Note:
In risposta alla sfida di emme,
che mi aveva maledettamente
infilato gli obblighi a) un caso in corso; b) non pre-slash; e c) il
suddetto caso deve avvicinare sentimentalmente Sherlock e John. Dio,
quanto ti detesto e ti amo. Non so se sono riuscita a beccare in
pieno il fattore slash, ho fatto del mio meglio ma non
ti
dirò mai che mi sono divertita.
*
A
emme, perché sotto sotto se la merita
Pane
di teff
John
era sopravvissuto all'Afghanistan e a ciò che aveva
comportato
ritornare a Londra dopo l'Afghanistan. La vita comune, la routine di
ogni maledetto giorno che aveva ripreso imperterrita a far scoccare
le ore del suo orologio, alzarsi di scatto con la mortale convinzione
di essere ancora là, ancora pronto, in mezzo a una
guerriglia che
avrebbe deciso se per lui ci sarebbe ancora stata una routine...
c'era stato un tempo in cui aveva creduto di non essere pronto ai
ritmi di Londra. C'era davvero stato un tempo in cui aveva creduto
che Londra lo avrebbe fatto impazzire. Poi Sherlock Holmes era
piombato nella sua vita ed era davvero impazzito.
*
«Ti
piace la cucina etiope?» gli chiese improvvisamente Sherlock,
alzandosi di scatto dalla poltrona e facendo schioccare le dita.
«Io
adoro il wot».
John
sollevò lo sguardo dalla vecchia copia del Daily Mirror e
rivolse al
compagno un'occhiata a metà fra l'esasperato e
l'interessato.
Ripiegò con cura il giornale, lo appoggiò sul
treppiedi accanto a
sé e si massaggiò le palpebre con un profondo
sospiro. Sherlock si
era perso nei proprio intricati e malati pensieri per almeno trenta
minuti, e lui aveva trovato il tempo di farsi un sandwich, dare
un'occhiata ai risultati del Liverpool, lucidarsi le scarpe e leggere
buona parte della sezione economica del quotidiano che aveva
tralasciato il giorno prima, quando quel folle lo aveva trascinato in
un supermercato di second'ordine lungo la Evelyn per acquistare un
paio di pagnotte. Venticinque minuti di corsa sfrenata per due pezzi
di pane che non erano stati buoni nemmeno intinti nel latte caldo,
eppure Sherlock gli era parso soddisfatto come un ragazzino davanti
ai pacchi di Natale da scartare.
«Due
piatti di beg wok e due bicchieri di talla, John. C'è un
adorabile
ristorantino proprio a Wembley: Mandeville è chiusa per
lavori per
altre due ore, diremo al taxi di deviare per la Harrow. Evitiamo
taxisti indiani, sono i più lenti ad attraversare le zone
industriali» continuò imperterrito Sherlock,
gettandosi addosso il
cappotto. «Dio, ma che strade hanno, a Nuova
Dehli?» aggiunse
scocciato.
Quando
John arrivò in strada, Sherlock era già
accomodato nel sedile
posteriore di un taxi guidato da un cinese e lo aspettava con
evidente impazienza. Entrò nella vettura e si
lasciò scivolare
stancamente contro il poggiatesta.
«Non
essere ridicolo» lo rimproverò Sherlock.
«Hai dormito ben sei ore,
questa notte, e per un soldato con una media di dieci ore di sonno
alla settimana è notevole».
John
mugugnò lamentoso.
«E
come diavolo l'avresti dedotto?».
«Perché
ho puntato la sveglia».
Per
convincere il taxista a deviare per la Harrow. Sherlock discusse per
dieci abbondanti minuti. Si scoprì poi che non veniva dalla
Cina, ma
dal Nepal – e questo Sherlock lo sapeva – ma in
quel momento John
suppose che dovesse avere così tanto appetito da mettere da
parte il
suo intramontabile bisogno di avere un pubblico. Evitò di
sottolineare i svariati motivi per i quali sarebbe stato ovvio capire
che il taxista aveva rapporti burrascosi con la moglie di origini
occidentali e mise piede davanti al piccolo ristorante molto
più
agitato e insofferente di quanto non fosse a Baker Street.
Sebbene
in Afghanistan John avesse rodato una notevole capacità di
adattamento al cibo, non aveva mai provato la cucina etiope. E se
anche così fosse stato, Sherlock avrebbe comunque ordinato
per due
quel cavolo che gli sarebbe saltato per quella bacata mente di genio.
«Avanti»
lo incitò John non appena il cameriere gli ebbe portato una
scodella
ricolma di un poltiglia marrone ben poco invitante.
«Perché stiamo
mangiando... cos'è che sto per mangiare, scusa?».
«Kifko,
John, stai per degustare del buonissimo kifko».
«Sì,
interessante descrizione. E perché, di grazia, stiamo
mangiando questo
schifo?».
«Perché
è buonissimo e perché il nostro cameriere
è l'autore
dell'impreciso e noiosissimo omicidio di una donna che abitava al
quarto piano di quel palazzo».
John
rimase immobile con la forchetta a mezza via e un'espressione
sconcertata sulla faccia. Richiuse la bocca e mentre guardava in
direzione del dito di Sherlock sentì scemare quel poco di
fame che
si era portato dietro da Baker Street. Avrebbe benissimo potuto
immaginarlo, avrebbe dovuto essersi abituato, avrebbe dovuto
sapere che Sherlock non lo avrebbe invitato a mangiare
cucina
etiope per il solo gusto di saggiare le delizie della gastronomia
esotica. Era talmente ovvio che John non ci aveva nemmeno pensato
–
e dire che ci era abituato, ci era abituato eccome. E ogni volta
finiva sempre per illudersi della normalità di Sherlock,
della sua
assoluta conformità al resto del pianeta, del fatto che
dovesse
esserci un essere umano, da qualche parte sotto le sue psicosi
iperattive. Pareva proprio che nascosto sotto Sherlock Holmes non ci
fosse nient'altro che Sherlock Holmes, e John non era ancora certo di
quanto ciò potesse rivelarsi negativo. Di certo sarebbe
stato assai
negativo per la serenità dei suoi nervi di soldato in
congedo, ma
grazie al cielo John aveva scoperto di detestare il boato di uno
sparo molto meno della radiocronaca di una partita di calcio: aveva
bisogno di Sherlock, aveva bisogno dell'adrenalina che sentiva fluire
nel corpo quando la sua megalomania lo trascinava nelle imprese
più
assurde e pericolose. Aveva bisogno di Sherlock Holmes, aveva davvero
bisogno che lo mantenesse vivo.
«Ed
è la stessa giovane donna che Lestrade ha--».
«Clarisse
Baydon, soffocata nel suo appartamento, single, in cerca di una
relazione stabile, mancina, ossessionata da riti scaramantici di
dubbia funzionalità» elencò
distrattamente Sherlock, imboccando
famelico un boccone di wot. «Mmh, è delizioso,
John, mangia. Il
nostro cameriere può averla conosciuta qui o in quel
supermarket
laggiù, dove lei lavorava part-time, quasi sicuramente là,
perché non credo che una cassiera dal contratto part-time
possa
permettersi di mangiare al ristorante etiope più volte in
una
settimana».
«E
perché avrebbe dovuto strangolare la donna di cui era
interessato?».
«Come
può un uomo che viene regolarmente scaricato da tutte le
donne di
cui si interessa pormi una domanda tanto sciocca?» lo
rimbeccò con
un sorriso lesto Sherlock. «Non credo che Clarisse Baydon
fosse
interessata a lui – era interessata, sì, ma non a
lui. Niente
segni di scasso sulla porta, ma il gancio di ottone della catenella
era stato staccato da un colpo violento – conosceva il
proprio
assassino, ma non abbastanza per farlo entrare in casa. Donnina
fragile, Clarisse Baydon, e il nostro cameriere era molto arrabbiato
e si è lasciato ispirare dall'unica arma che poteva trovare
su due
piedi – la busta di plastica della spesa di Clarisse Baydon,
rapida
ed efficace, ma non troppo silenziosa, perché pochi minuti
dopo i
vicini erano già usciti per controllare cosa fosse successo
e del
nostro cameriere, puf, non c'era più
traccia. Non in strada,
non nel palazzo, non nel quartiere; nessuna macchina, nessuno
spostamento lungo, e non puoi sparire tanto in fretta se non hai un
posto tranquillo al quale fare ritorno. Questo
è un posto
tranquillo, per inciso».
John
si massaggiò la tempia sinistra e alzò l'altra
mano in segno di
resa.
«D'accordo»
brontolò spossato. «Ma perché il
cameriere?».
Sherlock
lo fissò per un lungo silenzio come se non riuscisse a
credere alle
proprie orecchie e John si trattenne per l'ennesima volta dal
desiderio di mandarlo al diavolo. La totale incapacità di
Sherlock
di accettare il fatto che la gente normale non
riuscisse a
seguire i suoi ragionamenti era snervante. Grazie al cielo John era
dotato di infinita pazienza.
«La
farina, John, la farina!» sbottò. «La
farina».
John
continuava ad esibire un'espressione persa.
«La...
farina?».
«La
spesa si era rovesciata e la farina si è sparsa sul
pavimento.
Farina bianca, Clarisse Baydon aveva comprato farina bianca, non
scura come quella che aveva sulle spalle, ma bianca. Compra farina
bianca ma si sporca di farina scura, quella di teff, e dove in questo
quartiere puoi trovare farina di teff?».
«Fammi
indovinare: in questo posto tranquillo?».
Sherlock
afferrò una pagnotta gialla e gliela lanciò.
«Elementare,
John. Hai vinto un pezzo di pane».
*
«Come
facevi a sapere che era il cameriere?» gli domandò
John a Baker
Street, mentre si rigirava la pagnotta di teff che si era portato via
dal ristorante qualche ora prima. «Perché proprio
il cameriere?».
Sherlock
fece le spallucce.
«Ho
tirato a indovinare, era un caso così ovvio e
noioso».
John
pensò non fosse assolutamente il caso di replicare,
né di
sottolineare quanto poco ci fosse di noioso in un omicidio, ma erano
questioni alle quali la mente del compagno non sembrava in grado di
arrivare. Non sembrava nemmeno intenzionato a soffermarcisi sopra
giusto il tempo di rendersi conto che dietro ad ognuno dei suoi
noiosi casi c'era una persona brutalmente
assassinata. Staccò
con poca convinzione un pezzetto di pane e lo scrutò con
aria
indagatrice. Sherlock sollevò lo sguardo dal computer e per
un
istante John ebbe la netta sensazione di aver finalmente attirato
tutta la sua effimera attenzione.
«Pane
di teff...» disse fra sé e sé.
«Non sembra granché. Di', questo
colore ti sembra commestibile?».
Il
movimento di Sherlock fu così rapido e inaspettato che per
un attimo
John credette di esserselo solo immaginato. Allungò il collo
verso
il pezzo di pane che gli stava mostrando, aprì appena la
bocca e se
lo inghiottì. L'altro raggelò: i polpastrelli
bagnati della saliva
di Sherlock gli prudevano terribilmente e provava una strana
sensazione di freddo laddove cinque secondi prima lui aveva
appoggiato le sue labbra. Era una sensazione disarmante che John non
aveva mai provato – né avrebbe pensato di provarla
in
quell'istante, in quel posto e con quel dannato coglione di Sherlock
che se ne stava tutto tranquillo a masticare il suo pezzo di pane. Si
guardò le dita con aria perplessa.
«È
commestibile».
«Come?».
«Puoi
mangiarlo» lo rassicurò Sherlock con espressione
divertita. «È
buono».
Si
alzò in piedi, si avvicinò a lui e mentre lo
fissava John si sentì
nuovamente paralizzato dallo sgomento. Sherlock era una presenza
devastante nella sua vita. Era sempre lì attorno, a
impedirgli di
tenersi alla larga da tutti i casini in cui finivano per cacciarsi e
per qualche assurdo motivo era esattamente quello che voleva. Aveva
bisogno di Sherlock, aveva davvero bisogno che tenesse la sua vita
appigliata a qualcosa di altrettanto vivo. Non aveva la più
pallida
idea di cosa gli stesse passando per la testa, né in quel
momento si
prese il disturbo di domandarsi se si rendeva conto delle conseguenze
di quanto stava per fare.
Si
sollevò appena sulle punte dei piedi e appoggiò
il viso a quello di
Sherlock, senza muoversi, senza dire niente. Rimase attaccato a lui,
a respirare l'aroma del suo dopobarba e cercando di capire cosa
stesse succedendo – cosa gli fosse sfuggito.
Sherlock
restò accanto a lui con un sorriso sornione stampato sulla
faccia:
qualunque cosa fosse sfuggita a John a lui non era mai sembrata tanto
elementare.
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