiunge poi.
Il giorno dopo siamo
di nuovo tutti qui.
Sono arrivato presto,
nonostante mi sia preso del tempo per organizzarmi, prenotare un hotel,
farmi mandare dei vestiti e rimettermi in forze.
Il padre di Travis
è arrivato ieri sera. Quando ha visto il figlio in quelle
condizioni è scoppiato a piangere come una fontana, neanche
a dirlo.
E' da tutta la mattina
che Tom cerca di attaccare bottone, non so perché abbia
deciso di cambiare idea all'improvviso. Prima mi ignora, poi sembra
quasi chiedere perdono. Forse è per questo che i Blink sono
finiti.
« Hai fame?
Ho portato dei tramezzini » mi dice.
Io lo guardo storto, e
mi chiedo se sia quello il modo di comportarsi.
« Tom,
sembri una checca isterica » gli dico, di getto.
Lui mi guarda, poi si
guarda – con la piccola scatolina di plastica appoggiata
sulle ginocchia strette – e scoppia a ridere. Io lo guardo e
scoppio a ridere con lui. Per un secondo ho la stessa sensazione che ho
avuto ieri guardandolo di prima mattina. Mi sembra che sia tornato
quello di prima.
Si toglie la scatola
di plastica dalle gambe unite e la appoggia sulla sedia che ci divide,
strisciandolo verso di me. Io guardo i tramezzini, e constato che sono
quelli di Jennifer, quelli che anche se ne mangi una vagone intero non
ti senti pieno. Non resisto e ne prendo uno. E' buonissimo, lo sapevo.
Lui mi sorride, e di
rimando lo faccio anche io. Ci sorridiamo mentre mangiamo i tramezzini
di Jennifer, è una scena che ho visto troppe altre volte.
« Tra poco
possiamo entrare » mi dice, e io annuisco.
Dopo un quarto d'ora
sono seduto sulla sedia accanto a Travis, e Tom è esaltato
perché l'infermiera gli ha dato il permesso di svegliarlo, a
patto che lo facesse con modi dolci. Ovviamente lui non gli ha dato
retta, ora apre le tende di scatto, e il sole punta gli occhi di Travis
in pieno. Allora bestemmia, uno due volte, e io non posso non ridere.
Travis mi guarda e guarda Tom, ci vede ridere, e credo non gli sembri
vero, ed è per questo che smettiamo di farlo. O perlomeno io
lo faccio per non dargli spago, per non far sembrare che la questione
sia sepolta, perché non è così.
« Buongiorno
Trav! » gli urla Tom nelle orecchie.
« Sei un
fottuto bastardo! Ringrazia Dio che non posso alzarmi e dartene quattro
»
Tom ridacchia e si
posiziona in pedi in fondo al letto.
« Come stai?
» gli chiedo.
« Bene. Hai
notizie degli altri? »
« A quanto
pare stanno tutti bene »
« E, nel
volo intendo, ci sono stati... morti? »
Abbasso lo sguardo.
« Quattro morti e molti feriti »
Il suo sguardo sembra
congelarsi all'istante.
« Ci pensate
che potevo esserci io, al posto loro? »
Rimaniamo tutti in
silenzio, perché nessuno di noi vuole davvero pensarci.
«
Però sei qui, giusto? Basta questo » dice Tom,
improvvisamente serio.
Vorrei annuire, dirgli
che condivido quel che ha detto, ma non lo faccio.
Ci sono limiti che non
vanno mai oltrepassati, e storie che non vanno mai dimenticate. Sono
testardo, me lo dico in molti e molto spesso, ma è
più forte di me. Ogni volta che vorrei sorridergli,
abbracciarlo, dirgli che mi è mancato da morire, non lo
faccio, perché non dimentico.
I giorni che hanno
seguito il litigio in cui Travis è riuscito ad esporsi e a
dare la sua opinione, furono tremendi. Ufficialmente i Blink 182
esistevano ancora, praticamente no.
Ricordo che in quel
periodo Travis mi chiamava in piena notte dicendomi che aveva paura di
perdere tutto, che non poteva finire così, che non ce n'era
motivo, che sarebbe passato tutto. Quella speranza, io l'avevo
già abbandonata molto tempo prima. Lui viveva nella costante
certezza che ci fosse un modo, uno qualunque, per aggiustare le cose.
Per lui era impossibile immaginarci divisi, era una cosa che il suo
cervello non riusciva a concepire.
Fossi stato nei suoi
panni, mi sarei sentito spezzato in due da me e da Tom,
perché in realtà quelli che si stavano dividendo
eravamo io e lui, Travis era solo una conseguenza.
Molte volte mi sono
soffermato a pensare a quale fosse stata la caratteristica di Tom che
mi ha fatto dire: “Ok, lui è il mio migliore
amico”. Ogni volta trovo una sola risposta. Anche ai tempi
del liceo, dal giorno in cui mia sorella Anne me lo aveva presentato,
avevo capito subito che non avrei mai più fatto a meno di
lui. E' stato forse il fatto che lui era uno sfigato come me, di quelli
il cui massimo divertimento era fare scherzi telefonici dal telefono
pubblico o rubare la carta igienica dal bagno delle ragazze. Avevo
trovato qualcuno in grado di capirmi e con cui condividere tutto, anche
la mia passione per la musica. Era a questo che pensammo la notte in
cui iniziammo a scrivere qualcosa insieme. Quando pensavamo ancora che
da tutto questo ne sarebbe venuto qualcosa di buono. E sembrava tutto
così reale da lasciarci buttare a capofitto in un qualcosa
che ancora non ci apparteneva davvero.
Lui era il migliore
amico che qualsiasi persona avrebbe mai potuto immaginare di avere.
Ripensandoci, non ho mai voluto dare nessuna scadenza a tutto quello
che vivevo, mi bastava essere presente.
Guardandolo ora,
appoggiato sulla ringhiera del letto, con i suoi occhi maturi e le
piccole rughette intorno agli occhi, capisco che i Blink sono stati in
piedi finché siamo stati adolescenti. Capisco che era un
progetto che potevamo plasmare e far crescere con noi, ma non
è successo. Lui ha preferito voltare pagina e andarsene.
Quando usciamo dalla
camera di Travis, lui mi si avvicina e mi prende un braccio prima che
io possa allontanarmi.
« Ei,
ceniamo insieme? »
Io mi volto, e tutta
quella familiarità, ora come ora, mi sta scomoda.
« Io non ti
conosco » gli dico. Lui mi guarda, io lo guardo. Non so
perché lo faccio, perché mi ostino a cambiare
idea così velocemente. Il minuto prima ridiamo insieme,
quello dopo vorrei che sprofondasse nelle incertezze che ha sempre
avuto. E spero davvero che stia capendo l'errore che ha fatto quando ha
deciso di cancellare tutto e ripartire da zero. Spero che capisca cosa
eravamo insieme, e l'importanza di ciò che ha distrutto.
Spero che lo capisca, soltanto questo.
Io non me lo sono mai
spiegato, com'è che se siamo insieme finiamo sempre per
sparare battute sconce sul sesso o sulle tette. Come se niente fosse
successo, ci mettiamo lì a riderci in faccia, e Travis ci
guarda con gli stessi occhi di sempre. Sembra tutto così
vero e naturale che per un attimo ci credo. Ma come sempre è
un attimo, e non significa più di tanto.
Il punto è
che mi faccio tante pippe mentali solo per darmi una motivazione, per
cercare di capire cosa diavolo sia successo, per dare un nome a quella
malattia che ha ucciso i Blink con tutta la sua violenza.
Ho letto su vari
articoli di giornale delle parole riportate da non so quale intervista
rilasciata da Tom stesso. Dicevano che era colpa nostra, mia e di
Travis, ma soprattutto mia. Che gli avevamo chiesto di scegliere tra la
famiglia e la musica. Che era pieno di rabbia. Che non avrebbe mai
voluto scegliere, ma che era stato costretto a farlo.
Io non ho mai
rilasciato nessun tipo di intervista. Tutto quello che avevo dentro
l'ho buttato via con i Plus 44, tutto quello che c'era di dire l'ho
detto attraverso loro.
Tom si è
incartato con le sue stesse mani. E' stato lui stesso a dirsi di fare
una scelta, perché secondo lui i Blink significavano
rimanere adolescenti per sempre. Io ripeto sempre che i Blink erano
qualcosa da poter trasformare e far maturare, ma serviva tempo.
Evidentemente nessuno di noi ha voluto davvero farlo.
Una volta stavo
ascoltando una canzone del suo nuovo gruppo, gli Angels And Airwaves
– e credo che quella sia stata l'unica volta che ho tentato
di avvicinarmi al suo mondo – e sono rimasto colpito da una
frase, più di tutte. Parlava dei sogni, diceva che i sogni
più piccoli vanno messi da parte, e che quelli
più grandi sono quelli che alla fine ti cambiano la vita.
Bene, sono stato circa
due settimane a chiedermi cosa cazzo volesse dire con quelle parole.
Perché sapevo che qualcosa volevano dire, perché
lo conosco abbastanza bene da sapere che non fa mai niente senza uno
scopo preciso, perché eravamo migliori amici, cazzo, eravamo
come fratelli.
Alla fine sono
arrivato ad una conclusione, e l'ho accettata come vera per non
rischiare di impazzirci sopra. Il sogno più piccolo di Tom
erano i Blink e quello che rappresentavano, era Peter Pan, rimanere
adolescenti per sempre. E io come lui ero consapevole di non poterci
riuscire, perché arrivi ad un punto della vita in cui hai
davanti delle scelte, e ognuna di esse ti porterà
inevitabilmente a cambiare te stesso. Non si sfugge, tocca a tutti, non
c'è un modo per rimanere fermi.
Il sogno
più grande era la musica, e di questo sono sicuro
perché me lo diceva sempre. Quello che non mi diceva, e che
io, sbagliando, ignoravo, era che la “musica”
potesse implicare qualcosa che non comprendesse i Blink 182.
Dopo qualche giorno le
acque sembrano essersi calmate. Anzi, io sembro essermi calmato. Ho
riposto le armi, ma questo non significa che debba necessariamente
smontare la difesa.
Nella vita ho imparato
che ci ti ferisce una volta, sarà capace di farlo di nuovo.
Però
iniziamo a salutarci da persone civili, se non altro. Non sento
più la necessità di fargli pesare il passato,
vedo che ci riesce bene anche da solo. Ecco, forse è vederlo
triste che mi frega. Vedere che ci tiene ad andare avanti, a superare
la faccenda. Forse ci sta riuscendo, a convincermi. Non lo so.
Fatto sta che giorni
dopo ci riprova. « Ceniamo insieme? » mi chiede, di
nuovo.
Stavolta ci penso un
po' di più, cerco di non sbottare, cerco di ragionare.
Dopo un po' rispondo:
« Ok » e me ne pento subito dopo.
Andiamo in un locale
qualsiasi, anonimo. Speriamo che non ci siano paparazzi, anche se
sappiamo che è impossibile. Ma non ci importa. Abbiamo
smesso di curarci dei gossip relativi ai Blink quando essi hanno
cessato di esistere.
Ci sediamo al tavolo,
e ci sentiamo osservati.
« So che
è una situazione del cazzo, e non pretendo niente...
» inizia lui.
« Tom, non
c'è bisogno che spieghi, ho già capito. Riponiamo
le armi, no? »
Lui mi sorride
amaramente.
« Ma non
sarà mai come prima, è questo quello che intendi,
vero? » aggiunge poi.
Io lo guardo e ci
penso su. L'aria si fa densa e pesante, quasi irrespirabile. Mi verso
un po' d'acqua e ne bevo un sorso.
« Tu hai
detto delle cose, a proposito dello scioglimento dei Blink...
» Faccio una piccola pausa. « Non so se quello
riesco a superarlo come se niente fosse. Erano accuse pesanti
»
Vedo il suo volto
cambiare improvvisamente espressione, si fa attonito. E proprio in quel
momento arriva il cameriere.
Ordiniamo in fretta,
c'è qualcosa di più importante da discutere. Il
cameriere se ne va con le ordinazioni.
« Ho solo
detto la verità. Cosa avrei dovuto fare? Ero incazzato, non
c'era molto da poter dire per camuffare la cosa » sussurra.
« La
verità, Tom? Hai detto al mondo intero che ti abbiamo
chiesto di scegliere tra tua figlia e i Blink... questa sarebbe la
verità? »
« Stai
dicendo che non è vero? Che non è andata
così? Lo sai anche tu che in fondo era questo ciè
che volevate dirmi... »
A questo punto mi
chiedo se i Blink si siano sciolti per un fraintendimento. Scaccio via
il pensiero perché è assurdo anche solo pensarci.
« Ti ho
chiesto di scegliere chi volevi essere. Ti ho chiesto di decidere, per
una volta nella tua vita, che tipo di uomo volevi diventare. Se con noi
o senza di noi! » sussurro, per non urlare.
Lui sembra sbuffare,
volge lo sguardo al pavimento accanto a lui e si abbandona sullo
schienale della sedia.
Arrivano le portate,
mangiamo qualche boccone.
« Come sta
Skye? » mi chiede.
La cena poi era finita
su altri argomenti. Abbiamo deciso di prenderci a piccole dosi, di non
esagerare. Ma la verità è che abbiamo entrambi
paura del confronto.
Se non altro non
c'è più il timore di litigare. Ci sputiamo cose
in faccia con molta più facilità. Non
c'è più niente da perdere.
Ma tutti e due abbiamo
una paura matta di analizzare la questione. Siamo terrorizzati da
ciò che ne potrebbe conseguire, ovvero la motivazione,
quella vera, del nostro divorzio. Perché di questo si
è trattato, di un divorzio.
Indubbiamente qualcosa
è andato storto. E' come quando finisce una relazione. Non
è che c'è un motivo, è che
semplicemente non funzionava. Però se si va a scavare un po'
più in fondo si comprendono altri motivi, nuove colpe, cose
un po' più profonde di un semplice “non
funzionava”. Quando qualcosa non funziona, si visita, si
studia, si trova un perché e si aggiusta. E' quello che noi
non abbiamo fatto.
Note: Bene,
spero vi sia piaciuta. Come ho già detto non so se
avrà un seguito, fatemi sapere se dovrei continuarla o
lasciarla così. ^^
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